Nuccio Ordine, Sette 3/4/2015, 3 aprile 2015
CENT’ANNI FA UN RIBELLE PIENO DI CONTRADDIZIONI CI INSEGNÒ A PENSARE DA UOMINI LIBERI
«Eretico per alcuni e reazionario per altri; uno che, per così dire, è sopravvissuto a se stesso: ecco come sono visto dai miei contemporanei»: così, con un’immagine fulminea, Albert Einstein — in una lettera indirizzata il 28 marzo del 1949 al suo caro amico Maurice Solovine, fisico e matematico rumeno — descrive il contraddittorio ritratto di se stesso dipinto dai suoi interlocutori. «Lei immagina — insiste con autoironia — che io guardi con serena soddisfazione all’opera della mia vita. Vista da vicino, però, la realtà è ben diversa. Non c’è una sola idea di cui io sia convinto che sia destinata a durare».
Eppure, a distanza di cento anni dalla famosa scoperta della formula della relatività generale (1915-2015), il geniale scienziato continua ad essere ricordato come uno dei più grandi pensatori della storia dell’umanità. Non solo, nel 1999, in un sondaggio effettuato dalla rivista Physics World, i cento più importanti fisici del mondo lo avevano eletto al primo posto nella storia della disciplina, davanti a Newton e a Maxwell (e nel dicembre dello stesso anno Time gli dedica la copertina, nominandolo «personalità del secolo»). Ma nel corso del Novecento, soprattutto dopo il premio Nobel ricevuto nel 1921, il mito di Einstein ha raggiunto una straordinaria popolarità in ogni ambito della cultura: dalla musica (i Beatles, Dylan, Clarkson, De André) al cinema (Genio per amore con Walter Matthau, Il mio amico Einstein con Andy Serkis), dalla televisione (Einstein di Liliana Cavani) alla letteratura (La ragazza e il professore di Jean Claude Carrière, I sogni di Einstein di Alan Lightman), dall’opera (Einstein on the Beach di Philip Glass) alla pittura (si pensi alla serie di ritratti realizzata da Andy Warhol). E, sempre da Einstein, hanno preso il nome, oltre a diversi celebri premi scientifici, anche edifici, strade, scuole, laboratori, un cratere lunare, un asteroide, stazioni di metropolitane, giocattoli, videogames, mini-serie per bambini.
Il 2015, in effetti, sarà l’anno di Einstein. Studiosi di tutto il mondo, infatti, sono mobilitati per commemorare il centenario della scoperta della formula della relatività: il ciclo dei festeggiamenti è stato aperto in gennaio a Gerusalemme dal premio Nobel per la fisica David Gross, mentre convegni e conferenze si annunciano in prestigiose università e centri di ricerca a Cambridge (UK), a Berlino, a Parigi, a Boston, a Princeton, a Waterloo (in Canada), a Roma, a Vienna, a San Francisco, a Pasadena. E anche la Princeton University Press, per celebrare l’importante anniversario e per ricordare il ventennio di Einstein trascorso a Princeton, ha offerto gratuitamente online, da poche settimane, i primi tredici volumi (sui trenta previsti) delle sue opere, in cui, oltre ai suoi scritti scientifici, figurano anche lettere e documenti.
Mistico e laico, pacifista e ideatore della bomba atomica, conservatore e progressista, realista e sognatore, solitario e socievole, egoista e altruista, orgoglio degli Stati Uniti e sorvegliato speciale della FBI: spiazzando coloro che avrebbero voluto schiacciarlo esclusivamente su uno solo dei due estremi, Einstein è riuscito comunque a scrollarsi di dosso ogni rigida etichetta. Del resto, basta scorrere con attenzione l’album delle sue foto per ritrovare anche qui il gioco delle opposizioni: lo scienziato serio che trascrive formule su una lavagna o che discute animatamente con i suoi colleghi e lo scienziato irriverente che esausto, durante la festa del suo settantaduesimo compleanno, non esita a fare la linguaccia, consegnata poi alla storia dal celebre scatto di Arthur Sasse.
