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 2015  aprile 04 Sabato calendario

LOTTI, IL POTERE CONQUISTATO SERVENDO TAZZE DI CAFFÈ

Con mezza bustina di zucchero o amaro, non troppo ristretto. Luca Lotti sapeva, e non sbagliava mai. Ogni volta che c’era una riunione convocata con enfasi e urgenza, un colloquio che poteva spaziare dal progetto per una rotatoria con i tulipani a un’intervista per introiettare un precetto renziano, Luca bussava. Poi entrava in ufficio col vassoio, senza far oscillare la tazzina, e serviva il caffè caldo – freddo disgusta – a Matteo Renzi. Per tre mesi, nove anni fa, il biondo dai capelli sempre più radi di Samminiatello, frazione di Montelupo Fiorentino, è stato un premuroso assistente di Renzi. Contratto di collaborazione, strappato senza moine al giovane presidente della Provincia. Il consigliere Paolo Londi – non un rottamatore, siede in Comune a Montelupo dal 1980 – suggerisce a Renzi di incontrare quel ragazzo (classe ‘82) col fiuto da politico scafato. Luca ha rastrellato preferenze a destra e sinistra e ottenuto un seggio al Municipio a 23 anni. È l’istinto di sopravvivenza di un democristiano in Toscana, una regione rossa dove il ragazzo, che frequenta l’Azione Cattolica, capisce che per vincere deve mediare, invadere le zone altrui, sottrarre i voti altrui. Conta la tessera che possiedi e le identità che ti affibbi. È l’istinto che anima il renzismo.
AUTUNNO 2006. TRA MODULI A ZONA CERCANDO UNA POLTRONA
Matteo è in visita ufficiale a Montelupo, cose di ceramiche, panegirici, rinfreschi. Matteo stringe la mano a Luca, Luca offre un passaggio a Matteo. Ascoltano una canzone, discettano di pallone, di moduli a zona, di Arrigo Sacchi e di Fiorentina. Poi il rituale scambio di numero di cellulare e, l’indomani, una chiamata per la Provincia. Renzi è un tipo ambizioso, s’è conquistato un cantuccio, la riserva istituzionale dei popolari nutriti con gli avanzi degli ex comunisti. Per convertire il podere di minoranza nel potere di maggioranza, Renzi ha bisogno di un cardinale Richelieu, di uno spietato tessitore. Renzi ha bisogno di Luca. E Luca accetta. Affitta un monolocale, si fidanza con una dipendente della Provincia, che sarà sua moglie e la madre di Gherardo. Inizia dai caffè. Dura poco.
Matteo vuole certificare la supremazia di questo ragazzo che osserva, arguisce e, a volte, bisticcia. E per premiare Luca, s’inventa un incarico che non esiste e rimanda a un governo più ampio, a palazzo Chigi: coordinatore dei collaboratori, il primo degli ultimi o l’ultimo dei primi. La scadenza del mandato in Provincia s’avvicina, Renzi ha già creato laboratori, relazioni e un vangelo per abituare gli elettori a una sanguinosa diatriba fra i vecchi e i nuovi. E funziona. Il vangelo lo sperimenta in televisione da Daria Bignardi.
DICEMBRE 2009. GLI AMICI PRETI E SUORE PER SORPASSARE PISTELLI
Luca prepara la campagna elettorale per le primarie di Firenze. Matteo non è sicuro. Deve battere Lapo Pistelli, l’ex virgulto fiorentino che rientra in città e vuole palazzo Vecchio.
Quando Renzi sta ancora a sgranare se stesso per prendere una decisione, Luca ha già perlustrato le parrocchie, i quartieri, le cooperative e, soprattutto, il melmoso e risicato terreno di destra. Non c’è partita: Lapo soccombe, ripete Luca. Renzi prepara un’intervista, vuole trafiggere Pistelli con la retorica dei vecchi che cedono il passo ai nuovi: ineluttabile evoluzione. Quella notte, a bozza riletta, Renzi manda un messaggio a quattro amici, un prematuro (e forse scaramantico) epitaffio al renzismo: “Ho rivisto il testo, è molto bello. Ci ammazzano, però io mi preoccupo di voi. Ho parlato con Pistelli. Ho trovato qualche resistenza su Lotti”. Luca riceve, e sogghigna. Un mese più tardi, per una colazione a Roma, a sconfitta deglutita, Pistelli s’arrende a Renzi: “Quel Lotti ha tanta confidenza con i preti e le suore”. Il tratto che manca per scalare palazzo Vecchio è un’elezione poi superata in scioltezza contro l’ex portiere Giovanni Galli, candidato da Forza Italia per pura testimonianza. A barrare il nome di Renzi, dopo aver sfilato per le primarie interne ai democratici, ci va anche Simonetta Fossombroni, la moglie di Denis Verdini, il plenipotenziario di Berlusconi in Toscana. È il segnale che la competizione è terminata con l’indicibile accordo, tramite lo scaltro Lotti, fra Renzi e la destra. Al Comune, Luca non è più l’ospite: capo segreteria e capo gabinetto. Il povero Bruno Cavini, un portavoce , appena pronuncia una battuta fuori copione, viene messo ai margini. Lotti espone il programma, sciorina le priorità: non ai cittadini, ma agli assessori. Perché Lotti è il pensiero di Renzi.
