Pietro Del Re, la Repubblica 4/4/2015, 4 aprile 2015
GARISSA, TRA I SOPRAVVISSUTI ALLA STRAGE NEL CAMPUS “NOI CRISTIANI MASSACRATI ALLA VIGILIA DI PASQUA”
«Maledetti!», ripete con un filo di voce una donnina dal volto patito, avvolta in uno scialle nero. È qui da stamattina a imprecare contro i soldati keniani che adesso, numerosi e armati fino ai denti, presidiano il campus universitario di Garissa. Non ha più lacrime ma con gli occhi accesi di rabbia dice: «Dove eravate quando sono entrati gli Shabab? E che cosa facevate mentre, Giovedì Santo, noi cristiani venivamo massacrati come bestie?». I militari non la guardano neanche, immobili, con le facce lustre di sudore nonostante un vento incandescente che tutto disidrata. La donna si chiama Angie Nzaumi. I suoi due figli erano nel campus due giorni fa: sono stati entrambi trucidati dai jihadisti somali assieme ad altre 146 persone, tra le quali 142 studenti.
A Garissa, il giorno dopo la carneficina, i commercianti tengono tutti la serranda abbassata, non tanto in segno di lutto, ma per paura di nuovi attacchi. La mattanza sembra aver rallentato il ritmo di ogni cosa, con tutti che parlano sottovoce. Il suono che sovrasta ogni altro è il gracchio di grassi corvi che svolazzano tra i rami delle acacie. In una cittadina così malmessa, ai confini del nulla, sorprendono le dimensioni del suo campus. A uno degli ingressi, due bidelli lavano a secchiate il sangue rappreso. Qui incontriamo il dottor Hussein Bashir dell’organizzazione umanitaria Amref, famosa per i suoi “flying doctors”, quei medici che a bordo di piccoli aeroplani raggiungono le zone più remote dell’Africa. Al momento, Bashir è tra i pochi autorizzati a entrare all’interno dell’Università. «No, non ho visto studenti decapitati, ma molti di loro sono stati giustiziati con colpi sparati alla testa. A volte gli Shabab si sono davvero accaniti, massacrando questi poveri ragazzi. In molti casi sarà difficile identificarli. Nei dormitori ci sono ancora molti corpi a terra, e li stiamo raccogliendo per mandarli alla morgue di Nairobi», spiega il medico che è stato uno dei primi a portare soccorso dopo l’eccidio e a organizzare il trasporto verso gli ospedali della capitale dei feriti in condizioni più critiche.
Nel principale ospedale di Garissa incontriamo invece Nicholas Rotich, che ha la testa bendata e la gamba destra ingessata, perché una pallottola gli ha tagliato un orecchio e un’altra gli ha fracassato il femore. La sua testimonianza è simile a quelle degli altri studenti qui ricoverati, anch’essi con ossa spezzate o con addomi perforati o gravissime ustioni. Tutte raccontano il terrore, il caos, gli spari di quelle tragiche ore. Narrano di ragazze uccise a sangue freddo soltanto per aver improvvidamente invocato la grazia di Gesù mentre, in ginocchio, supplicavano i loro aguzzini di risparmiarle. O descrivono il bestiale sarcasmo degli Shabab che, sparando nel mucchio per ammazzare il più gran numero di studenti, auguravano alle loro vittime una buona Pasqua. Nelle parole di Nicholas, cristiano anche lui, c’è ancora il soffio della morte, che deve essergli passata davvero molto vicina. «Mi sono salvato solo perché quand’ero bambino mio zio mi fece imparare a memoria l’inizio di una sura del Corano. È in questo modo che i jihadisti ci hanno separato: chiedendoci di recitare almeno un brano del loro testo sacro. Se eri in grado di farlo venivi salvato perché musulmano, altrimenti, se facevi scena muta, eri freddato perché cristiano. Dopo esser scampato all’esecuzione mi sono nascosto in un armadio. E da lì sentivo i miei compagni piangere e urlare di dolore. Sono certo che prima di ucciderli, gli Shabab li hanno torturati. Quanto alle mie ferite, sono di proiettili sparati durante l’intervento dei corpi speciali».