Un’appassionata testimonianza del suo ricco e complesso percorso umano e intellettuale è documentata in due opere affascinanti, entrambe pubblicate in italiano da Bollati Boringhieri: Autobiografia scientifica (1949) e Pensieri degli anni difficili (1950). In questi testi — e negli scambi epistolari, a tratti commoventi, con Michele Besso, con Max Born, con Maurice Solovine, con Sigmund Freud e con tanti altri scienziati e intellettuali suoi contemporanei — si possono ritrovare i grandi temi che sono stati sempre al centro della sua esistenza: il rapporto tra la scienza e gli altri saperi (la letteratura, la filosofia, l’arte), l’avversione per i dogmi, i dubbi sulla meccanica quantistica, la dialettica tra esperienza e teoria, il rifiuto del nazionalismo, l’orrore per lo sterminio nazista degli Ebrei, l’attenzione per l’educazione dei giovani e la scuola, la necessità di istituire un governo mondiale, la preoccupazione per i mass-media asserviti al potere, il ruolo degli intellettuali nella costruzione della pace, le pericolose intrusioni del militarismo nella ricerca scientifica e nelle scelte politiche degli Stati, l’inquietudine per la decadenza morale, l’incessante lotta per la libertà.
Einstein rivela che l’amore per la conoscenza affonda le radici già nella sua infanzia quando, intorno ai quattro o cinque anni, suo padre gli mostra una bussola: «Il fatto che quell’ago si comportasse in quel modo non si accordava assolutamente con la natura dei fenomeni che potevano trovar posto nel mio mondo concettuale di allora, tutto basato sull’esperienza diretta del “toccare”». Da quell’esperienza, fondata sullo scontro tra «un mondo di concetti stabili» e qualcosa di nuovo che lo contraddiceva, il bambino Einstein capisce precocemente che «dietro alle cose doveva esserci un che di profondamente nascosto». E proprio a partire dalla «meraviglia» — probabilmente lo scienziato alludeva nei suoi scritti a uno dei celebri passi della Metafisica di Aristotele: «Gli uomini hanno cominciato a filosofare a causa della meraviglia» — si scatena il bisogno di indagare e conoscere.
Libero pensatore. Così a dodici anni, attraverso «la lettura di libri di divulgazione scientifica», Einstein si convince che «molte delle storie che raccontava la Bibbia non potevano essere vere». E proprio lui «religiosissimo» — benché «figlio di genitori (ebrei) completamente irreligiosi» — diventa «un accesissimo sostenitore del libero pensiero, accomunando alla nuova fede l’impressione che i giovani fossero coscientemente ingannati dallo Stato con insegnamenti bugiardi». In questi anni, infatti, matura precocemente un rifiuto della «macchina educativa tradizionale» fino ad assumere un «atteggiamento di sospetto contro ogni genere di autorità».
Su queste solide basi — caratterizzate dalla lotta a ogni forma di dogma e di auctoritas — il giovane Einstein fonda la passione per la ricerca della verità che segnerà tutta la sua vita. Le pagine dedicate all’insegnamento e alla scuola meriterebbero di essere imparate a memoria da legislatori e professori. Innanzitutto la necessità di preservare la «divina curiosità che ogni bambino sano possiede, ma che tanto spesso viene precocemente soffocata». Far «leva sulla paura, sulla forza e sulla falsa autorità» è «il sistema peggiore» nell’insegnamento perché «distrugge i sentimenti sani, la sincerità e la fiducia in se stesso dell’allievo» e finisce per produrre «dei soggetti sottomessi». Non servono mezzi coercitivi, perché «il rispetto dell’allievo» deve nascere «solo dalle qualità umane e intellettuali dell’insegnante stesso».
