Elvira Serra, Corriere della Sera 4/4/2015, 4 aprile 2015
È NATO PRIMA L’UOVO (DELLA PASQUA)
Era simbolo di ciclicità della vita Fabergé ne fece un gioiello da zar Quello di gallina a metà Ottocento è diventato un dono popolare
Si fa presto a dir sorpresa. D’oro, d’argento, di peluche, un puzzle, una bambola, una macchinina, un anello o un biglietto aereo (se il fidanzato è romantico o creativo). Questa, però, è la fine, l’epilogo pop, non l’inizio. Perché tra l’uovo cosmico e l’uovo di cioccolato c’è un passo millenario, ma obbligato. «Niente come l’uovo riesce a sintetizzare la ciclicità della vita in una formula perfetta, che racchiude nella sua rotondità il principio dell’inizio e della fine», racconta Marino Niola, professore di Antropologia dei simboli.
Omne vivum ex ovo , tutto ciò che è vivo discende da un uovo, dicevano gli antichi Romani. Gli Egizi lo consideravano il fulcro dei quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco), e i Persiani già si scambiavano quello di gallina all’inizio della primavera. Dioniso, nelle tombe trovate in Beozia, portava un uovo in mano, emblema del ritorno alla vita, e pure l’effigie della Dea Madre prevedeva l’uovo, simbolo di fecondità. I banchetti funebri degli Etruschi non ne facevano a meno.
«L’uovo compare anche nelle cosmogonie africane, è un simbolo antichissimo legato alla nascita nell’atto stesso in cui si dischiude. Non è specifico della tradizione cristiana, che lo ha fatto proprio, oltre a quella ebraica, dove però ha un significato ambivalente: da un lato è il segno della vita che ricomincia e dall’altro ha una componente luttuosa poiché è il cibo tradizionale con cui si interrompe il digiuno dopo un decesso», spiega il teologo Piero Stefani.
È un uovo di struzzo quello che pende dal catino absidale nella Pala di Brera di Piero della Francesca. «Nella credenza medioevale si presumeva che fosse autofecondato, quindi gli si attribuiva un significato cristologico. Poi però l’uovo partenogenetico e l’uovo di primavera, simbolo portante nella cultura nordeuropea della fine del letargo, si mescolano nella nostra tradizione in un condensato di confusione», interviene il critico d’arte Philippe Daverio.
Diventa un dono sociale (e popolare), da fare a Pasqua, a metà dell’Ottocento. Dice lo storico della cucina Alberto Capatti: «Era un’usanza legata alle uova di gallina e non ai prodotti dolciari, segnava il periodo di fertilità del pollame, quando ancora non esistevano le razze ovaiole e il periodo di maggior produzione coincideva proprio con la ricorrenza pasquale primaverile. Non essendo un bene di consumo costoso, poteva essere donato dai padroni ai servi». Nulla a che vedere con le 450 uova rivestite d’oro che Edoardo I d’Inghilterra fece commissionare sei secoli prima per donarle a parenti e membri della Corte in occasione della Pasqua. Antesignane, forse, di quelle, preziosissime, che il maestro orafo Peter Carl Fabergé confezionò dal 1885 al 1917 per lo zar Alessandro III di Russia, che voleva un dono speciale per la zarina Maria Fyodorovna.
Anni luce distanti dalle sorprese di plastica della nostra infanzia, quando l’uovo era di cioccolato per antonomasia, avvolto nella carta argentata con un fiocco colorato: un preciso figlio del consumismo, di un’Italia votata al benessere, anche a tavola. «Eppure il dono delle uova, quelle vere di gallina, significava un’uscita dal freddo e buio tempo invernale che legava tutti, sia gli uomini che gli animali e i vegetali, alla catena delle rigenerazioni», insiste l’antropologo Marino Niola. E ricorda, piuttosto, come l’uovo — non di cioccolato — sia un ingrediente immancabile nel banchetto pasquale. «È un picco del colesterolo rituale, che nasconde la santificazione delle uova: la gola diventa devozione e la digestione si trasforma in passione», scherza. Ma poi elenca ripieni, impasti per pizze, torte e focacce, settentrionali o meridionali, dove addirittura le uova devono stare (sode) bene in vista.
La spiegazione può essere cercata nelle parole di Piero Stefani: «Durante la Quaresima, soprattutto in passato, ci si asteneva dal consumo delle uova e quindi ci si ritrovava con grandi quantità da smaltire in cucina».
L’uovo non manca mai neppure nel menu di Gualtiero Marchesi, il «maestro» degli chef, che nella sua cucina lo propone all’antipasto, «svuotato e poi farcito con la sua stessa crema, cotto al vapore e decorato con caviale». Per lui, non è mai stato un concentrato di zucchero, ma un pezzo di storia familiare: «Il padre di mio padre commerciava il pollame e fu lui a insegnarmi a riconoscere quando è fresco, cercando i vuoti mentre lo guardo in trasparenza».
La colomba, al confronto, è una dilettante. È nato prima l’uovo, anche della Pasqua.