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 2015  aprile 04 Sabato calendario

IL PARTIGIANO SONEGO ALTER EGO DI ALBERTONE

Se c’è stato un attore abiettamente sublime che ha rappresentato i sogni più bassi degli italiani – quasi una cosmogonia dell’infamia piccolo borghese – questi è Alberto Sordi. Una conferma altrettanto netta la ricavo dalla lettura del libro di Tatti Sanguineti Il cervello di Alberto Sordi (in uscita da Adelphi). Larga parte della sua strepitosa carriera Sordi la costruì grazie a un personaggio di grande fascino e di poche parole: Rodolfo Sonego, uno dei migliori sceneggiatori che l’Italia del dopoguerra ha avuto. Una storia quarantennale tra due personalità profondamente diverse: «Erano fatti per detestarsi», mi dice Sanguineti.
«Sordi pavido, imboscato, democristiano; Sonego coraggioso, partigiano, comunista. Due mondi destinati a non comunicare che per qualche alchimia hanno costruito un pezzo importante di cinema italiano».
La prima volta che sentii parlare di Sordi, racconta Sonego, fu una sera in casa del produttore Sergio Amidei. Era la Roma della fine degli anni Quaranta. Sordi sembrava una palla di sego: bello, grasso, pasciuto. Tosto. Suonò il campanello e si infilò dentro casa. L’attico era pieno di gente. Alle ripetute richieste di lavoro («famme fa questo, daje, famme fa quello!») Amidei si mostrò infastidito. Non tollerava questo scocciatore e lo sbatté fuori. Non era la prima volta. Ma fu la prima volta che Sordi reagì impuntandosi. Non volle andarsene: «Tu non puoi cacciarmi via, questa casa è un posto di lavoro!», gridò tra lo stupore generale.
Immaginando quella scena di torva e appiccicosa petulanza non si può non pensare a cosa Sordi sarebbe diventato nel corso della sua storia. Quindici anni di dura gavetta e di umiliazioni quotidiane, di fame e di infamia, possono trasformare anche una farfalla in un bufalo con le corna. Sordi non li dimenticò quegli anni: durante i quali crebbe il risentimento e il bisogno di trattare gli altri come gli altri avevano trattato lui. Ossia senza pietà. Quando il cinema scoprì il suo genio – e si vedrà fra un attimo di cosa si trattava – lui scoprì il cinismo ammantato da una concezione totalmente papalina della vita.
«Era», mi dice Sanguineti, «un uomo pronto a tutto prima di incontrare Scola, poi Fellini e infine Sonego. Ed è vero, non ha mai perdonato niente a nessuno». Ma a parte il risentimento, cosa fu quella relazione che ebbe inizio dopo il successo dei Vitelloni? Sordi era stato chiamato da Fellini. Lo sceicco bianco (1952) ne aveva messo in luce la misteriosa indolenza, il fascino fermo e remoto dell’eroe da fotoromanzo. I vitelloni (1953) accentuò quel tratto indolente: lo riportò sulla terra, lo rese meno irraggiungibile, fino a “gestificarlo” in quell’immagine memorabile in cui l’attore fa l’ombrello e grida “Lavoratori!”. Su questo sfondo prende corpo la relazione tra i due. È il 1954, Sonego sta lavorando alla sceneggiatura de Il seduttore. Sembrano fatti per intendersi. Si capiscono, pur parlando lingue diverse. Sonego esplora altre possibilità in questo attore confinato alla pura comicità e alla caricatura. Ne coglie la matura drammaticità in Una vita difficile (1961).
Se Sordi è l’istinto, Sonego è il cervello che così si esprime nei riguardi dell’attore: «Non è un uomo colto. Non ha letto i libri, non ha letto i testi sacri, non ha letto niente, non gliene importa niente di niente. Ma ha un colpo d’occhio infallibile. Il suo giudizio è sempre immediato e infallibile. È un’entità biologica purissima. È un animale selvaggio, un animale del bosco che ci vede anche di notte». Singolare questo accostamento ai volatili notturni. Una civetta? Un gufo? Un’upupa? Il bosco di notte è il regno della fissità e della metamorfosi.
