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 2015  aprile 03 Venerdì calendario

LA TURCHIA NON C’È PIU’

Ha lasciato che quattro dei sei figli andassero a scuola. Ha chiesto alla moglie Arzu Bostac che le due più piccole fossero portate a casa di una vicina. Poi sarebbero andati insieme dall’avvocato a fare le pratiche di divorzio. Lei, sposa bambina a 14 anni, era da 13 che aspettava questo momento. Ma appena soli, Ahmed Boztas, 38 anni, l’ha chiusa in camera da letto, l’ha obbligata a sdraiarsi per terra e ha imbracciato un fucile a pallettoni. «Divorzierai da me solo da storpia», le ha detto prima di mirare alle braccia e alle gambe. «Non ho mai perso coscienza», racconta oggi dal letto dell’appartamento dei genitori a Sincan, un villaggio periferico a 40 chilometri da Ankara: «Lo supplicavo solo di lasciarmi le braccia per potermi prendere cura dei figli».
Cinque mesi e un paio di interventi chirurgici più tardi Bostac, un bel viso incorniciato da riccioli neri, non ha più le gambe e non riesce a muovere le braccia. Non ha più nemmeno i figli, affidati a un orfanotrofio. Le rimangono i messaggi del marito dal carcere dove, a processo non ancora iniziato, è già finito per un vecchio stupro di una donna disabile: «Sai bene che ti amo ancora».
Questo è il matrimonio in Turchia ai tempi di Recep Tayyip Erdogan, l’attuale presidente islamista che ha preso in mano le redini del Paese nel 2003 come primo ministro con l’intenzione di farne una nuova potenza ottomana, guida illuminata del Medio Oriente. Per riuscirci non ha soltanto moltiplicato l’attivismo del Paese a sostegno degli islamisti della regione ma ha anche iniziato a smantellare la struttura secolare costruita da Mustafa Kemal, il militare che fondò la Repubblica turca, all’inizio del secolo scorso. Per i suoi sforzi di modernizzazione si guadagnò quel celebre appellativo a cui ambisce oggi Erdogan: "Ataturk", padre della nazione. Una nazione, quella che vorrebbe oggi Erdogan, islamica, neoliberale e obbediente.

VIOLENZA
Se questo è il quadro, c’è però chi si ribella alla progressiva repressione in nome di allah e all’avanzata del nuovo sultano. Anche con metodi estremi. Martedì 31 marzo il gruppo di estrema sinistra dhkp/c (partito-fronte rivoluzionario di liberazione del popolo) ha preso in ostaggio nel palazzo di giustizia di istanbul il magistrato mehmet selim kiraz, per chiedere giustizia circa un episodio su cui sta indagando: l’uccisione di berkin elvan, 15 anni. Il ragazzo fu colpito da un lacrimogeno sparato dalla polizia nel 2013 durante le manifestazioni al parco gezi contro erdogan e l’agente responsabile non è ancora stato individuato. Dopo sette ore di trattative, le forze speciali hanno fatto irruzione uccidendo i tre sequestratori, l’ostaggio è rimasto ferito. E si teme che sia dovuto a un attentato anche il gigantesco black out che, nello stesso giorno, ha bloccato la turchia.

