Carlo Bastasin, Il Sole 24 Ore 4/4/2015, 4 aprile 2015
QUEL GOVERNO PER LA CRESCITA CHE PUÒ SALVARE L’EURO
Qualunque sia il destino della Grecia, l’unione monetaria europea non può rimanere nelle condizioni attuali. Un’uscita di Atene la ridurrebbe a un accordo di cambio instabile e revocabile secondo convenienza. Una permanenza porrebbe il tema di una governance più condivisa, ma anche più trasparente e democratica.
A giugno le istituzioni europee discuteranno un nuovo rapporto sulla maggiore integrazione dell’area. Una nota analitica pubblicata a gennaio parte dal generico riesame delle cause della crisi, con l’intento di appianare il fondo di recriminazioni che guasta l’intero discorso europeo. È un metodo pragmatico, ma per guardare avanti è ancor più necessario non nascondere le pesanti eredità lasciate dalla crisi. Gli ultimi anni hanno depositato nelle arterie europee debiti e disoccupazione così alti da avere impatto sul futuro dell’euro area condizionando tutti e tre i criteri di orientamento della politica economica: stabilità, crescita ed equità.
Mi limito al tema dei debiti pubblici. Tra il 2007 e il 2013 il debito medio nell’euro area è aumentato di 30 punti di Pil ed è ora al 95% del Pil. Non è un livello assoluto alto se confrontato con Usa e Giappone. Ma il fatto che la governance europea sia caratterizzata da una politica monetaria unica e politiche di bilancio decentrate rende la crescente diversità dei livelli di debito da Paese a Paese un problema per la stabilità interna dell’euro area. Rende strutturalmente divergenti le prospettive di crescita di Paesi ad alto o basso debito. Ciò ha ripercussioni profonde in termini di equità, fino a porre in condizioni di minorità politica i Paesi privi di margine nelle politiche di bilancio rispetto agli altri Paesi. Lo abbiamo già visto e così sarà anche in futuro: in condizioni di permanente asimmetria finanziaria la tenuta dell’unione monetaria rimarrà a rischio.
È importante avere chiare le cause che hanno provocato l’aumento del debito. Secondo dati del Fondo monetario, un terzo dell’aumento del debito è dovuto agli aiuti pubblici alle banche.
La parte preponderante dell’aumento di debito dovuto alla crisi, quasi il 60%, è invece conseguenza della spesa per interessi provocata dalla crisi stessa. Solamente il 4% dell’aumento totale del debito è dovuto a disavanzi primari di bilancio più alti di quanto era consigliabile secondo le regole della governance economica. La regola non scritta del “moral hazard”, cioè il timore che i governi abusino dei margini di bilancio in violazione delle regole, è cioè smentita dai fatti. I 18 governi si sono comportati dal punto di vista fiscale in modo molto più virtuoso di quanto tendiamo a credere. Con le buone o con le cattive, durante la crisi la regola del “fare i compiti di casa” è stata internalizzata.
In effetti, la descrizione della crisi come un problema di vizio fiscale, ha fatto sì che quasi tutta l’architettura istituzionale di governo dell’euro area si occupi di evitare eccessi di deficit primari di bilancio, che come detto sono stati solo il minore di problemi di governo dell’euro. Il resto è stato scaricato sulla Bce: con l’unione bancaria abbiamo affrontato il problema degli aggiustamenti dei bilanci bancari. Infine la Bce ha a suo carico il 60% del problema, cioè la stabilizzazione dei tassi d’interesse. Forzando un po’ la logica dei numeri, è come se avessimo scaricato il 90% dei problemi fuori dalla politica. Il sistema adesso è più stabile, ma solo nel senso che è in grado attraverso strumenti monetari di accompagnare la divergenza strutturale tra i Paesi. Purtroppo divergenze strutturali nelle economie portano a preferenze politiche divergenti. Quindi il sistema è più stabile finanziariamente, ma non politicamente.
Resta interamente scoperto l’impiego della politica di bilancio per il necessario sostegno della crescita e per una gestione non traumatica dell’eccesso di debito pubblico e dei suoi effetti asimmetrici sui Paesi. Se si vuole ridisegnare una governance economica europea per il futuro bisogna ripartire da una politica di bilancio comune per l’euro area.
Gli eurobond non sono una prospettiva realistica. A situazione costante, la Cdu di Angela Merkel vincerà anche le prossime elezioni e non cambierà la propria linea. Se come è prevedibile terrà fede al pareggio di bilancio, il debito pubblico tedesco scenderà significativamente. Nel 2019 sarà sotto il 60%, ma nel 2040 sarà addirittura sotto il 30%. Fatto 100 l’eurobond, la componente tedesca sarebbe al 10% e quella italiana al 20%, ma le garanzie pubbliche - in termini di entrate fiscali - sarebbero al 30% tedesche.
Affiancare alle politiche di bilancio nazionali una politica fiscale per l’euro area potrebbe risolvere il problema. Per esempio ponendo un obiettivo di riduzione del rapporto debito/Pil al 60% per l’euro area nel suo insieme, l’area rimarrebbe la più stabile del mondo, ma i Paesi più indebitati avrebbero margini comodi di aggiustamento più graduale e con minore impatto restrittivo. L’offerta di titoli pubblici, essenziali al funzionamento del sistema finanziario, non scomparirebbe. Si avrebbero benefici in termini di stabilità, di equità e di crescita.
Una politica economica orientata all’euro area nel suo complesso avrebbe implicazioni rilevanti anche per il resto delle politiche, a cominciare dalla correzione degli squilibri macroeconomici. Attualmente è fuorviante considerare i saldi commerciali dei singoli Paesi come indicatori di squilibrio nell’euro area. La scomposizione della produzione in catene del valore globali (processi produttivi multinazionali) rende poco significativi i disavanzi commerciali nazionali. È più importante capire quanto ogni Paese sia coinvolto nelle catene del valore. Tra il 2000 e il 2008 tutti i Paesi europei erano diventati più integrati nella ricomposizione multinazionale dei processi produttivi. Solo tre Paesi avevano ridotto la loro partecipazione alle catene produttive: Grecia, Cipro e Portogallo. Un quarto è rimasto stabile: la Spagna. Proprio i Paesi che hanno richiesto assistenza nella crisi.
La scelta è tra politica industriale europea e transfer union. Le asimmetrie competitive non si risolvono solo con le pene della svalutazione interna, ma attraverso l’integrazione nelle catene produttive europee, per le quali esiste una determinante geografica. Quando parliamo di periferia, usiamo il termine giusto, ma con un’accezione culturale sbagliata.
Carlo Bastasin, Il Sole 24 Ore 4/4/2015