Massimo Lopes Pegna, La Gazzetta dello Sport 5/4/2015, 5 aprile 2015
LA BOSTON DI DATOME
Quando al TD Garden capiscono che sei italiano, sanno che sei venuto per Gigi e si affrettano a metterti al corrente: «Sai che ha detto l’altro giorno l’allenatore? Che è il miglior tiratore della squadra» Poco dopo, è coach Brad Stevens in persona a ripeterti quel concetto con la sua faccia da ragazzino e gli occhi blu che sembrano sinceri: «Non è soltanto il più bravo dei nostri tiratori, ma uno dei migliori che abbia mai visto. Perché? Non saprei, non lo seguo da quando aveva 12 anni. La risposta che posso darle è che Gigi può starsene seduto per quasi tutta la partita, entrare e avere la certezza di fare canestro. Nella Nba ci sono pochi giocatori così». Si ferma un attimo, e aggiunge: «Spero di riuscire a trovargli sempre più spazio».
PANCHINA Mercoledì sera nella sfida vittoriosa per l’accesso ai playoff contro i Pacers non succede: Gigi Datome rimane in panchina per tutta la gara, il secondo «non entrato»consecutivo. Potrebbe riaffiorare il tormentone sperimentato a Detroit, anzi i tormenti: quella miseria di 16’28” giocati in quattro mesi, da quasi separato in casa, fino all’inaspettato trasferimento a Boston. Prima di rispondere Gigi ci pensa su qualche istante e si accarezza la folta barba: «No, qui no. Qui nessun tormento. L’altro giorno dopo la vittoria contro Charlotte, coach Stevens ha dato un cinque a tutti. A me ha detto: “Mi spiace Gigi, oggi avevo più feeling per Wallace, non sei stato fuori perché hai fatto qualcosa di male”. Da tante altre parti non sarebbe mai accaduto». Probabile che il riferimento sia a Stan Van Gundy, coach dei Pistons. Gigi preferisce grdare avanti, sul passato prossimo si concede una riflessione: «A Detroit ho sempre messo giù la testa e lavorato duro. Solo nelle ultime settimane mi ero un po’ scoraggiato, perché entravo in palestra sapendo che non avrei mai giocato. Alla lunga, non è facile». E il futuro, Gigi? «Si deciderà a luglio. Ma sarebbe bello rimanere qui. E’ un bellissimo ambiente, una città fantastica. Ma soprattutto sento la stima dell’allenatore, che è un fatto fondamentale. So di averlo messo in difficoltà, perché quando sono arrivato avevano già le loro rotazioni che funzionavano. Non è stato semplice per lui trovarmi dei minuti, ma lo ha fatto». Coach Stevens conferma e non soltanto per compiacere l’interlocutore: «I love Gigi. Ha avuto una serie di occasioni e ci ha aiutato a vincere. E se non lo schiero nella partita successiva, non dice una parola: pensa al bene della squadra. E’ sempre pronto e un’ispirazione per gli altri: un esempio da seguire».
PAZZI PER GIGI Insomma, tutti pazzi per lui. In fondo senza una vera ragione tecnica, per ora. I telecronisti che lo lodano in tv, una schiera di ragazzini che lo fermano per gli autografi e lui che li accontenta per oltre un quarto d’ora. Il pubblico che lo adora e gli dedica i cori. Racconta Gigi: «Quanto entro, mi accolgono con un’ovazione. E quando mi arriva la palla, si alzano in piedi come se fossero certi che la metto dentro» Quando è stato sul parquet per almeno 10’, otto volte, ha infilato 11 triple su 21. Non sono molte come numero globale, ma in percentuale è una cifra eccellente e un ottimo biglietto da visita.
SORPRESA Una delle firme più importanti del Boston Globe, Gary Washburn, si unisce al coro: «E’ arrivato nella trade alla scadenza delle trattative e ha sorpreso tutti positivamente. Gli sono state concesse delle opportunità e Gigi ha il merito di averle sapute cogliere. E’ sicuramente un giocatore da Nba, il futuro è incerto, ma so che la dirigenza vorrebbe tenerlo qui». Stevens si sbilancia: «Sono dalla sua parte. Ne ho discusso anche con le altre persone che si occupano della gestione della squadra e a tutti piace l’impatto che sta avendo nella nostra organizzazione». Riportiamo a Gigi, come se il colloquio con il coach fosse stato l’incontro di un genitore con i professori di scuola: «E’ la conferma delle mie sensazioni», dice felice. Riprende: «L’unica cosa che chiedo a chi mi farà delle offerte è far parte delle rotazioni, avere un ruolo più stabile e riconosciuto. I soldi sono importanti, ma non una priorità». Ci ripensa, perché teme di essere frainteso: «Non voglio passare per uno che pretende, è solo ciò che vorrei accadesse». Accetterebbe anche l’Europa? «Ascolterò tutti. Se ci dovessi tornare non sarà una sconfitta. So di aver fatto il massimo e di appartenere a questo mondo. Spesso certe avventure sono come le storie d’amore: è questione di timing».
RISPETTO «Ehi Gigi come stai?», fa una guardia della sicurezza. In poco più di un mese si è fatto proprio benvolere da tutti. Siamo dietro le quinte, zona off-limit per chi non è parte della squadra. C’è il gigante buono Kelly Olynyk con il suo occhio chiuso e nero, i postumi di una gomitata, che lo abbraccia. L’altro dei lunghi, Tyler Zeller, gli sorride affettuosamente. «Qui vengo rispettato un po’ di più che a Detroit, perché la considerazione te la guadagni innanzitutto giocando. Ormai so come ci si inserisce in un gruppo e come essere un ottimo compagno di spogliatoio». E sul parquet che cosa può dare? «So di non essere un giocatore imprescindibile. Ho imparato che nella Nba sei costretto a specializzarti e allora offro i miei tiri. E poi tanta energia, intelligenza, riuscire a leggere bene il campo e sono uno stakanovista. Credo di essermi guadagnato la fiducia del coach anche per questo». Gli costa un mucchio di fatica dire queste cose, perché non vuol certo passare per un presuntuoso. Non lo è, anzi, è persino troppo modesto. Però questa di Boston la ritiene una piccola vittoria: «Perché ogni istante che gioco, è frutto di sudore e tenacia. Ho subito ingiustizie? No. Però, diciamo che ci sono dei giocatori europei di medio valore che hanno buoni minutaggi. Si sa, la Nba è questione di opportunità».
NORTH END Usciamo nell’aria ancora fresca di una splendida serata bostoniana. Destinazione North End per una cena nella Piccola Italia. E quindi appuntamento al Nebo delle sorelle di Jim Pallotta. «Mi volevano spiegare chi era Pallotta. A me che ho giocato a Roma», ride Gigi. Uno strano asse Roma-Boston: è come se il cerchio si stesse per chiudere.
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