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 2015  aprile 05 Domenica calendario

RIVERA SEMBRA KAFKA E IN PORTA METTO

CAMUS –
Ormai si può dire: il gioco del pallone, in particolare quello del calcio, è: geometria, matematica, fisica, chimica, trigonometria, «algoritmetria», sociologia, arte, teatro, cinema, poesia e... letteratura! E allora ben venga questo nuovo libro di Silvano Calzini: Figurine. I grandi scrittori raccontati come campioni del pallone. Già è fortunato Calzini che si chiama quasi come le storiche figurine (Panini). Poi è fortunato perché la Dea Eupalla lo ha baciato fin da piccolo e lo ha fatto innamorare di lei. Ancor più fortunato perché da ragazzo, oltre a tentare di giocare a pallone, ha letto un sacco di libri. Non quelli di Antonio Cassano (che ne ha scritti due: più di quanti ne abbia letti) o di Francesco Totti (che se non altro ha dato tutti i soldi in beneficenza). No, quelli veri, i libri.
E allora lasciamo stare le chiacchiere inutili e diamo la parola (pardon, la palla) a Calzini: «Faccio una premessa. Tutti i giorni, terminato l’orario d’ufficio all’Istituto di assicurazioni dove lavorava, Franz Kafka tornava a casa a piedi da solo, camminando a passo veloce con la testa leggermente reclinata verso il basso. Attraversava le strade affollate del centro di Praga, ma sembrava non vedere la gente che gli passava accanto. Non a caso, chi lo ha conosciuto ha sempre avuto l’impressione che fosse circondato da una parete di vetro che lo separava dagli altri. Lui era lontano, quasi assente, in un altro mondo».
E adesso viene il bello: «A quel tempo io (Calzini) non ero ancora nato, ma quella scena me la ricordo lo stesso. Era il 28 maggio 1969 a Madrid, durante la finale della Coppa dei Campioni tra Milan e Ajax. Al 30’ del secondo tempo Gianni Rivera torna da solo a capo chino verso il centrocampo. Ha appena servito un assist al bacio al termine di un’azione travolgente. I compagni di squadra festeggiano il gol abbracciandosi e lui è lontano, quasi assente, in un altro mondo. Provate a sovrapporre le due scene, quella di Praga e quella di Madrid, e soprattutto i due protagonisti e vedrete che combaceranno perfettamente. E allora è vero, Kafka è stato Rivera prima di Rivera. Dunque non è una follia creare delle biografie di scrittori raccontati come fossero assi del pallone».
Ecco, nascono così le «figurine» Calzini. «D’altra parte — scrive l’autore ormai infervorato — Friedrich Schiller ha detto: l’uomo è veramente uomo soltanto quando gioca. A proposito, questo Schiller era uno scrittore e drammaturgo tedesco o un romantico centravanti dello Stoccarda?». A questo punto, Calzini, non lo ferma più nessuno. Corre nel suo libro come se avesse un fiato conquistato con una vita da mediano alla Oriali; con una classe stilistica (letteraria) che sfiora quella di Mancini; con una faccia tosta che evoca la irridente (tunnel?) irruenza di Van Basten. Non è bello rubare a un libro quello che il libro scrive, ma in questo caso ne vale la pena.
Mettiamo dunque in campo la squadra di Calzini. Portiere: Albert Camus. «Portiere e dunque, per antonomasia, un po’ matto, Camus aveva una visione singolare del calcio, che lui considerava un gioco dominato dall’assurdo». Riserva di lusso: Vladimir Nabokov. «Grande talento. Aveva un punto debole: ogni tanto andava per farfalle. Ma la presunta relazione con una giovanissima tifosa non c’entrava niente: uno scandalo sollevato dai giornali dell’epoca rivelatosi una solenne patacca». Difensori: Giorgio Bassani. «Ha sempre giocato nel ruolo di libero. Leggerezza e naturalezza ne hanno fatto un grande del calcio. Veniva chiamato il Beckenbauer della Bassa. Protagonista in campo, ma anche sui rotocalchi dell’epoca per una lunga liaison con l’affascinate tennista, sua concittadina, Micol Finzi-Contini». Riserva: Samuel Beckett. «Alto, imbattibile di testa». Ma pensava molto ai fatti suoi, anche in campo. «Dove sono, non lo so, non lo saprò mai, nel silenzio non lo sai, devi andare avanti, anche se non posso avanzare, andrò».
Centrocampisti: Dino Buzzati. «Capace di inventare calcio come pochi, quando calciava era capace di dare al pallone effetti straordinari e per molti versi misteriosi». Italo Calvino: «Quando diventò un punto fermo della nazionale azzurra ai giornalisti che lo intervistavano si limitava a dire: l’unica cosa che vorrei insegnare è un modo di guardare». Arthur Conan Doyle. Bastano poche parole: «Capostipite indiscusso del calcio deduttivo che lo ha reso famoso in tutto il mondo». Come Gabriele d’Annunzio «esteta del calcio che si proclamava sempre migliore in campo». Di Thomas Mann sappiamo già: «Non appena poteva, si concedeva lunghi soggiorni a Venezia, durante i quali trascorreva le giornate osservando i ragazzi che si sfidavano in interminabili partite sulla spiaggia del Lido. Aveva anche il pallino dei ritiri in montagna».
Attaccanti: Ennio Flaiano. Gli è capitato il peggio, «perennemente confinato sulla fascia destra», ma lui sapeva che «il peggio che può capitare a un genio è quello di essere compreso».
Ce ne sarebbero altri, attaccanti e giocatori di ogni ruolo, ma c’è il libro fatto apposta per raccontarveli. Se poi volete una sintesi non scientifica ma eterodossa, com’è la letteratura, leggete la formazione che Antonio D’Orrico, autore della postfazione, cuce infilando il suo ago nel pallone di cuoio: è un 4-3-3. In porta Nabokov. In difesa da destra a sinistra: Fruttero, Beckett, Bassani, Lucentini. A centrocampo: Montale, Gadda, Kafka (fantasista). In attacco da destra a sinistra: Arbasino, Moravia, Faletti. È ovvio che nel secondo tempo l’allenatore (Elias Canetti?) qualche sostituzione la può fare.