Le riflessioni sugli effetti negativi della specializzazione dei programmi scolastici suonano come un monito di grande attualità contro le scelte di una classe politica miope che spinge sempre più verso la “professionalizzazione” delle scuole secondarie, fino a distruggere programmaticamente il ruolo dell’istruzione classica e il valore essenziale del sapere in sé. «La scuola – continua Einstein – dovrebbe avere come fine quello di formare personalità armoniose, non specialisti». E questo è vero anche «per le scuole tecniche, i cui studenti si dedicheranno a una ben determinata professione». L’obiettivo principale dell’insegnamento, insomma, dovrebbe coincidere con «lo sviluppo dell’attitudine generale a pensare e a giudicare liberamente» e non con «l’acquisizione di conoscenze specializzate». Perché se «una persona è padrona dei principi fondamentali del proprio settore e ha imparato a pensare e a lavorare indipendentemente, troverà sicuramente la propria strada» e inoltre «sarà in grado di adattarsi al progresso e ai mutamenti più di una persona la cui istruzione consiste principalmente nell’acquisizione di una conoscenza particolareggiata».
Di fronte al famoso dilemma — «dovrebbe predominare la cultura letteraria o la formazione tecnica e scientifica?» —, Einstein risponde considerando la domanda «di secondaria importanza»: «Se un giovane ha allenato i propri muscoli e la propria resistenza fisica con la ginnastica e con le passeggiate, egli sarà adatto più tardi a ogni lavoro fisico». E «ciò è anche vero», continua, «per l’allenamento della mente e per l’esercizio dell’abilità mentale e manuale». Per questo motivo «non sono affatto ansioso di prendere posizione nella lotta tra i fautori dell’istruzione classica, storico-filologica, e quelli di una formazione più attenta alle scienze naturali».
L’apprendistato del dialogo. Einstein conosceva bene l’importanza del dialogo tra filosofia e scienza. E i suoi studiosi sanno bene quanto peso nella sua formazione abbiano avuto le lunghe serate passate con Conrad Habicht e con Maurice Solovine a discutere di fisica, di letteratura, dei grandi pensatori classici e moderni. Proprio in quegli anni di apprendistato a Berna — all’interno della famosa Accademia Olimpia, palestra delle libere discussioni antiaccademiche, fondata nel 1902 — maturano i semi di una convinzione che lo porterà a considerare fondamentale per uno scienziato capire «il valore educativo della metodologia, della storia e della filosofia della scienza». Conoscere lo sfondo storico e filosofico aiuta l’uomo di scienza a liberarsi dai pregiudizi: «Questa indipendenza determinata dall’analisi filosofica — scriveva nel 1944 al giovane fisico Robert Thornton — è, a mio giudizio, il segno di distinzione tra un semplice artigiano o specialista e un autentico cercatore di verità».
Ma c’è di più: «L’autentico cercatore di verità» insegue senza costrizioni i suoi interessi, mosso soprattutto dal «piacere di pensare»: «Quando non ho qualche problema particolare cui dedicarmi — confessa Einstein — mi diverto a ricostruire le prove di teoremi matematici e fisici che mi sono noti da tempo. Non vi è alcuna utilità in questo: si tratta solo di un’occasione di concedermi il piacere di pensare». E in una lettera indirizzata a Carl Seelig l’11 marzo del 1952, Albert non esita a rivendicare esplicitamente la sua passione per la curiositas («Non ho particolari talenti. Sono solo appassionatamente curioso»). Ecco perché lo scopo di chi ama la ricerca non può esser certo quello di far soldi: «Anch’io dovevo diventare ingegnere. Ma trovai intollerabile l’idea di applicare il genio creativo […] unicamente al triste scopo di guadagnare denaro. Pensare solo per il piacere di pensare, come nella musica».