DICEMBRE 2010. LA GLORIA MILANISTA E LA STRADA CHE PARTE DA ARCORE
Un anno di amministrazione è troppo per la gestazione renziana. Luca e Matteo, che scalpicciano negli ambienti di destra, pianificano il pranzo segreto a Milano, villa San Martino di Arcore. Renzi fa un viaggio in due tappe, treno e auto. Il gruppo è ridotto, essenziale: il sensale è l’imprenditore Enrico Marinelli, il luogotenente è Lotti. Ci sono più versioni su quel pomeriggio nel salone di Silvio Berlusconi. La più accreditata: Lotti ha aspettato in cortile che Silvio e Matteo consumassero il pasto e poi ha salutato il presidente del Consiglio e l’ha blandito recitando la gloria milanista, gli olandesi e le coppe. A distanza di cinque anni, il senso travalica i dettagli: l’unico compagno per la trasferta di Arcore, l’unico discreto e adeguato, era Luca Lotti. Con il governo di Berlusconi sempre più fragile e la ditta di Bersani sempre più impacciata, Renzi prosegue col grugno la marcia su Roma. Rizzoli stampa il libro Fuori! di Matteo, col punto esclamativo . Luca non è l’amanuense: è l’ispiratore. È l’agente che gli organizza decine di presentazioni. Così il renzismo è scolpito sulla quarta di copertina: “Contro i soliti noti, contro i tromboni e i trombati, contro una generazione che ha già sprecato la propria opportunità di cambiare le cose”. Dentro Firenze, Lotti ha sistemato le cambiali elettorali, le incomprensioni per lo stadio con i fratelli Della Valle, l’asse portante e invisibile con la destra di Verdini. Fuori! Firenze, Lotti ha imperlato la figura di Renzi: Matteo è più accattivante, aggressivo, non interlocutorio. I tecnici di Mario Monti sostano a palazzo Chigi e Renzi vuole contendere la guida a Pier Luigi Bersani. Il traguardo è la battaglia 2012, una battaglia di Palestrina, un assaggio virulento di un conflitto che poi sarà più vasto e avrà repliche con esiti diversi. Il camper, il giro d’Italia, è un’invenzione di Lotti. Renzi dovrà soltanto sciorinare quattro o persino cinque orazioni al giorno e poi dormire disteso in cabina. Lotti provvede ai finanziamenti che la fondazione attira con la precisione di un magnete. Lotti provvede, a tutto: spiccia le faccende domestiche, ricorda a Renzi gli appuntamenti e le bollette inevase . Ormai, Lotti è indispensabile. E chi è indispensabile, non ha sostituiti.
INVERNO 2012. IL PALLOTTOLIERE PER SPEDIRE UNA PATTUGLIA IN PARLAMENTO
Bersani e l’apparato reggono, le primarie respingono Matteo. Renzi ha il consenso, non il partito. E incassa. Il segretario ha rimosso l’ostacolo fiorentino e veleggia placido verso le elezioni di febbraio. Troppo placido. Renzi simula l’armistizio, si defila. Allora tocca a Lotti trattare con Vasco Errani, il governatore emiliano che compila i listini bloccati e, coadiuvato da Maurizio Migliavacca, seleziona chi mandare in Parlamento e chi punire per un turno. Lotti ha esaminato la sconfitta e rammenta a Renzi: il Nazareno va espugnato con il supporto degli iscritti, ma l’impresa è vana se il renzismo non presidia la struttura, non manovra i delegati regionali, i cacicchi locali. Spedire una pattuglia di fedelissimi in Parlamento è una breccia che, appena Bersani tentenna, può aprire un varco. La non vittoria di Bersani anticipa i tempi, allarga la breccia. Va male il sondaggio per il governo di Pier Luigi, va male lo scrutinio su Franco Marini e va malissimo lo spoglio su Romano Prodi per il Quirinale. Più Bersani appare debole, più Renzi da Firenze, inseguito mentre va in bicicletta o si barrica a palazzo Vecchio, una pantomima per mostrare distacco, rappresenta l’estrema salvezza per tanti deputati e senatori frastornati. Matteo risparmia un paio di trasferte da Firenze, finge di essere immerso in Municipio con le sudate carte sul tavolo, perché a Roma c’è il deputato Lotti che giocherella col pallottoliere.
