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 2015  aprile 03 Venerdì calendario

QUANTI ERRORI MR DRAGHI

Nell’intervento alla Camera dei deputati del 26 marzo, il primo nella veste di presidente della Bce, Mario Draghi ha affrontato temi di stretta competenza della Banca centrale e argomenti che esulano del tutto da responsabilità e mandato di questa istituzione. Le decisioni strategiche di cui Draghi ha dato conto, dall’Omd (Operazioni monetarie definitive) alla vigilanza bancaria unica sembrano essere state strumentali rispetto a esigenze straordinarie, quali la sopravvivenza dell’euro e la frammentazione dei mercati finanziari. Questioni già di gran lunga esorbitanti il mandato dell’Istituto. Un’esorbitanza che già si manifestò con la famosa lettera del 5 agosto 2011 firmata da governatore della Banca d’Italia insieme a Jean-Claude Trichet, allora capo della Bce. Al Parlamento sono state elencate le riforme strutturali volte ad aumentare il potenziale di crescita, a partire da una considerazione sulla giusta dimensione delle imprese, che imporrebbe il superamento della microimpresa, tanto diffusa in Italia, come condizione necessaria per l’aumento della produttività, visto che o si cresce o si salta. Concezione darwiniana del mercato, in contrasto non solo con la libertà d’iniziativa, sancita dall’art. 41 della Costituzione, e la tutela espressa dell’artigianato, ma con l’ampia normativa Ue a favore di pmi e autoimpiego. C’è il richiamo alla flessibilità in uscita dal mercato del lavoro, quando si sostiene che, «se si vuole accrescere la produttività il fattore chiave è la riallocazione» dei lavoratori tra imprese. Ancora, Draghi ha chiesto di accelerare il corso della giustizia civile in Italia, per consentire la distruzione creatrice dell’impresa inefficiente, di shumpeteriana memoria: «recenti lavori suggeriscono che un dimezzamento della lunghezza dei procedimenti aumenterebbe la dimensione media delle imprese dell’8-12%». Una sorta di apologia della grande impresa che trascura la realtà: Microsoft, grandi marchi della moda, società di costruzioni, tutte hanno decentralizzato la produzione: si mette insieme il lavoro di tanti micro imprenditori, dagli sviluppatori di applicazioni alle lavoranti a domicilio, ai manovali cottimisti. Per non parlare dei partner dei colossi informatici: hanno tutti i rischi, inclusi i ritardati pagamenti della Pa e versano profumate royalty ai titolari delle licenze con sede in un mezzo paradiso fiscale. La produttività delle grandi aziende si fonda su questi oscuri terzisti, e sulla potenza di marketing e finanza. Draghi ha aggiunto che non possiamo attenderci che le divergenze tra i Paesi Ue, legate a bassi potenziali di crescita e disoccupazione strutturale, «siano affrontate con trasferimenti permanenti dai Paesi più forti. L’Eurozona non è stata creata per far coesistere creditori permanenti e debitori permanenti. È un’area in cui ciascun Paese deve sapersi reggersi sulle gambe, sfruttando i vantaggi comparati e le potenzialità offerte dal mercato unico, e convergendo verso i livelli più elevati di competitività e reddito».
Più che la dottrina-Merkel, è la rappresentazione di uno squilibrio continentale che persiste, senza nessun vincolo per chi, come la Germania, con l’euro ha accumulato attivi di parte corrente per 2.091 miliardi di dollari tra il 2001 e il 2012, arrivando a una posizione finanziaria netta sull’estero positiva a gennaio per 1.425 miliardi di euro. Il che non ha paragoni nella storia, neppure con gli Usa all’epoca della Prima guerra mondiale: allora si trattò di appena otto anni, interrotti già dalla crisi del 1920-1921, mentre qui il fenomeno è già ultraventennale. Invece di discutere dei massimi sistemi, occorre mettere la Bce di fronte agli squilibri di cui è responsabile. Gli ultimi si desumono dalla bilancia dei pagamenti italiana: a gennaio il surplus di parte corrente cumulato nei 12 mesi precedenti è di 30,8 miliardi di euro (la componente merci è +50,3 miliardi); il conto finanziario segna addirittura +55 miliardi. Non solo gli italiani hanno venduto merci e servizi per 473 miliardi, un terzo del pil, ma hanno investito all’estero 130,9 miliardi, quasi l’8% del pil. Nei 12 mesi terminati a gennaio 2014, l’avanzo corrente era stato 17,6 miliardi e il saldo finanziario era attivo per appena 2 miliardi di euro. In pratica, nel 2013 gli italiani avevano venduto al resto del mondo beni e servizi per 464 miliardi, appena 9 in meno rispetto al 2014. Gli effetti del calo dell’euro sull’export italiano sono stati infinitesimali. Il grosso del miglioramento della bilancia commerciale italiana è legato al calo del petrolio. Nel 2014 gli effetti dei tassi di interesse, addirittura negativi, tollerati dalla Bce, sono stati perversi: che i capitali italiani siano stati tempestivamente esportati per anticipare l’apprezzamento del dollaro, o che siano andati a caccia di rendimenti più elevati, la conseguenza è stata aberrante, visto che ben 130,9 miliardi di euro del risparmio italiano sono andati all’estero. Nel 2013, invece, quando il saldo finanziario era stato di 2 miliardi di euro, gli investimenti di portafoglio all’estero erano stati appena 21 miliardi. Nel 2014, il saldo attivo di 52 miliardi della bilancia di beni e servizi dell’Italia non ha dato alcun contributo alla crescita: l’Ocse lo ha stimato pari a +0,1%, rispetto al +0,9% del 2013 e al +2,9% del 2012.
