Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 8/4/2015, 8 aprile 2015
DERIVATI, LO SCONTRO SUL ROSSO DI 42 MILIARDI
Ci sono le teorie del complotto di Renato Brunetta. Ma ci sono anche le perplessità dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, l’organismo indipendente che vigila sui conti pubblici, guidato dal professor Giuseppe Pisauro. E ci sono i silenzi del ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan. Sintesi minima: i contratti derivati costruiti sul debito pubblico italiano al momento stanno causando una perdita potenziale di 42 miliardi (al 31 dicembre 2014), ma non si può capire esattamente perché e soprattutto che possibilità ci sono che da potenziale quella perdita diventi concreta. Perché i contratti sono segreti.
Nel 2011 il governo Monti decide di “chiudere” un derivato con Morgan Stanley e paga 2,6 miliardi di euro. I derivati sono scommesse tra due soggetti, se si verificano alcune circostanze uno vince e l’altro perde, chi vince incassa e chi perde paga. I più diffusi sono gli swap sul tasso di interesse. Una parte paga all’altra un flusso di interessi calcolato sulla base di un tasso fisso e riceve in cambio un flusso di interessi sulla base di un tasso variabile (o viceversa). Secondo la Procura di Trani, una decisione immotivata di Standard & Poor’s, l’agenzia americana di rating, di declassare il debito pubblico italiano spinge Morgan Stanley a decidere di terminare la “scommessa” col Tesoro e incassare la vincita. Secondo il capogruppo di Forza Italia, Brunetta, è la prova del complotto: anche perché Morgan Stanley ha una (piccola) quota di McGraw Hill, la società che controlla Standard & Poor’s. I mercati hanno voluto abbattere il governo di allora, quello di Silvio Berlusconi. Il caso arriva nella commissione Finanze della Camera, guidata da Daniele Capezzone (Forza Italia) che ha lanciato un’indagine conoscitiva sui derivati. Il Tesoro risponde con una controffensiva di comunicazione: documenti, spiegazioni, FAQ e anche una sezione “vero o falso” sul sito del ministero. La spiegazione del caso Morgan Stanley smonta la ricostruzione di Brunetta ma conferma anche il fatto che in quei mesi difficili i protagonisti della finanza hanno preso decisioni molto politiche: “Morgan Stanley avrebbe potuto chiudere la propria posizione molto prima del declassamento annunciato da S&P nel settembre 2011 perché tale focalità era collegata a un limite contrattuale prestabilito di esposizione di minimo 50 e massimo 150 milioni di dollari. L’esposizione di Morgan Stanley era invece di circa 3 miliardi di euro”. E quindi la banca americana avrebbe potuto chiudere il contratto già molto tempo prima. Invece lo fa soltanto nel 2011 perché, spiegazione del Tesoro, “alla fine del 2011 la reputazione della Repubblica appariva così fragile che Morgan Stanley ritenne di non poter tralasciare di avvalersi della posizione di forza che la clausola le conferiva”. Cioè temevano che, nonostante il passaggio da Silvio Berlusconi al governo tecnico di Mario Monti, l’Italia fosse a rischio default e quindi hanno preteso di avere indietro i loro soldi.
Se il tesoro non avesse pagato, l’Italia avrebbe certificato di non essere in grado di onorare i suoi impegni e “il danno reputazionale che ne sarebbe derivato sarebbe stato enorme”. Ma quel caso è soltanto l’inizio della contesa sui derivati. La commissione Finanze, con un arco di parlamentari molto attivi che va da Forza Italia al Movimento Cinque Stelle, ha ingaggiato da mesi un duello con il Tesoro per sapere quanti altri casi come quello Morgan Stanley ci sono e qual è la condizione del portafoglio derivati italiano.
Sappiamo che i contratti riguardano circa 160 miliardi di debito (il cosiddetto “nozionale”) e che al momento sono in perdita di circa 42 miliardi, dato in crescita. Ma non sappiamo esattamente perché e quale rischio c’è che la perdita si concretizzi. I funzionari del Tesoro hanno lavorato molto in questi anni per arginare quel buco nero che erano i derivati nelle amministrazioni locali: firmati da assessori poco competenti e corrotti e da banchieri con pochi scrupoli, hanno stritolato parecchi Comuni e Regioni. I derivati per gli enti locali da un paio d’anni sono vietati, quelli sopravvissuti riguardano soltanto 1,4 miliardi di nozionale (la cifra sottostante) e a giugno 2012 erano in perdita di 1,3 miliardi. Ma è anche in corso un’operazione di riacquisto da parte del Tesoro che permette a molte Regioni di chiudere il derivato indebitandosi col ministero e guadagnando anche somme consistenti. Il punto critico restano i derivati sul debito pubblico nazionale: in gran parte swap stipulati per proteggere l’Italia da un rialzo dei tassi come quello sperimentato nel 2011-2012. Visto che da allora i tassi sono scesi, per le scelte della Bce, invece che risparmiare siamo in negativo (il Tesoro ricorda giustamente che, senza quei contratti, forse il conto sarebbe stato più pesante, anche se non è dato sapere quanto).
Secondo le precisazioni del Tesoro, il caso Morgan Stanley è unico, ci sono invece altri contratti in cui entrambe le parti possono chiedere la chiusura anticipata: al momento la posizione italiana è in rosso di 9,3 miliardi su questi contratti, 2,7 su quelli che si possono estinguere tra 2016 e 2018. Niente drammi, quindi, dicono Pier Carlo Padoan e la responsabile del debito pubblico, Maria Cannata. Secondo Eurostat, l’agenzia statistica europea, l’Italia è però il Paese più esposto al rischio di pesanti perdite sui derivati. A fine 2013 pochi Paesi avevano un mark to market (valore teorico di realizzo) pesantemente negativo: l’Italia con 28,9 miliardi (nel frattempo cresciuti a 42), la Grecia con 3,9 e la Germania con 16,8. La piccola Olanda, invece, grazie ai derivati guadagnava 9,6 miliardi teorici.
Padoan ha risposto alle richieste di Brunetta e della commissione Finanze che non si possono rivelare tutti i dettagli perché “determinerebbe uno svantaggio competitivo dello Stato” e inoltre “porrebbe in svantaggio competitivo anche le controparti stesse del Tesoro nei confronti di altri operatori di mercato”. Traduzione: il Tesoro potrebbe strappare condizioni meno favorevoli e le banche che lavorano con l’Italia sarebbero danneggiate nel confronto con chi fa affari con altri Paesi, col risultato che pagheremmo interessi più alti.
Brunetta non è convinto, ma neppure l’Ufficio parlamentare di bilancio, l’istituzione che deve certificare alla Commissione europea la correttezza dei nostri conti pubblici: “Un problema che è rimasto e continua ad alimentare incertezza è l’assenza di un’informazione pubblica periodica sulle caratteristiche delle operazioni stipulate”, si legge in un approfondimento firmato da Emilia Marchionni e Maria Rosaria Marino.
Lo scontro continua.
In attesa di capire quanta parte di quei 42 miliardi di “rosso” teorico dovremo davvero pagare.
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Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 8/4/2015