Davanti all’ingresso del campus s’è formato un piccolo gruppo di sopravvissuti, anch’essi feriti, ma in modo più lieve: chi ha sulla fronte un grosso cerotto, chi un occhio pesto, chi una stampella per aiutarsi a camminare. A loro è andata meglio, anche se è verosimile che il ricordo del massacro li tormenterà finché vivranno. Appaiono visibilmente ancora sotto shock. In silenzio guardano verso le aule e i dormitori dove molti di loro hanno già deciso che non torneranno mai più. Tra questi miracolati si muove un uomo più anziano, che li abbraccia e li conforta cercando di farli uscire dal torpore di cui sembrano preda. È un loro professore, che non si trovava nel campus giovedì scorso e che per questo motivo si attribuisce colpe che non gli spettano. «Non riesco a perdonarmi di non essere stato al loro fianco. Lo so che non avrei potuto fare granché, ma con il mio corpo avrei coperto almeno uno studente salvandogli forse la vita », dice Anthony Wanjiku.
Chiediamo al professore se l’attacco ai cristiani di Garissa è giunto inaspettato o se invece la comunità aveva già subito minacce. Padre Nicolas Mutua, il parroco della città, ha detto ieri che lo temeva, perché aveva recentemente subito intimidazioni e che sebbene la polizia protegga la sua chiesa quando dice messa lui non è tranquillo. «Dopo ogni massacro tribale o, più recentemente, dopo ogni attacco terroristico, qui da noi tutti non fanno altro che recitare We are all Kenyans, siamo tutti keniani. Ma stavolta è uno slogan che suona stonato. Noi cristiani ne abbiamo abbastanza perché pur essendo l’80 per cento della popolazione siamo ormai il bersaglio prediletto dei jihadisti somali. Tutto ciò per colpa del governo che continua a sottovalutare le minacce».
Durante le esecuzioni di due giorni fa, alcuni studenti sono stati costretti a telefonare ai loro genitori per chiedere il ritiro delle truppe keniane dal Somalia (dove sono penetrate nel 2011 nel tentativo arginare i sanguinosi attacchi degli Shabab nel nord del Kenya). Un superstite al massacro racconta di aver sentito un suo compagno dire al padre: «Muoio perché Uhuru (Kenyatta, il presidente del Kenya, ndr) si ostina a restare in Somalia». Dopo aver suo malgrado espresso questa rivendicazione, il ragazzo è stato assassinato.
Il professore è anche convinto che l’alto numero di vittime segni una nuova tappa negli attacchi terroristici degli Shabab. «Non solo vogliono rubare l’anima di questi giovani, ma distruggendo le loro università, e uccidendo i loro insegnanti, come è accaduto sempre nell’est del Kenya lo scorso novembre, vogliono anche spingerli verso le madrasse, le scuole coraniche. Come Boko Haram, anche gli Shabab sono ferocemente contrari alla cultura occidentale», dice ancora Anthony Wanjiku. «Temo che se la persecuzione contro i cristiani nasce come guerra territoriale, ossia contro tutto ciò che in quella parte di Kenya non è musulmano o somalo, ora abbia acquisito una valenza decisamente più settaria. Per le probabili affiliazioni degli Shabab con altre realtà del terrorismo islamista, da conflitto “nazionalistico” quello keniano è diventato una guerra di religione».
Eppure, fino a pochi giorni fa, Garissa era una delle città più sicure di tutta la regione dei Grandi Laghi. Lo si intuisce dal numero spropositato di banche che vi hanno aperto, al punto che i suoi abitanti si crogiolavano chiamandola un hub della finanza. E adesso? Che cosa accadrà adesso che l’altro suo fiore all’occhiello, l’università, sarà disertata da insegnanti e studenti perché troppo vicina alla frontiera somala quindi troppo insicura?
A Garissa non piove da più di un anno, perciò le grasse nubi che si addensano in lontananza potrebbero significare un evento finalmente liberatorio. Sono le sei del pomeriggio quando sulle frequenze di Radio Andalus, una radio legata agli Shabab, un portavoce promette nuovi, violentissimi attacchi contro il Kenya. Prima che scatti il coprifuoco, decretato giovedì scorso dall’alba al tramonto, torniamo un’ultima volta all’ingresso del campus nella speranza che un soldato ci lasci entrare. Non vediamo più la signora Angie Nzaumi. Sarà andata a piangere i suoi figli altrove.
Pietro Del Re, la Repubblica 4/4/2015