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 2015  aprile 05 Domenica calendario

IL POETA DELLE LENZUOLA CONIUGALI

Sa perché Flaubert è più studiato di Balzac? Questa domanda mi fu rivolta da un vecchio professore che, senza darmi il tempo di rispondere, sentenziò: «Perché ha scritto meno». Per poi spiegarmi che gli studiosi sono pigri. Visto che occuparsi seriamente di un autore significa leggere tutte le sue opere (soprattutto quelle illeggibili), si tengono alla larga dagli oltre cento romanzi di Balzac, preferendogli lo stitico, parsimonioso Flaubert.
Così scoprii che la prolificità è nemica della fortuna postuma. E che uno scrittore, per risultare seducente, deve tirarsela: proprio come una bella ragazza.
Se ha senso dire che Salinger è una sorta di Flaubert americano, ha senso sostenere che John Updike sia il Balzac. È arduo delineare i confini della sua opera e del suo talento eclettico di narratore, poeta, saggista. Giovanni Pascoli diceva di possedere tre scrivanie, una per ciascuna delle sue attività intellettuali: poesia, critica, latino. Mi chiedo di quante scrivanie disponesse Updike. Si è spesso favoleggiato sui molti studi in cui lavorava (una macchina da scrivere per ogni stanza di casa), come se la sua opera e i suoi interessi fossero troppo vasti per una stanza sola e per una sola macchina da scrivere. Julian Barnes, updikiano di lungo corso, ha confessato l’impossibilità di fare una stima approssimativa del numero di libri scritti dal suo eroe. Quaranta? Cinquanta? Sessanta?
Ha senso scriverne tanti? Fecondità e versatilità non rischiano di rendere la scrittura straordinariamente discontinua? Ma, d’altronde, che senso ha la vita se non la passi scrivendo?
Mi vengono in mente altri due grandi artisti americani affetti da sindrome analoga: Woody Allen e Joyce Carol Oates. Entrambi, come certe specie di squali, sono sempre in movimento. L’impegno artistico è il loro polmone artificiale: senza lavoro morirebbero asfissiati; lavorando di continuo si espongono al rischio costante di fallire il bersaglio.
Updike è della famiglia. Nessuno scrittore interessato alla propria reputazione postuma avrebbe dato alle stampe, come lui fece qualche anno fa, poco prima di morire, un libro assurdo come Il terrorista . Non sempre la generosità è buona consigliera: talvolta è auspicabile una certa costumatezza. Eppure, a dispetto della sterminata produzione, la bussola di Updike non vacilla mai, rivolta sempre, direi ossessivamente, verso lo stesso punto cardinale.
Nel romanzo Bech is Back , il protagonista, affondando il dito nella piaga purulenta del suo creatore, si trova a decantare la «spaventosa muffa depositata sulle nostre vite private». La muffa, spora vischiosa, spia di un processo ineludibile di decomposizione, è il campo di battaglia di John Updike. Così come il matrimonio, la più muffosa istituzione umana — la più putrida! — è il territorio privilegiato di indagine, il ring su cui i suoi eroi se le danno di santa ragione. Sono pochi i libri di Updike che non potrebbero intitolarsi come il suo capolavoro più celebre e controverso: Coppie . Uscito nel ’68 — l’anno in cui la rivoluzione sessuale smetteva di essere rivoluzionaria — metteva in scena il delirio erotico di una decina di giovani coppie di Tarbox, un ameno prospero villaggio del New England. Per l’occasione, la prosa di Updike, satura di ormoni e testosterone, si faceva ebbra, libidinosa fin quasi alla voluttà. Un anno dopo la sua uscita John Cheever scrisse: «È venereo in maniera oscena ma le descrizioni di donne svestite sono splendide». Il tema del romanzo era la promiscuità. Il libro rivelava che quando sei giovane, bello, agiato, socialmente soddisfatto non ti resta altro che scoparti la moglie del tuo migliore amico.
Non tutte le coppie di Updike, però, hanno la sfacciataggine di quelle di Tarbox. Ce ne sono altre più dimesse e squallide, e tuttavia altrettanto interessanti. Updike è il poeta delle lenzuola coniugali: tiepide, stinte, macchiate, piene di briciole. Quante cose preziose e terribili potrebbero dirci, quelle lenzuola, se solo qualcuno fosse in grado di interrogarle! È ciò che Updike ha provato a fare.

