Piero Melati, il Venerdì 3/4/2015, 3 aprile 2015
«NO ALLA VIDEOCAMERA IN BAGNO» E BAGARELLA CAMBIA CARCERE
Ora che l’Italia somiglia un po’ di più all’abituale stile di vita di un boss di Cosa Nostra, con le corruzioni diffuse, le mafie liquide, le cosche militarmente insediate da Roma in su, lui, l’antico maestro, l’ultimo corleonese (Riina e Provenzano hanno ormai imboccato il viale del tramonto) era costretto in una celletta illuminata e videosorvegliata 24 ore su 24, nell’area riservata del carcere di Nuoro, con il bagno alla turco al centro del locale. Regime di 41 bis, carcere duro, e nessun diritto all’intimità, hanno denunciato i legali.
Il giudice di sorveglianza ha dato ragione a Leoluca Bagarella. La telecamera è stata subito oscurata e a breve il detenuto verrà trasferito «in struttura idonea». Era appena sbarcato qui dal carcere dell’Aquila, Bagarella, da dove il 12 luglio del 2002 era intervenuto, annunciando lo sciopero della fame contro l’uso barbarico delle misure penitenziarie speciali. «Siamo stanchi di essere usati come merce di scambio dalle forze politiche» aveva detto.
Nato a Corleone, mafioso integrale da almeno tre generazioni (uomini d’onore il nonno, il padre, i fratelli, gli zii), fratello di donna Ninetta, moglie di Totò Riina, l’esordio da boss il 21 luglio del ‘79, quando uccide a Palermo, all’interno del bar Lux, il capo della squadra Mobile Boris Giuliano. Il poliziotto aveva scoperto il suo covo di via Pecori Giraldi, con dentro eroina, documenti falsi, armi e denaro, prime tracce dell’allora nascente impero planetario di Cosa Nostra, basato sulle raffinerie siciliane, che trattavano quintali di morfina base arrivata dall’Oriente.
Fallisce di un soffio l’evasione dal carcere dell’Ucciardone, nell’81: avrebbe dovuto saltare il muro di cinta con una pertica. Scarcerato per decorrenza di termini, riarrestato di nuovo nell’86 dal giudice Falcone, condannato a sei anni al Maxiprocesso di Palermo, pena ridotta a quattro in appello, esce ed è protagonista di un faraonico matrimonio nella Villa Igea dei Florio. Sua moglie, parente di un Marchese poi pentitosi, si suiciderà. Nel ‘92 organizza con gli altri le stragi di Capaci e via D’Amelio e, dopo l’arresto di Riina, guida la campagna di attentati sul Continente. Fa sapere a Provenzano che, se non è d’accordo con la campagna di terrore in Italia, si appendesse pure un cartello al collo, per farlo sapere a tutti. Viene arrestato nel ‘95 mentre, a Palermo, ritira un paio di jeans in lavanderia. Abitava di fronte la casa di due magistrati: Giuseppe Pignatone, attuale procuratore di Roma, e Guido Lo Forte, capo della Procura di Messina. Proporrà a Giovanni Brusca di farlo evadere dall’Ucciardone abbattendo il muro con missili e granate. Quello gli farà sapere «che vede troppi film miricani».
Molti pentiti gli hanno attribuito un disegno politico siciliano di tipo separatista, in occasione del crollo della Prima Repubblica nel ‘92. Bagarella, nel corso del processo sulla trattativa Stato-mafia, ha di recente smentito, dicendosi vicino alle posizioni unitarie di Giuseppe Garibaldi.