Visto che anche l’impatto dell’euro debole sull’export è stato nullo, va ridiscussa l’intera strategia economica dell’Ue, ancora pienamente condivisa da Draghi, e soprattutto l’utilità di «questo» Qe. Comprare titoli di Stato e persino sgravare le banche delle sofferenze con l’aiuto pubblico non garantiscono che la nuova liquidità si trasformerà in credito alle imprese: nel 2014 è andata all’estero. Situazione che vale per l’intera Eurozona: a gennaio il saldo corrente cumulato nei 12 mesi precedenti era positivo per 240 miliardi di euro, rispetto ai 199 del periodo precedente, con un attivo passato dal 2 al 2,4% del pil. Il saldo finanziario dell’Eurozona continua a essere positivo, anche se è sceso da 401 a 324 miliardi di euro.
L’Europa ha un attivo commerciale. Tuttavia svaluta la moneta e per di più finanzia i debiti di mezzo mondo. Si è capovolto il segno del saldo degli investimenti di portafoglio, passato da -26,1 miliardi del 2013 a +118,5 del 2014. Le attività europee sull’estero sono quasi raddoppiate, da 247 a 444 miliardi, mentre le passività sono precipitate da 273 a 66 miliardi. Ovvero, i capitali europei, non solo quelli italiani, volano via.
Prima di dare lezioni, la Bce dovrebbe fare autocritica. Ammettere di aver consentito ciecamente per anni a una crescita abnorme del credito al settore privato, da 6.267 miliardi di euro nel 2000 a 13.485 miliardi a fine 2012, il 115% in più, mentre il pil nominale cresceva del 41%, solo per dar modo al surplus commerciale tedesco di trovare allocazione confortevole. Non basta la frase di Draghi in cui afferma che «a fine 2011 e nel 2012 fronteggiavamo un contesto molto meno favorevole di quello attuale. Le banche avevano appena avviato la necessaria riduzione dei debiti dopo la crisi finanziaria». C’era stata un’exit strategy improvvisata da parte del predecessore Trichet, che aveva ridotto il credito alle banche a metà 2010, in piena crisi greca, per poi aumentare due volte di 25 centesimi il tasso di riferimento nel 2011, prima che Draghi lo riducesse a settembre, addirittura alla prima riunione da presidente, per poi lanciare due Ltro di emergenza a cavallo dei due anni, a tasso fisso e senza limiti d’importo. Altri errori: la deflazione è iniziata nel 2013, in coincidenza con la drastica riduzione degli asset in bilancio avviata dalla Bce: addirittura il 10% del pil dell’Eurozona in meno in un anno, come segnalò l’Ocse. Le Tltro, poi gli acquisti di Abs e covered bond, sono stati accompagnati dall’Asset Quality Rewiew e dagli Stress test sulle banche sistemiche: ciò che si dava con una mano si levava con l’altra. Il Qe sui titoli pubblici è tardivo e mal congegnato: segmenta l’Eurozona, affidando l’80% degli asset acquistati alla responsabilità delle singole banche centrali, senza che si sappia quali investimenti nell’economia reale saranno finanziati. Del Piano Junker ci sono solo slides. Insomma si scrive Bce ma si dice Buba.
Guido Salerno Aletta, MilanoFinanza 3/4/2015