APRILE 2013. COSÌ SFILÒ LA POLTRONA A ENRICO LETTA
Per un giorno, Renzi spera di anticipare l’ingresso a palazzo Chigi. Ma Giorgio Napolitano e il dimissionario Bersani, sostenuti da un redivivo Berlusconi, plasmano l’esecutivo di Enrico Letta: larghe intese, ammucchiata trasversale, un favore enorme al renzismo. Quel sabato di aprile, a Roma, Renzi istruisce la squadra e lo scudiero Lotti ha un colloquio con Dario Franceschini. Il democristiano di Ferrara sarà il ministro per i rapporti con il Parlamento e, durante l’agonia del governo di Letta, sarà il referente di Renzi. Con una postilla: è Luca che discute con Dario, non Matteo. Spesso Franceschini va a Firenze con Antonello Giacomelli. Per rispettare la tattica approntata da Lotti e non lasciare sguarnito il partito, in attesa di rifare le primarie (dicembre 2013), il reggente Guglielmo Epifani accoglie lo stesso Lotti nel politburo dem, in segreteria. L’assalto renziano del Nazareno è soltanto una pratica burocratica, i parlamentari sono già in fase di conversione, già aderiscono al renzismo, già ossequiano Lotti. Le commissioni impantanano l’esecutivo. Letta prepara il semestre europeo, la legge finanziaria, i decreti onnicomprensivi, ma non s’accorge che Renzi, per merito di Lotti, gli ha sfilato il partito, ha sfaldato i bersaniani e catturato i lettiani.
INVERNO 2014. IL PATTO CON BERLUSCONI E LE FICHES AI GIORNALI
Anche il voto di sfiducia a Letta in assemblea è una finzione, i conti li detiene Lotti e un po’ Lorenzo Guerini. Non c’entrano le abilità matematiche, ma le due torri che Lotti muove per sorvegliare ogni mossa di Letta e ogni ansia in aula: l’ex sindacalista Epifani e il sempiterno democristiano Franceschini. La cacciata del pisano Enrico era definita già a dicembre, s’è indugiato qualche mese per preparare il passaggio di testimone, promettere cadreghe, amnistie da dopo guerra (i bersaniani non epurati). C’è spazio per una dichiarazione di Lotti che rassicura Letta: non temere, Enrico, le intenzioni di Matteo sono pacifiche. Cos’è se non una variante di #enricostaisereno?
Quando Berlusconi e Gianni Letta salgono le scale al Nazareno per siglare il patto con Renzi, un piano per sabotare Letta e persuadere Napolitano, Lotti è altrove. Matteo l’ha avvisato: questioni di opportunità. Il ruolo di vice è di Guerini da Lodi, il non toscano più aderente al renzismo escluso l’emiliano Graziano Delrio. Guerini è ammesso al Nazareno con l’ex Cavaliere. Lotti fatica a comprendere, non è il caro Luca che s’apparta ovunque per chiacchierare con Verdini? Non è il caro Luca che ingabbia i presunti avversari con proposte di alleanze più o meno palesi? Matteo risana subito l’orgoglio ferito di Luca: il lampadina (appellativo per rimarcare la chioma gialla) partecipa a ciascuno dei dodici bilaterali con l’ex Cavaliere. Non è il momento per screzi da amici che scazzottano sul muretto: a sua insaputa, l’Italia s’è consegnata al renzismo. Luca ha un posto in segreteria, responsabile per l’organizzazione. Va oltre il compito che gli viene assegnato, un po’ per attitudine e un po’ per abitudine. È Luca che rassetta le beghe regionali: in missione in Sardegna, ordina a Francesca Barracciu, indagata per peculato, di ritirare la candidatura, perché presto sarà risarcita. Quel settore al Nazareno, però, spettava a Stefano Bonaccini. Barracciu verrà poi soddisfatta con una poltrona da sottosegretario e tutelata in Parlamento, ancora su indicazione di Lotti, da Maria Elena Boschi: per noi, sentenzia la ministra, non bastano gli avvisi di garanzia.
Il governo presta giuramento al Quirinale. Gli schieramenti di partenza ingannano. Lotti ha la delega all’Editoria, robetta. Ma per Luca è un’occasione preziosa per risolvere con una fiche le relazioni con i giornali. Ignora la materia, interloquisce con pochi cronisti. Per fare un decreto sui contributi pubblici ai quotidiani arruola Antonio Funiciello, ex segreteria dem con Epifani, uno stimato consulente d’azienda, opinionista e saggista, autore de Il politico come cinico. La riforma di Lotti stanzia 120 milioni di euro nel triennio, 25 sono incentivi ai prepensionamenti. Approvato il testo e carpita la benevolenza mediatica, Lotti cede il suo portavoce a Maria Elena Boschi. Non è più necessario.