Si capisce allora perché, nella costellazione della sua opera, la tetralogia dedicata a Coniglio brilli con particolare intensità. I quattro libri su Coniglio (più un racconto) sono la versione americana di Scene da un matrimonio , in cui i bassi hanno decisamente la meglio sugli alti. Si tratta di un legame profondo, tanto da resistere alla morte di una figlia, agli adulteri, alla furia devastatrice della delusione reciproca. Già, Coniglio e sua moglie Janice sono veri e propri resistenti.
Chi è Coniglio? Al secolo Harry Angstrom, Coniglio viene al mondo (almeno per l’anagrafe della storia letteraria) nel 1960 con il libro Corri, Coniglio . Lo chiamano Coniglio perché da ragazzo era un ottimo giocatore di basket. Harry segue passo passo il suo autore, facendosi vivo più o meno una volta ogni decennio. Coniglio e Updike, quasi coetanei, invecchiano assieme. L’autore sopravvive al suo eroe di almeno quindici anni, ma a un certo punto, nel 2001, ne sente così la mancanza che lo fa quasi resuscitare. Non so quanto Updike e Harry si somiglino (la questione è controversa), ma è evidente che l’uno non può fare a meno dell’altro. Si sostengono vicendevolmente. Updike si balocca con Coniglio come un bambino fa con il suo Big Jim. A cominciare dai titoli, giocati su arrotate allitterazioni: Rabbit, Run ; Rabbit Redux ; Rabbit Is Rich ; Rabbit at Rest , e a chiudere Rabbit Remembered . Updike sa che quella «erre» ricorrente (ecco, mi ci metto anch’io) è testimone della vitalità di Coniglio.

È ora di dare conto del triste periodo in cui la critica accademica americana — funestata dagli studi interculturali e di genere — fece passare Coniglio per un bruto, un misogino, un depravato. E con lui Updike. Quante sciocchezze!
Coniglio è un maschio, come lo sono io, come lo siete voi, maschi all’ascolto. Essere maschi significa avere in mente il sesso per buona parte della giornata. Guardare le donne, qualsiasi donna, con occhi non innocenti. La concupiscenza è all’ordine del giorno. Parafrasando un’espressione in voga dopo un attentato terroristico, mi verrebbe da dire, da strillare: «SIAMO TUTTI CONIGLIO!».
Del resto, è interessante rilevare che Coniglio, a dispetto di altri erotomani della letteratura, non ama tematizzare i suoi impulsi. Sì, insomma, non ama ragionarci su. Li vive naturalmente, con aplomb. «Coniglio — ha scritto Martin Amis — non è l’Updike che non è andato a Harvard, come sostengono alcuni critici; è parte della mente di Updike ed è sempre stato così, è parte della mente di tutti, l’uomo materiale che sbava dietro al sesso e ai soldi». Mi spingerei oltre: non mi pare che Coniglio sia tutto sesso e soldi. E non lo ridurrei neppure a un uomo materiale. Coniglio è sensuale. Ha un modo tutto suo di gustare l’attimo. È vero, in un certo senso è il progenitore di Homer Simpson, il tipo che dopo il lavoro non può fare a meno di chiudersi in un bar per un goccetto. Ma è anche provvisto della saggezza epicurea del day by day. Il suo disinteresse per il passato è pari a quello per il futuro. Che non sia questo il segreto dell’indulgenza? Se non credi nei ricordi, se non hai fiducia nell’avvenire, se ti contenti di ciò che passa il convento, corri il serio rischio di diventare un individuo stoico e temperante.
Coniglio è l’antiBovary, l’antiGatsby. È un brav’uomo, senza grilli per la testa, non troppo incline al risentimento. Ogni tanto si arrabbia, certo, ma gli passa subito. Questa attitudine morale trova un correlativo grammaticale nell’uso ossessivo del presente indicativo: il tempo e il modo verbale più corrivo, ma anche il più fedele ai fatti. L’esistenza di Coniglio è così, in presa diretta. Sembra ricalcare la vita che Updike avrebbe potuto avere se le cose fossero andate altrimenti. In un’intervista Updike ha ammesso di condividere parecchie cose con Harry: anche lui è un piccoloborghese della Pennsylvania. La differenza sta nel fatto che Updike ha lasciato tutto per costruirsi un destino diverso da quello già apparecchiato. Coniglio no, Coniglio è rimasto.

