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 2015  aprile 05 Domenica calendario

È LA STAMPANTE 3D, BELLEZZA

Gli innovatori sono gente cresciuta a pane e ottimismo. Dove gli altri scorgono un ostacolo, loro vedono un appoggio per arrampicarsi più in alto. Bre Pettis non fa eccezione. «I robot ci ruberanno il lavoro? Significa che avevamo il lavoro sbagliato». Ovviamente è in conflitto di interessi: MakerBot, l’azienda che ha cofondato e che è diventata sinonimo di stampanti 3D che anche i finanziariamente normodotati possono permettersi, è una delle principali indiziate della scomparsa della manifattura così come la conosciamo. Prima serviva una fabbrica, e tanti uomini, per produrre una qualsiasi merce. Oggi può bastare una Replicator Mini da milletrecento dollari (o milleseicento euro, con un incomprensibile ricarico anti-europeo), dal tinello di casa propria. Fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, per dirla marxianamente, o inizio di un nuovo lumpenproletariato digitale e solitario che gode di ottima stampa perché illustrato sempre con un’iconografia allegra di oggettini di plastica colorata? Mi guarda incredulo. Che qualcuno possa dubitare anche per un secondo delle magnifiche sorti e progressive della new economy equivale alle sue orecchie a una bestemmia pronunciata dentro San Pietro. Tanto più che sono stato ammesso nella sua chiesa, nella sede di Bold Machines in un’anonima palazzina a mattoncini di Brooklyn. Si tratta della divisione “Innovazione” di Stratasys, il colosso della stampa 3D professionale che ha inglobato MakerBot facendo del suo uomo di punta l’evangelista dei progetti più arditi. Pettis mi mette a tacere con una frase sibillinamente perfetta: «Si può pensare al futuro secondo i termini del passato, ma si dovrebbe guardare a esso secondo i termini del futuro». Vulgata: il fatto che i telai meccanici abbiano fatto fuori migliaia di tessitori durante la Prima rivoluzione industriale non significa che le sue stampantine a filamenti di plastica faranno fuori altrettanti lavoratori durante la Terza rivoluzione appena iniziata.
Scusi, ma secondo lei chi può avvantaggiarsi di più da prodotti come i vostri?
«L’Italia, per farle un esempio, è un candidato particolarmente interessante. Per la quantità di pic-
cole imprese che ha, per le quali le stampanti 3D possono essere una manna».
In che senso?
«Prima un prototipo dovevi farlo realizzare fuori. Magari passava un mese prima che te lo consegnassero. Poi facevi le modifiche e lo riconsegnavi. Altri soldi, altro tempo. Oggi il prototipo lo fai in casa, con le poche decine di dollari che costa un rotolo di acrilonitrile-butadiene-stirene, e le modifiche le puoi fare il giorno dopo. Sto parlando di un processo che, dall’unità di misura dei mesi-anni, passa a quella dei giorni».
Un risparmio visibile con dei costi nascosti. Penso a The Second Machine Age, il libro di due economisti del Mit che spiegano come l’automazione — compresa la vostra — brucerà più posti di quanti riuscirà a produrne.
«Una volta c’erano anche le dattilografe e i pc le hanno fatte fuori. Preferirebbe non avere un personal computer? Se per questo esistono anche software che assemblano articoli, ma non cambierei mai le cronache della rivista Vice di Molly Crabapple da Guantanamo per lo scialbo resoconto di un algoritmo. Né una Ferrari, fatta con l’amore artigianale pazzesco che ho visto visitando la loro fabbriche, con una Tesla montata dai robot. Sto dicendo che non bisogna guardare alla tecnologia con le lenti della sostituzione quanto con quelle del potenziamento delle attività umane».
Intesi, ma gli impiegati nella manifattura cosa faranno quando ognuno di noi potrà prodursi nottetempo tutto quello che entra in una stampante 3D?
«L’era di un solo lavoro nella vita è tramontata. Abituiamoci a cambiarne dieci-quindici. Io, per dire, ho fatto per sette anni l’insegnante in una scuola pubblica. Quando ho cominciato a pubblicare su internet dei video in cui insegnavo a costruire piccole cose, beh quell’esperienza mi è servita. Certo, bisogna cambiare radicalmente l’istruzione, potenziando innovazione ed esplorazione. Arriverei al punto di dire che sarebbe utile smettere di andare a scuola per un paio di anni, per guardare alle cose con uno sguardo più fresco (il filone antiscolastico è un classico tra i “digerati” — da “digital” e “literati” — la nuova élite tecnologica. Peter Thiel, uno dei cofondatori di PayPal, ha addirittura istituito venti borse di studio da centomila dollari per altrettanti under venti che lascino gli studi per fondare una start up, ndr) ».
Certo, lo diceva già Kennedy. Ma in che modo le vostre stampanti potrebbero aiutare la nuova generazione flessibile a trovare lavoro?
«Nello stesso modo in cui l’arrivo di un Apple II, parlo di preistoria, mi cambiò la vita entrando nella mia classe di liceale. Aprendo una serie di possibilità che allora non erano preventivabili. So di ragazzini che hanno una stampante 3D a scuola che, invece di comprarsi le custodie per iPhone, le costruiscono personalizzate con foto di compagni o immagini che hanno per loro un valore. Se impari a creare a quell’età, può diventare il tuo lavoro da grande. Ciò che voglio dire è: le nostre macchine sono uno strumento che consente al potenziale umano di esprimersi come prima non era possibile».
Lei le raccomanda all’Italia ma dimentica che noi siamo fortissimi nell’esportazione proprio di quelle macchine utensili che lei tendenzialmente insidia.
«Non la vedo così. Possono convivere benissimo, di più: le nostre potrebbero avere un effetto benefico su quelle tradizionali, spesso mostruosamente complesse. Una MakerBot impari a usarla in quindici minuti: imitateci!».
La rassegna stampa per “3D printer” sforna articoli molto più velocemente di quanto questi parallelepipedi riescano a partorire, una striscia di polimeri sopra l’altra, la bigiotteria geometrica, i pupazzetti decorati, i cuori sfavillanti con la scritta in rilievo dell’amato/a. L’ultimo arrivato è il cibo: metti dentro una pasta commestibile e la macchina vi stampa un vol-au-vent a forma di geoide con dei funghetti che sbucano dalle finestrelle. “Potrebbe cambiare l’industria alimentare” giura la presentazione dell’azienda. In America, forse. A noi scapperebbe da ridere.