PRIMAVERA 2014. SI GIOCA IN SERIE A: I MILIARDI DEL CIPE E LE NOMINE
Delrio ha importato a Roma la squadra di Reggio Emilia, Mauro Bonaretti è il segretario generale di palazzo Chigi e Lotti è relegato in un dipartimento minore. L’ex sindaco vuole governare da sé, mentre Renzi cinguetta e si pavoneggia. Per unire il gruppo, Renzi lo divide. È una alchimia che non tradisce mai. Ancora prima di ingaggiare l’ex vigilessa Antonella Manzione al legislativo, il crocevia dove transitano i provvedimenti, accoglie la richiesta di Lotti e gli affida il Cipe, il comitato interministeriale che maneggia miliardi di euro l’anno e spunta gli elenchi per le grandi opere. Palazzo Chigi è consapevole di dover fronteggiare il gruppo del boiardo Ercole Incalza supportato dal ministro Maurizio Lupi. Lotti li tiene a bada e propina al Cipe le piccole (non più grandi) opere che gli interessano per la propaganda in Toscana: la riqualificazione del porto di Piombino, la ristrutturazione per le terme di Montecatini, un sottopasso nel centro di Prato, i fondi per gli ottomila comuni. Renzi è la copertura politica, Lotti è l’azione. Il metodo viene applicato per le nomine per le società statali. Luca fa i provini, esclude e include: promuove Claudio Descalzi e Francesco Starace ai vertici di Eni e Enel, insiste per l’avvocato Alberto Bianchi, tesoriere dell’associazione renziana Open, e l’ingegnere biomedico Fabrizio Landi per i Cda di Enel e Finmeccanica. L’azionista Pier Carlo Padoan è inerme. Lo stesso succede per la Corte Costituzionale e il Consiglio superiore della magistratura; l’interlocutore privilegiato è Verdini. Le influenze per Lotti non si esauriscono con un’infornata di cariche; il potere va accudito, ci vuole costanza. Quando ha mezz’ora libera, Lotti va a salutare Marco Bardazzi, direttore della comunicazione di Eni, un cronista di agenzia che apprezza dagli anni di Firenze. Descalzi l’ha reclutato anche per l’amicizia con Lotti. E se Michele Adinolfi, indagato per la cooperativa Cpl Concordia, scalpita per attizzare la carriera nella Finanza, Lotti è lesto a rispondere. Il generale, in epoca palazzo Vecchio, era di stanza a Firenze.
AUTUNNO 2014. PIANO PIANO SCALZA DELRIO E CHIUDE IL CERCHIO MAGICO
Quando affiora un groviglio inestricabile, Renzi s’appella a Luca. È il risoluto Luca che dirime la faccenda emiliana. Matteo Richetti vuole sfidare l’ex bersaniano Stefano Bonaccini per la Regione, le primarie incombono. Gli ex consiglieri regionali sono inquisiti per le spese pazze. Bonaccini e Richetti professano la propria innocenza. Lotti fa il politico istruttore e s’informa: la posizione di Richetti, in origine un raro esemplare di renziano in Emilia, è più compromessa. Il Nazareno recapita il messaggio che Lotti ha vergato: gentile Richetti, è inutile dimenarsi, non puoi gareggiare. Richetti accusa, Bonaccini viene archiviato e stravince. Il puritanesimo non è la confessione di Lotti che, per motivi che non vanno rintracciati nel curriculum, è il protettore di chiunque vada protetto e il giustiziere di chiunque vada giustiziato. Di Vincenzo De Luca, il condannato in primo grado per abuso d’ufficio che il Nazareno schiera per la regione Campania, è il protettore. Di Richetti è il giustiziere. Delrio non è né protetto né giustiziato: è rimosso. Il finale era di facile intuizione. A palazzo Chigi, il sottosegretario Lotti ha scelto uno studiolo attiguo all’eremo Renzi, il luogo non è confortevole, però la collocazione è strategica. In quel corridoio s’avverte soltanto l’accento toscano. Delrio era dislocato sul versante opposto. Il plastico di palazzo Chigi già faceva presagire quel che è accaduto in questi giorni: Lotti avvinghiato a Renzi, Delrio in arretramento.
È Delrio, non Lotti, l’uomo amputato dal corpo di Renzi che deve bonificare il ministero per le Infrastrutture. Palazzo Chigi, adesso, è zona di competenza del lampadina. Luca Lotti da Samminiatello viene paragonato a Gianni Letta oppure a Nino Cristofori, agli ambasciatori di Repubbliche ingiallite. Ma Luca Lotti non è altro che il Matteo Renzi che s’insinua senza farsi notare, che comanda senza farsi selfie.
Carlo Tecce, il Fatto Quotidiano 4/4/2015