Einstein, che al pari di «uno zingaro ha vagato per il mondo», invita a percorrere da “zingari” l’avventura della conoscenza. L’arte e la scienza «sono volte alla nobilitazione della vita dell’uomo, sollevando l’individuo dalla sfera della pura esistenza fisica e conducendolo verso la libertà». Proprio «nella bellezza della creazione artistica e dello sviluppo logico del pensiero» l’essere umano trova «le soddisfazioni più sottili e raffinate di cui è capace». E nell’ebbrezza di questo nobile percorso è più facile capire che «le differenze tra gli individui e i gruppi» vanno considerate «come un arricchimento della nostra esistenza».
Proprio lui — lo scienziato ebreo, che già denunciava la ferocia dei nazisti — aveva coraggiosamente espresso, in nome del suo convinto rifiuto di ogni forma di nazionalismo, dubbi e perplessità sulla creazione di uno Stato ebraico: «Io troverei più ragionevole — scriveva nel 1938 — un accordo con gli arabi sulla base di una convivenza pacifica che non la creazione di uno Stato ebraico. […] La consapevolezza che ho della natura peculiare del giudaismo si oppone all’idea di uno Stato ebraico con dei confini, con un esercito […]. Ho paura per il danno interno che ne deriverà al giudaismo, specialmente nello sviluppo di un gretto nazionalismo».
Scienziato militante. All’interno di questo orizzonte morale — dove ricerca della verità e bisogno di sentirsi al servizio dell’umanità si fondono — scienza e vita in Einstein diventano un’unica e sola cosa. La militanza dello scienziato nel conoscere i segreti della natura coincide con la militanza dell’uomo nel costruire un’umanità più umana: «La preoccupazione per l’uomo e per il suo destino — spiegava il premio Nobel — deve sempre costituire l’interesse principale di tutti gli sforzi dell’attività scientifica. Non dimenticatelo in mezzo ai vostri diagrammi e alle vostre equazioni». Così la scienza si fa vita e la vita si fa scienza.
Non ricorderemo Einstein solo per le sue straordinarie scoperte scientifiche. Lo ricorderemo — ora che i venti di guerra minacciano il cuore dell’Europa — anche per i suoi accorati appelli a favore della pace e per le sue invettive contro i mercanti di armi assetati di denaro («Le nazioni avevano ricevuto delle promesse di libertà e di giustizia. Ma noi siamo stati testimoni del triste spettacolo offerto dagli eserciti di “liberazione” che sparano sui popoli che vogliono la loro indipendenza ed eguaglianza sociale»). Lo ricorderemo — ora che le disuguaglianze economiche stanno riducendo alla fame milioni di esseri umani —per le sue coraggiose battaglie a sostegno della giustizia e dell’equità sociale («Il mondo aveva ricevuto delle promesse di liberazione dal bisogno, ma grandi moltitudini di genti si trovano di fronte alla miseria mentre altre vivono nell’abbondanza»). Lo ricorderemo — ora che la corruzione e la lotta per il potere dilagano nei parlamenti e nella società — per le sue feroci critiche alla «decadenza morale» («Il resto del mondo si è lentamente abituato a questi sintomi di decadenza morale. Si perde la capacità elementare di reagire all’ingiustizia e per la giustizia, reazione, questa, che a lungo andare rappresenta l’unica protezione dell’uomo contro una ricaduta nella barbarie»). Lo ricorderemo — ora che l’antisemitismo, le discriminazioni razziali e l’odio contro gli immigrati diventano strumento di propaganda elettorale — per la ferma condanna di ogni forma di razzismo e di pregiudizio («Io credo che chiunque si accorgerà presto quanto sia indegno e addirittura fatale il pregiudizio tradizionale contro i negri»). Ma lo ricorderemo soprattutto — ora che il più bieco egoismo e il disprezzo per il bene comune dominano incontrastati — per averci rammentato sulle colonne del New York Times (il 20 giugno del 1932) che «solo una vita vissuta per gli altri è una vita degna di essere vissuta».