Gabriele Romagnoli, la Repubblica 5/4/2015, 5 aprile 2015
SUL LITORALE DI MINDELO ASPETTANDO IL CANTO D’AMORE
Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore? La domanda formulata dallo scrittore Raymond Carver, rimbalzata nella pretenziosa messinscena del film Birdman, atterra a Mindelo, sull’isola di São Vicente, arcipelago di Capo Verde, Africa. Alla fine, quando nella onnipresente colonna sonora irromperà la voce più attesa, affiorerà una possibile risposta.
Mindelo, allora.
Le isole di Capo Verde non possono essere figlie dello stesso padre: non si assomigliano. Fogo viene dal dio del fuoco, Boa Vista dal dio del mare, São Vicente dal dio della musica. Quando la nave le si avvicina, il vento di terra la porta a bordo e l’equipaggio, i passeggeri, perfino il carico, cominciano a emettere suoni, di quelli che si fanno di gola, oscillando la testa. Ne scaturisce una melodia monotono, tempo lento a due battute, una malinconica ninna nanna al contrario, quella del risveglio: morna, per chi qui vorrebbe rinascere. Case colorate, cani randagi, esuli francesi. Un popolo e la sua divinità incarnata: Cize, Cesaria Evora, dea ora che non c’è più e dea allora che c’era e viveva lontana, sempre in tournée, ma spesso rientrava. Attesa di lì a poco, come un messia preceduta da preghiere, segni, sussurri che diventano musica nei bar dove la sua foto sta accanto a quelle della Madonna, altroché Madonna.
Se c’è una sineddoche di Mindelo è una canzone di Cesaria Evora, non una in particolare, una qualunque, ognuna è una nostalgia, la promessa di un ritorno, un’onda lenta. È sentirsi sulla spiaggia di Furna mentre si cammina per quella di Nantucket, disprezzare le creole di Lisbona, dopo averle amate qui, nei vicoli dei pescatori. È lo spartito dell’esilio, o comunque dello smarrimento, di una collocazione fuori posto per scelta o necessità. La madre di tutti gli equivoci: passi davanti allo specchio e saluti, non accorgendoti che sei tu, quello riflesso.
Mindelo è terra di spostati, cercatori di una lingua condivisa, capaci di trovare soltanto una comune melodia. Gente che si ritrova in cima alla collina, a Casa Azul, come Mare Azul canta Cesaria, guarda le stelle della notte e rievoca, inventa, lascia capire: che Cesaria, è stata, ha detto, amato. Proprio qui, proprio a lei, proprio lui. Poi di nuovo, rovesciando tutti i ruoli. E così ogni notte: bottiglie vuote, ricordi improbabili e musica che fa alba.
Finché finalmente venne la sera del concerto della dea. Partiamo presto e siamo più di venti, divisi in sei automobili. Scendiamo la collina come un serpente luminoso e ci allunghiamo unendoci all’altra parte che già striscia sul litorale verso la spianata delle note. Ci conforta l’allegria di una rivelazione imminente e certa: una ricongiunzione che non possiamo mancare. L’autoradio trasmette Cesaria, i passeggeri cantano Cesaria, l’aria sussurra Cesaria. C’è una felicità fanciullesca: è una pasqua laica che si fonde con il carnevale senza piegarsi per passare attraverso la quaresima. È ancora presto, si esibiscono gruppi minori, anche se la musica sembra la stessa da ore. Il capogruppo, Monsieur Azul, propone di mangiare nell’attesa. Sediamo a tavoloni tipo sagra paesana. Dopo mezz’ora ordiniamo: un numero di portate che mi sembra eccessivo. Un’altra mezz’ora e arrivano i primi piatti. La chiacchiera e i brindisi fanno da accompagnamento. Al secondo giro le mascelle non coprono la voce che sento, sullo sfondo. Mi sembra di conoscerla. Conosco anche la canzone, una di quelle che mi hanno trascinato fin qui: “Bem conché esse Mindelo pequinino”, vieni a conoscere la piccola Mindelo. Esse pais, il biglietto dell’eterno ritorno della dea nomade.
Dico, timidamente: «Credo sia già arrivata Cesaria...».
Mi guardano come un eretico: non è possibile, sentenziano, troppo presto.
Eppure: «Ascoltate bene... è Cesaria».
Scuotono il capo, gli adoratori, ma una nota li penetra come un sospetto e non esce più. Smettono di mangiare, si alzano, restano impietriti: “Putain! C’est Cesarià”. Corrono, corriamo verso il palco, con una coscia di pollo in una mano e una birra nell’altra. E lei è là, che canta per una delle ultime volte.
Come possono non aver riconosciuto l’oggetto di tanto amore? Di che cosa parlano quando parlano d’amore? Di ciò di cui spesso la passione parla: una volontà che tende a se stessa e non a un oggetto, un sentimento in cerca d’autore, una frase fatta di soggetto, verbo e puntini di sospensione. Jacques Prévert che scorge attraverso i vetri del tram una donna che gli piace moltissimo e poi si accorge che è sua moglie e ne è felice. Ora che l’ascoltano, tutti sovrappongono la realtà a quel che hanno immaginato di amare. Non è forse la stessa cosa?
Poi Cesaria se n’è andata per sempre. E riascoltandola come un’eco, ho trovato in una cartolina mai spedita da Mindelo, nella semplicità dei testi che inseguono la musica, le parole che mi cercavano: «Mentre vaghi nel mondo non essere troppo autoindulgente, non dimenticare chi hai amato e torna, prima o poi, l’amore è sempre l’amore».