Il ritorno di Coniglio è il secondo libro della saga. Scritto all’inizio degli anni Settanta dà conto degli ultimi fuochi del decennio precedente.
Siamo nel ’69, imperversa la guerra in Vietnam mentre il primo piede umano affonda nell’arido suolo lunare. Coniglio è alle prese con i grattacapi della mezza età: il lavoro langue; la madre è parecchio malata; il padre straparla; Janice, la moglie che nel libro precedente Coniglio aveva abbandonato, gli restituisce il piacere, mollandolo per farsi una storia di letto con un tipo che Coniglio disprezza; Nelson, il figlio, è in preda ai turbamenti della pubertà; una teenager di nome Jill, sbandata figlia di papà con idee politiche radicali e confuse, si è piazzata nel letto coniugale di Coniglio e lo intrattiene sessualmente senza grande convinzione; e non è finita, gli si infila in casa anche Skeeter, uno spacciatore nero veterano del Vietnam, frattanto diventato pacifista, con cui Coniglio fa a botte.
Coniglio è singolarmente teso. Ha il sospetto, tipico dei depressi, di essere arrivato alla fine della festa, «quando il mondo è avvizzito come una mela andata a male e l’America non è più quel Paese vivo ed eccitantissimo in contatto nave con l’Europa».
Ogni cosa intorno gli parla di ciò che è andato storto. Gli oggetti quotidiani partecipano, talvolta portando un silente contributo emotivo alle sue piccole peripezie. Come quando, angustiato dal sospetto che la moglie gli metta le corna, Coniglio prova ad aprire una birra e la linguetta della lattina gli si spezza tra le dita. Esagerare la portata simbolica della linguetta rotta sarebbe un esercizio di stupidità cui non desidero prestarmi, però mi preme notare come nella solidarietà tra uomini e oggetti risieda uno dei fascini segreti, tra i più prelibati, della narrativa di Updike.
Sono pochi gli scrittori (mi vengono in mente Flaubert e Nabokov) le cui descrizioni rivelino altrettanta varietà e vividezza. Updike ha l’orecchio assoluto per certi rumori domestici, e l’occhio di Monet nel cogliere le diverse sfumature di luce nel corso della giornata. Il talento di Updike è così naturale che glielo invidiano esplicitamente scrittori più grandi di lui come Nabokov, Bellow e Philip Roth. Per non dire di un pari grado come Cheever, e di quelli che lo guardano dal basso in alto come Julian Barnes e Ian McEwan.

Anche se tale categoria mi fa orrore, ritengo che Il ritorno di Coniglio possa essere considerato un romanzo politico. Il lezzo di napalm della guerra in Vietnam ha raggiunto le remote contrade della provincia americana, portando un certo scompiglio.
A questo punto è utile sapere che a suo tempo Updike prese schiettamente posizione a favore della guerra in Vietnam, così come anni dopo Saul Bellow si sarebbe schierato accanto a Bush padre durante la prima campagna in Iraq (su certe scelte di principio gli scrittori americani sanno essere più fedeli a sé stessi degli scrittori italiani o francesi). Questo forse spiega l’atteggiamento di Coniglio, che si ispira alle idee del suo creatore. Per tutto il libro Coniglio non fa che litigare con chiunque gli capiti a tiro, rivendicando il diritto degli Stati Uniti a una guerra che i più considerano tanto assurda quanto ingiusta.
Di recente Philip Roth ha raccontato, non senza divertimento, di aver ritrovato in alcune pagine di Il ritorno di Coniglio uno scontro dialettico sul Vietnam che ebbe luogo nella dimora degli Updike tra lui e il padrone di casa. Nel romanzo Roth parlerebbe per bocca di Skeeter, uno spregevole avanzo di galera, mentre Coniglio dà voce a Updike. La cosa non solo ha il valore delizioso dell’aneddoto, ma mostra come la passione guerrafondaia di Updike abbia nutrito il libro, diventando, nelle rozze manone di Coniglio, ancor più settaria. Una sorta di rivendicazione patriottica che non ti aspetti da un tipo così serafico. Se c’è una cosa che Coniglio non può soffrire è il disfattismo antiamericano. I liberal, i radicali, le figlie di papà, gli spacciatori, i campioni della controcultura, tutti sempre lì a sproloquiare su quanto faccia schifo l’America. Coniglio, pieno di buonsenso e schiettezza, intuisce che tali posizioni sono nel migliore dei casi pose estetizzanti, nel peggiore pericolosa propaganda: chiunque la pensi in quel modo, non solo è nemico degli Stati Uniti ma è suo nemico personale. Se la deve vedere con lui. Se c’è da fare a pugni Coniglio non si tira mai indietro, difficilmente esce sconfitto. Il litigio con Jill, la diciottenne sciroccata, è emblematico. Allo scontro assiste il piccolo Nelson che tra le lacrime chiede: «Papà, ma tu non vai d’accordo proprio con nessuno?». «Perché amo il mio Paese — dice Coniglio — e non sopporto che lo smerdino». «Se lo amassi — dice Jill — lo vorresti migliore». E ora sentite qua la risposta di Coniglio, un tocco di genio che dice tutto di lui: «Se fosse migliore io dovrei essere migliore». Che battuta splendida!
Coniglio non è un bruto drogato di fica, né un patriota esaltato, ma un uomo di straordinaria consapevolezza. Se ti aspetti troppo dal tuo Paese, è logico che il tuo Paese si aspetti troppo da te. Meglio lasciare le cose come stanno. Coniglio vive bene in America e l’America è contenta di rispondere alle esigenze di Coniglio con sollecitudine, calore e generosità.