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 2015  aprile 05 Domenica calendario

ARMENIA, GENOCIDIO DIMENTICATO

Pubblichiamo di seguito un brano dell’introduzione del libro-inchiesta dal titolo “La marcia senza ritorno. Il genocidio armeno” di Franca Giansoldati. Il volume sarà nelle librerie dall’ 8 aprile.

Sono passati cento anni dal genocidio armeno. Cento lunghi anni di silenzi colpevoli, di verità non ancora condivise. Responsabile di questo oblio non è stata solo la Turchia ma una parte dell’Europa che ha preferito nel frattempo guardare altrove. Si è trattato di una impenetrabile cortina di indifferenza che ha avvolto la storia di un popolo, privandolo del bisogno primario di vedere riconosciuto il suo dramma, nonché il dolore che ne è scaturito.
Il genocidio armeno che ha segnato la storia del Novecento si può considerare un capitolo ancora incompleto. Come se fosse rimasto sospeso il suo epilogo storico, come se per certi versi fosse ancora da elaborare e da inserire nella memoria collettiva della cultura europea. Persino nei libri di storia persiste un vuoto, uno spazio mancante che necessita di adeguate risposte. Eppure stiamo parlando dell’immane tragedia di un intero popolo, considerata il primo genocidio del Novecento. Una ferita ancora aperta. Perché, allora, tanta resistenza nel riconoscere e definire un crimine di tale portata, un piano di sterminio così crudele capace di mandare alla morte un milione e mezzo di innocenti? La risposta è complessa. Il centenario rappresenta una occasione preziosa per riflettere su una vicenda controversa, su cui la Turchia mantiene ancora un atteggiamento negazionista. Saranno i documenti conservati negli archivi del Vaticano, molti dei quali ancora inediti, a offrire una interpretazione veritiera degli avvenimenti dell’epoca e a mettere in luce il ruolo fondamentale della Santa Sede, l’unica realtà diplomatica che si adoperò per fermare il piano di sterminio da parte del governo di Costantinopoli. L’impegno più significativo sulla strada della verità fu svolto dalle autorità religiose cristiane. Tra tutte si staglia la figura di Benedetto XV. Un gigante. Con grande coraggio e senza preoccuparsi troppo delle cautele diplomatiche, non esitò ad alzare la voce, parlando già allora di sterminio, annientamento, strage. Fece tutto quello che era in suo potere nel tentativo di fermare quello scempio agli occhi di Dio e dell’umanità.
MORTE
Donne, bambini, uomini, anziani, malati. La morte massificata. Il piano prevedeva la soppressione del popolo armeno su base etnica, peraltro aggravata da motivi religiosi, tanto che qualche vescovo armeno cattolico si sbilanciò a ipotizzare i contorni di una guerra santa fra musulmani e cristiani. Come monsignor Giovanni Naslian di Trebisonda: «Oggi maomettani anche riscossi dalle intenzioni del Jihad (“guerra santa”) sembrano ritornare all’antico odio contro i cristiani in genere. L’alleanza tedesca è intenta ad abbattere l’influenza francese, e il fanatismo musulmano si spinge più oltre dove può e rivela le sue disposizioni anticristiane». A rileggere la lettera che inviò a Roma l’8 maggio 1915 e pubblicata nei documenti dell’Archivio della Congregazione delle Chiese Orientali (Ruyssen, “La questione armena”), quelle parole appaiono piú una provocazione, un timore, che una considerazione di fatto, poiché erano storicamente insufficienti i presupposti fondanti. Si trattava, invece, di un piano politico progettato e maturato su altre basi ideologiche. La testimonianza dei missionari cristiani impegnati in Anatolia risulterà fondamentale per fare emergere il piano di sterminio. La prova inequivocabile di un disegno, di una pianificazione da parte del governo ottomano, di un piano di deportazione, attraverso i rapporti del delegato apostolico a Istanbul, monsignor Angelo Dolci, indussero papa Benedetto XV ad allertare i governi di Berlino e Vienna affinché vigilassero sulla situazione interna del loro alleato turco. Si trattava di un piano che alla violenza fisica combinava un altro tipo di violenza, quella spirituale delle conversioni forzate.
DEPORTAZIONI
Padre Michele Lieben, missionario austriaco presente a Samsun, in Turchia, il 3 marzo 1916, descriveva al delegato apostolico le deportazioni e le violenze di fede: chi si convertiva veniva risparmiato. Nelle lettere racconta come furono organizzate con sistematicità dal governo le colonne dei deportati, affidate a bande di uomini armati ai quali veniva dato il compito di uccidere tutti gli armeni che tentavano di passare per le montagne. I trasferimenti si realizzavano attraverso marce di efferata crudeltà. Costretti a camminare per centinaia di chilometri senza cibo e acqua, i deportati morivano di stenti lungo il tragitto. Costretti ad abbandonare tutto, case e denari, intraprendevano un viaggio verso una destinazione sconosciuta, ignari del loro destino, senza sapere che sarebbero stati decimati dalle privazioni, dalla stanchezza, dal dolore e che, se pure riuscivano a sopravvivere alla marcia, potevano essere massacrati dai gendarmi. La posizione della Santa Sede si presentava già allora chiara e coraggiosa. Nelle testimonianze si chiarisce bene l’evoluzione della crisi, la genesi della rottura del patto di convivenza tra la maggioranza musulmana e la minoranza cattolica. La spaccatura si basava soprattutto su un fatto etnico, razziale; quello religioso appariva secondario (...)