Dentro questa storia affascinante Sanguineti fa rivivere la parti più belle e meno conosciute del cinema italiano. C’è Rossellini che Sonego conosce e con cui fa progetti. «Rossellini non si dava arie. Era tranquillo come un Papa. Mi diede una mano un po’ morta e mi salutò: Ciao caro! Ma tu hai degli interessi per l’astronomia». Ci sono Antonioni, Fellini, Risi, Monicelli. C’è Visconti che Sonego non ama. Dopo aver visto Le notti bianche sbotta: «È il film di un provinciale, di un principiante! Mi hanno messo contro il muro, quasi mi menavano. Ma andate oggi a rivederlo e ditemi quanti minuti resistete: Maria Schell a Livorno che dialoga in giardino con Mastroianni». Spesso i frutti intellettuali marciscono prima del resto.
Il cinema per Sonego più che farci pensare dovrebbe insegnarci a vedere. Ed ecco l’amore per Leone, con cui peraltro non collaborerà mai. Erano amici. «Sergio», ricorda Sonego, «cominciò a frequentare casa mia molto presto all’epoca dei suoi primi successi. Veniva la mattina con la Rolls-Royce a casa mia, siamo andati avanti a vederci per anni e anni. Lui faceva i film con altri». Eppure sospetto che Leone vedesse in Sonego un perfetto alter ego che amava il cinema allo stesso modo, con le stesse percezioni: «Quando lui veniva da me, non arrivava mai con un’idea, veniva sempre con un primo piano. Ho passato interi pomeriggi a sentirgli raccontare sul mio divano i piani sequenza interminabili con cui dovevano iniziare l’America e Lenigrado. Il cubo di cemento sul fronte del porto e le mani di Shostakovich sulla tastiera di un pianoforte. Ci andava vicino, vicino, vicino e poi allargava, allargava fino ad arrivare al punto di vista di Dio. Zoom, carrelli, carrucole, treno, elicotteri, aerei, satelliti».
La grandezza di Sonego sta soprattutto nella sua capacità di raccontare. Zanzotto non riuscì a capacitarsi che per tutta la vita avesse sagomato e risagomato una figura monocorde come Sordi. Scarpelli parlò di un talento di scrittore sprecato: sul quale Sordi era passato come un ferro da stiro su una mosca «La verità», dice Sanguineti, «è che Sonego poteva fare di tutto. Collaborare con chiunque. Una tale versatilità insospettì i feticisti dello specialismo».
Per i registi che hanno creato la commedia all’italiana e per quelli che l’hanno soffocata, forse per troppo amore, o per stanchezza, Sonego fu comunque una figura imprescindibile. Lo fu naturalmente anche per Sordi. Gli anni finali della loro collaborazione non furono i più fecondi. I film cominciarono ad avvitarsi verso il basso. E se di grandezza si può ancora parlare è quella di chi resta ipnotizzato sul ponte di una nave che affonda a contemplare il mare. «Sonego provò a staccarsi da Sordi, se ne andò perfino in America. Ma niente», dice Sanguineti, «il richiamo di Sordi fu più forte di tutto». La loro storia si iscrisse in alcuni piccoli capolavori involontari: Il moralista, Il vigile, Il vedovo, per citarne alcuni. Figure antropologiche nelle quali l’abiezione e l’ottusità del grande attore sfruttavano mirabilmente la psicologia del tratto italiano confuso tra la folla.
Sonego morì nel 2000. La collaborazione si spense in un ospedale romano dove lo sceneggiatore era stato ricoverato. Al funerale, nella Chiesa degli Artisti, in piazza del Popolo, per la prima volta, fu visto Sordi piangere. Commentò quella dipartita con frasi di circostanza. Ma un dettaglio colpisce: «Avevamo la stessa visione deformante dell’umanità». Perfetta chiusa per una galleria di indimenticabili piccoli mostri.
Antonio Gnoli, la Repubblica 4/4/2015