Stefano Agnoli, Corriere della Sera 5/4/2015, 5 aprile 2015
«L’ENI CRESCERÀ CON LE SUE FORZE DIVIDENDO, IL MERCATO HA CAPITO»
MILANO Dire che abbia tirato un sospiro di sollievo è forse troppo, ma a tre settimane dal taglio del dividendo annunciato a Londra in occasione del piano al 2018 e dopo un lungo road-show internazionale con gli investitori «vecchi e nuovi», Claudio Descalzi appare sollevato. «Credo che oggi si possa dire che il mercato abbia apprezzato la nostra decisione secca, senza alchimie, e non la forma ibrida cash-azioni che altre compagnie hanno utilizzato», spiega l’amministratore delegato dell’Eni, che a quasi un anno dal suo insediamento è pronto a tirare un bilancio.
Perché gli investitori del Cane a sei zampe si sarebbero convinti che ridurre la propria remunerazione è la cosa giusta da fare?
«Perché il faro del nostro piano è quello della solidità del bilancio, che va ottenuta coprendo investimenti e dividendi con la cassa che viene prodotta; riducendo la quota di utile distribuita in modo che scenda sotto il 100% fino al 60% del 2017-2018; tenendo il rapporto debito patrimonio sotto il 30% con un trend in diminuzione a partire dal 2016; avviando 16 nuovi progetti per produrre petrolio e gas. Un percorso iniziato lo scorso maggio subito dopo la mia nomina, la nuova struttura organizzativa e il taglio di costi generali e amministrativi che arriverà a 2 miliardi».
Siete partiti prima del crollo del prezzo del barile…
«È così. In questo modo siamo stati in grado di reagire alla nuova situazione senza essere costretti a muoverci da una condizione di emergenza. In passato l’Eni era abituata a stare seduta su diverse gambe robuste, come il gas, la raffinazione, che negli ultimi 5-6 anni hanno però visto cronicizzarsi i loro problemi strutturali. Dal 2009 al 2013 la raffinazione ha perso 6 miliardi di euro e dal 2011 al 2013 il gas&power 4,8 miliardi, mentre la produzione di petrolio e gas ha registrato risultati operativi per oltre 70 miliardi. Insomma, il gruppo Eni ora si fonda su una sola robustissima gamba, ma molto legata all’andamento del petrolio. Per questo ci serve un bilancio solido, con un debito basso e con la flessibilità per rispondere a ogni situazione».
Avete detto che il vostro prezzo di equilibrio, quello sotto il quale non si guadagna più, è a 45 dollari al barile..
«Sì, 2 dollari per i costi esplorativi, 8 per quelli operativi e 20 per lo sviluppo. Il resto sono tasse e royalties».
A febbraio la produzione giornaliera dell’Eni sarebbe risalita a 1,7 milioni di barili, ma ci sono dubbi sulla vostra capacità di portare avanti così tanti progetti impegnativi. Che risponde?
«Parlano i fatti, come accaduto nelle acque profonde dell’Angola; o in Congo, dove abbiamo messo in produzione in tempi record un campo gigante. Certo, le preoccupazioni ci sono, ogni progetto va seguito passo dopo passo e magari in qualche caso rinforzato con personale nostro. Però credo che gli investitori siano contenti che negli ultimi 7 anni l’Eni abbia scoperto 10 miliardi di barili a un costo medio di due dollari. Il nostro futuro passa senza dubbio dalla capacità di sviluppare tutte le risorse che abbiamo trovato».
Si dice che per completare il miliardo di dismissioni ancora scoperto vendereste una quota del gas del Mozambico agli indiani di Ongc, insieme agli americani di Anadarko…
«Se venderemo quel 15% che abbiamo messo sul mercato lo faremo da soli e non con Anadarko. Stiamo analizzando».
E il maxi progetto di Kashagan, sul Mar Caspio, bloccato dal 2013?
«Ripartirà a novembre-dicembre del prossimo anno».
Ci si attende che un periodo prolungato di prezzi bassi del petrolio possa dare innescare una stagione di fusioni e acquisizioni. L’Eni potrebbe approfittarne?
«Onestamente adesso la nostra focalizzazione massima è sugli obiettivi di bilancio, sui nuovi progetti e sul ritorno all’equilibrio dei settori raffinazione e marketing e del gas. Non pensiamo a fare acquisizioni, anche se tutto può succedere. Di solito le compagnie comprano assets per acquisire riserve senza rischio esplorativo, ma per noi è diverso, di risorse da sviluppare ne abbiamo scoperte tante, e l’Eni si è sempre distinta per la sua capacità di crescere organicamente».
Con la crescita del 3,5% l’anno che promettete, l’Eni arriverebbe a fine piano a 1,9 milioni di barili al giorno. La soglia dei 2 milioni è sempre proibita?
«Non credo che un target di volumi sia rilevante in assoluto se non è legato al valore associato a ogni barile prodotto. Quanto alle aree, l’Africa è il nostro pezzo forte, per tradizione e per quanto scoperto negli ultimi anni. La diversificazione invece riguarderà il Pacifico, il Vietnam, Myanmar, e poi gli Usa e anche il Messico, dove siamo interessati al processo di privatizzazione».
Nessun ripensamento sugli idrocarburi «non convenzionali», come shale oil e shale gas?
«No, tutte le major hanno perso soldi e sono state costrette a fare molti write-off in bilancio a causa di quelle attività. Non ritengo che si sia perso un trend».
Il futuro Eni sarà quindi quello di essere una «oil company» pura?
«Saremo una “oil and gas company” integrata».
Ma secondo qualche indiscrezione la divisione gas potrebbe essere scorporata, magari portata in Borsa…
«Il gas è un settore importante, che conta più di 10 milioni di buoni clienti in Italia, Francia, Belgio, Grecia. Dobbiamo essere più focalizzati, c’è molto valore aggiunto che si può estrarre a livello commerciale e industriale. E se si parla di decarbonizzazione il gas è una risorsa che tornerà ad essere importante».
Per raffinazione e chimica sono possibili delle alleanze?
«Potrebbero esserci, non lo escludiamo. La chimica è ricca di brevetti interessanti e ci sono già degli accordi in Corea e in ambito asiatico».
Caso Saipem, non sarebbe più ragionevole una soluzione come quella Snam, con l’intervento di Cassa depositi?
«Il nostro obiettivo rimane deconsolidarla, visto che pesa per il 34% sul nostro debito. È nostro interesse avere una Saipem forte, robusta e indipendente, da cui estrarre il massimo valore. Non ci sarà alcuno spezzatino, come ho letto da qualche parte e al momento giusto penseremo a deconsolidarla, rimanendo però azionisti, almeno in prima battuta».
Quanto l’ha condizionata, o la condizionerà, essere indagato nel caso del blocco nigeriano Opl-245?
«Abbiamo collaborato, stiamo collaborando e siamo pronti a collaborare in ogni momento con la magistratura. È ovvio che questa situazione non mi faccia piacere, ma sono serenissimo e ciò mi permette di lavorare alla trasformazione dell’Eni senza nessun problema».