Andrea Di Biase e Andrea Montanari, MilanoFinanza 3/4/2015, 3 aprile 2015
IL DIAVOLO DI HONG KONG
Come è possibile che una società di calcio che negli ultimi cinque esercizi (dal 2009 al 2013) ha accumulato perdite a livello consolidato per 169,5 milioni (circa 34 milioni l’anno in media), sempre prontamente ripianate dall’azionista di controllo, possa essere valutata 1 miliardo di euro? E come è possibile giustificare una tale valutazione a fronte del fatto che questo club, seppur blasonato e con un gran numero di tifosi in Italia e nel mondo, non ha ancora uno stadio di proprietà, non ha più in rosa alcun top player di livello mondiale e rischia di rimanere escluso dalle coppe europee per il secondo anno consecutivo? Sono queste le domande che tifosi e addetti ai lavori dovrebbero porsi di fronte alle voci, sempre più frequenti negli ultimi tempi, secondo cui la Fininvest della famiglia Berlusconi starebbe negoziando la cessione del Milan (o di una quota di minoranza) per una valutazione complessiva del club di circa 1 miliardo.
Giusto per avere dei termini di paragone la Juventus, che in questo momento è il primo club italiano per ricavi (279 milioni nel 2013/14), il primo a essersi dotato di uno stadio di proprietà e quello più forte sul campo (è ormai vicino alla conquista del quarto scudetto di fila), ha una capitalizzazione di borsa di 274 milioni che, con 224 milioni di posizione finanziaria netta, equivale a un enterprise value di 498 milioni.
Volendo utilizzare per il Milan il multiplo di mercato che Piazza Affari applica alla Juventus (circa due volte i ricavi) per arrivare alla valutazione di 1 miliardo, il club guidato da Adriano Galliani e Barbara Berlusconi dovrebbe fatturare almeno 500 milioni. Un target oggi irraggiungibile per il Milan, che dovrebbe chiudere l’esercizio 2014 con un fatturato al netto del player trading (calciomercato) di poco superiore ai 200 milioni per via della mancata partecipazione alle coppe europee. Per arrivare a una valutazione di 1 miliardo bisognerebbe invece utilizzare il multiplo (circa cinque volte i ricavi) a cui tratta a Wall Street il Manchester United, che però a differenza del Milan è una macchina da soldi planetaria. I Red Devils hanno infatti chiuso la stagione 2013/14 (fallimentare dal punto di vista sportivo) con un utile di circa 30 milioni a fronte di ricavi per 543 milioni e si attendono di archiviare la stagione in corso con ricavi vicini ai 500 milioni, nonostante la mancata partecipazione alla ricca Champions League. È pur vero che a livello di blasone il Milan non ha niente da invidiare allo United. Negli ultimi 30 anni, sotto la presidenza di Silvio Berlusconi, il Milan è la squadra che ha vinto il maggior numero di Champions League (cinque) e giocato più finali (otto), facendo meglio di Real Madrid, Barcellona, Manchester United e Bayern Monaco. È però altrettanto vero che è dal 2007 che il Diavolo non vince un trofeo internazionale e che per tornare competitivi ad altissimo livello e innescare quel circolo virtuoso fatto di vittorie-ricavi-investimenti-vittorie servono risorse che in questo momento la Fininvest non può più permettersi di impiegare.
Allo stesso tempo vendere il club così com’è oggi risulterebbe diseconomico, considerato che difficilmente Fininvest riuscirebbe a spuntare una supervalutazione del club.
All’orizzonte non si vedono soggetti pronti a riconoscere a Berlusconi la valutazione auspicata. Nonostante la ridda di voci sull’esistenza di gruppi cinesi interessati al Milan, sia Wang Jianlin, patron di il Dalian Wanda Group, sia Zong Qinghou, accreditato come l’uomo più ricco della Cina, hanno ufficialmente smentito un loro interesse per il club di via Aldo Rossi. E anche l’istituzione finanziaria Usa (erroneamente indicata come la Madison Square Garden group) avrebbe informalmente manifestato un interesse ma per una valutazione del club ben più bassa (poco più di 500 milioni). L’unico investitore realmente seduto al tavolo con la proprietà del Milan è il broker thailandese Bee Taechaubol, che avrebbe un’esclusiva fino a fine aprile per effettuare una due diligence sui conti del club. Ma Mr Bee non è certo il magnate atteso da molti tifosi rossoneri, capace di replicare a Milano quanto fatto dagli sceicchi arabi col Manchester City o col Paris Saint-Germain. Perché allora aprirgli la porta e mostrargli i libri del Milan? Fondamentalmente perché l’uomo d’affari thailandese sarebbe in grado di mobilitare capitali di terzi provenienti dalle piazze finanziarie asiatiche destinati entrare nelle casse del Milan attraverso un robusto aumento di capitale, propedeutico a una successiva quotazione del club sul listino di Hong Kong. Le risorse raccolte in questo modo non finirebbero pertanto nelle casse della Fininvest (che però si diluirebbe dall’attuale 99,9%) ma rimarrebbero a disposizione del club per finanziare un piano di sviluppo a medio-lungo termine relativo sia alla dimensione sportiva sia a quella dello sviluppo commerciale e infrastrutturale (stadio ma non solo).
Per muoversi in questa direzione e trovare, con l’intermediazione di Mr Bee o di altri soggetti (anche Citic, la principale investment bank cinese sarebbe alla finestra in caso di ipo del Milan a Hong Kong) i capitali necessari allo sviluppo del club è però fondamentale lavorare a una equity story che non viva solo del blasone e dell’appeal del brand Milan sui mercati asiatici. In altre parole è necessario che il club guidato da Galliani e Barbara Berlusconi si dia un piano industriale e finanziario credibile e in grado di convincere i mercati. In Asia non hanno certo l’anello al naso e il caso del bond da 300 milioni dell’Inter proposto a investitori dell’Estremo Oriente e che nessuno ha sottoscritto ne è l’esempio più lampante. In questo senso diventeranno cruciali le prossime mosse sullo stadio.
Andrea Di Biase e Andrea Montanari, MilanoFinanza 3/4/2015