Luciano Gulli, Il Giornale 5/4/2015, 5 aprile 2015
NIENTE JEANS, RISOTTO E TV: LA NON-VITA AI TEMPI DELL’ISIS
Sporgendosi dalla veranda per bagnare i gerani, al settimo piano della sua casa a Città Studi, il signor G. alzò di poco gli occhi gettando il solito sguardo svagato sui tetti di Milano. Laggiù, verso ponente, a destra della torre Velasca, ecco la silhouette del Duomo. E lassù in cima, come sempre, cioè da due secoli e mezzo, ecco l’immagine rassicurante della Madonnina, sfolgorante d’oro nella luce antimeridiana. Pure, quel mattino di aprile, qualcosa di stravagante, di inconsueto, ornava quella figuretta con le braccia aperte e lo sguardo al cielo a implorare la benedizione di Dio sulla città. Nella mano destra, la Madonna Assunta reggeva qualcosa di nero che fluttuava nella brezza mattutina: un drappo, uno striscione, una bandiera… «Ma sì, è la bandiera dell’Isis», si disse il signor G, scuotendo rassegnato la testa. Non che si meravigliasse, questo no. Da tempo, dopo le ultime elezioni che avevano portato al potere il partito dei Fratelli musulmani di Mohammed Ben Ali, appoggiato da socialisti, liberali e moderati, Milano non era più la stessa. La settimana prima un decreto del sindaco aveva proibito il risotto con la luganega, per non offendere gli osservanti che avevano orrore della carne di maiale. Ma anche a Bologna, dicevano certe voci, erano stati messi al bando i tortellini, nel sospetto che anche lì, nell’impasto, ci fosse l’aborrita carne dell’innominabile animale. I salumifici chiudevano a una velocità pari a quella con cui calavano le saracinesche discoteche, sale giochi, stadi di calcio e macellerie che non recassero ben evidente, nell’insegna, la dicitura «carne halal», cioè macellata col rito islamico. Il signor G se lo ricordava ancora, il libro di quel francese – Houellebecq, ecco come si chiamava - che nel suo «Sottomissione», uscito una ventina d’anni prima, aveva profetizzato la presa del potere, in Francia, a Parigi! di un partito islamico. Ne aveva riso, all’epoca, come di un racconto di fantascienza un po’ scombinato e anche un po’ furbetto, se vogliamo, teso a cavalcare la paura dei “cristiani” che in quegli anni, dopo le stragi in Africa, e prima di quella sanguinosa resa dei conti al Colosseo, durante una «Via Crucis», si sentivano «sotto schiaffo». Poi, dapprima senza parere, poi con una sorta di mellifluo crescendo (rossiniano non si poteva dire, tutta la musica classica essendo stata bollata come «decadente») il panorama era mutato sotto gli occhi di tutti, grati all’Islam per il suo rigore e il suo autoritarismo rassicurante, dopo gli anni della corruzione dilagante e di un lassismo nei costumi scandaloso. Proprio come in Siria, esattamente nell’aprile del 2015, quando il signor G aveva letto per la prima volta quelle notizie che lo avevano lasciato di princisbecco, come si diceva nel tempo che fu. In Siria, dove nei campi profughi si faceva la fame, l’Isis aveva dato alle fiamme carichi di pollame perché i pennuti, anche se avviati attraverso i canali umanitari, e macellati secondo le prescrizioni del Corano, venivano dagli esecrati Stati Uniti d’America. Erano i giorni in cui agli uomini erano stati proibiti i jeans attillati, o avere una suoneria musicale sui loro telefonini; e di 20 nerbate era la punizione per chi faceva tardi a messa, pardon, in moschea. Vietato anche il fumo, naturalmente, mentre a lungo le bevande gasate erano state sotto esame, e da qualche mullah bandite, per via di quella bibita –la madre di tutte le bevande gasate- che dall’America aveva invaso il pianeta. Niente musica, naturalmente; e chiusi i musei, mentre sui principali viali delle città, come a Kabul al tempo dei talebani del mullah Omar, penzolavano centinaia di televisori «impiccati». Il signor G rientrò in casa giusto in tempo per assistere nauseato al quotidiano alterco fra le tre mogli – la poligamia era stata ormai legalizzata- di cui nel frattempo si era dotato. Poi si infilò un giacchetto e si diresse a capo chino in moschea, per le orazioni del pomeriggio.