IN NOME DI DIO
Nonostante i dissensi il presidente va avanti col suo programma iniziato con la presa del potere. «Per capire come stia cambiando il Paese utilizzando la religione bisogna cominciare dalla questione della donna», spiega Melda Onur, deputata del partito popolare repubblicano CHP, all’opposizione. Dal 2003 al 2012 il numero di omicidi femminili è cresciuto del 1.400 per cento secondo i dati del ministero di Giustizia che ha smesso di divulgarli tre anni fa per non creare disordine sociale. Non che la parità tra uomo e donna sia mai stata realtà, ma l’attuale governo intende «relegare la donna in un ruolo di secondo piano, utilizzando in pubblico frasi che giustificano comportamenti denigratori», spiega l’avvocatessa Hulya Gulbahar: «Siamo davanti a una vera violenza politica nel nome dell’Islam». Erdogan ha più volte detto che la donna è subalterna all’uomo e che il suo destino migliore è quella di madre di almeno tre figli. Perché il maschilismo del presidente si unisce al suo sentire nazionalista: la Turchia per essere forte militarmente ed economicamente ha bisogno di un popolo giovane. «Il divorzio e l’aborto sono legali ma questo governo è moralmente contrario ai due istituti. Non solo. Fa di tutto per disincentivare anche i parti cesarei reputati "contro natura"», spiega Onur.
La scorsa estate il vice primo ministro Bulent Arinc si era persino spinto a dire che la risata di una donna è disdicevole in pubblico perché mette a repentaglio la "modestia", somma qualità femminile. E il ministero della Donna, istituito per promuovere politiche nell’interesse femminile, è stato recentemente sostituito dall’attuale ministero della Famiglia con lo scopo di proteggere l’"unità" familiare. E dunque lo strapotere degli uomini.
Risultato: il motivo principale della crescita del numero dei femminicidi è la richiesta di divorzio da parte delle donne, stanche delle vessazioni familiari. Gli uomini sanno che il vento spira a loro favore e che la legge prevede una clausola per cui se un uomo è stato in qualche modo "provocato" a violentare o a uccidere una donna avrà diritto a un generoso sconto di pena. E ne approfittano.
Il governo di Erdogan non si è limitato alle esternazioni paternalistiche che stanno lentamente ma profondamente scolpendo un nuovo sentire comune, pure all’interno del sistema giudiziario (i cui vertici sono scelti dal governo). Ha anche iniziato a riformare la scuola pubblica fondata da Ataturk. Aveva iniziato permettendo alle studentesse di frequentare l’università velate, un diritto, a dire la verità, per cui si erano battute per anni anche le donne progressiste e liberali del Paese contro questo retaggio kemalista. Ma poi è andato ben oltre. Ha diviso gli otto anni di scuola primaria in due cicli di quattro ciascuno, consigliando alle bambine del secondo ciclo (dai 10 ai 14 anni) di indossare il velo, un’abitudine un tempo rara ad un’età così giovane. E se prima delle riforme scolastiche l’insegnamento di quegli otto anni era comune a tutti e le scelte di indirizzo di studi si compivano a 14 anni, il governo di Erdogan ha introdotto la possibilità di frequentare una scuola religiosa a partire dai 10 anni. In molti villaggi della Turchia centrale le scuole religiose sono sempre più spesso l’unica scelta. E perfino a Istanbul i vecchi licei di eccellenza, dove si entrava soltanto dopo avere superato un duro esame, sono stati chiusi e rimpiazzati da un numero crescente di istituti dove l’argomento principale di studio è il Corano. In queste scuole ci sono insegnanti che spiegano come una donna non velata "si meriti lo stupro" o come sia "peccato" per le donne indossare la gonna perché rivela le gambe.
A SCUOLA COL CORANO
Dall’anno scorso ogni scuola è obbligata ad avere una stanza della preghiera per i ragazzi e una per le ragazze, naturalmente entrambe riservate agli studenti musulmani di etnia sunnita. Gli studenti arabi alawiti e i cristiani durante l’ora di preghiera si disperdono in cortile ma durante le due ore obbligatorie di insegnamento della religione gli alawiti sono costretti ad assistere alle lezioni. «La corte di Strasburgo ha bocciato l’introduzione forzata dello studio della religione islamica in versione sunnita ma Erdogan ha superato il divieto introducendo uno spazio dedicato ad altre religioni», spiega l’avvocato Birkan Isin, sorseggiando un tè proprio nel parco Gezi: «Naturalmente si può capire quanto ampio sia quello spazio...».
Sefa Ata insegna geografia al liceo Nisantagi Rustu Uzel di Istanbul. Ci riceve in un minuscolo centro culturale della megalopoli avvolto in un pesante cappotto marrone di lana grezza. «Quest’anno per la prima volta in 22 anni di insegnamento alla domanda "come si è formato il mondo?" mi sono sentito rispondere "L’ha creato Allah"», dice con rassegnazione: «Nemmeno un tentativo di risposta scientifica». Nelle scuole coraniche le ore di religione hanno ridotto quelle di arte, musica ed educazione fisica, materie che dal prossimo anno scolastico saranno eliminate. «Con questa riforma scolastica Erdogan ha ottenuto due risultati», spiega Ata, «l’imposizione della sua visione di società sulla popolazione e l’incremento del numero di posti di lavoro a favore dei sostenitori del suo partito, l’Akp».
A festeggiare i cambiamenti sono infatti gli strati più conservatori della società turca. Nel quartiere islamista di Fatih a Istanbul, il martedì è giorno di mercato: per le strade le donne indossano lunghi chador neri e si muovono in coppia o accompagnate da un uomo. Sono riluttanti a parlare e quando lo fanno è solo per pochi minuti, sotto gli sguardi severi dei passanti. «Sono una studentessa di religione», mormora Nawal, 20 anni, accanto al suo promesso sposo, il lungo velo nero a celare ogni dettaglio della personalità: «Con il nuovo governo questi studi mi garantiranno un ottimo posto di lavoro nelle scuole», ci tiene a sottolineare.

EREDITÀ OTTOMANA
Molte meno opportunità hanno invece i milioni di operai che da un decennio lavorano in quel mega cantiere edile in cui si è trasformata la Turchia nella sua corsa verso il progresso economico. Secondo le statistiche ufficiali, che registrano solo una frazione degli incidenti, 1.754 operai sono morti nei cantieri edili tra il 2008 e il 2012 mentre 940 sono rimasti menomati. Si tratta di un numero enorme, sette volte più alto della media europea, che indica come la sicurezza sul lavoro in Turchia rimanga un grande problema. Ma il governo anziché vigilare sulle società di costruzioni perché rispettino gli standard di sicurezza preferisce chiamare "martiri" i morti con l’aiuto di imam compiacenti che arrivano perfino a condannare le misure di sicurezza sul lavoro perché «pretenderebbero di equiparare l’uomo ad Allah, l’unico che ha potere di vita e di morte», racconta la politica Melda Onur.
La presenza di Allah in città sta aumentando di pari passo con il potere assoluto di Erdogan. Intorno alla capitale Ankara ha voluto costruire enormi porte in cemento per ricordare ai visitatori che si trovano in territorio islamico. All’interno vi ha eretto il palazzo presidenziale: Ak Saray. La crasi tra una reggia ottomana e una stazione ferroviaria cinese, è il più grande edificio residenziale del mondo, con mille stanze e un costo superiore ai 500 milioni di euro. Non a caso, spiega Eyup Muhcu, il presidente dell’Associazione degli architetti e ingegneri della Turchia, è stato costruito all’interno dell’ex parco forestale di Ataturk in barba a qualsiasi divieto: «Erdogan vuole distruggere ogni vestigia del periodo kemalista, romano e bizantino» sostituendole con residenze di lusso, grattacieli altissimi e giganteschi centri commerciali dove invitare i sempre più numerosi turisti arabi a fare shopping.
«È chiaro che Erdogan è contro ogni forma di cultura che non sia quella islamica», si lamenta la celebre attrice Sebnem Sonmez in un locale fumoso di Besiktas, il quartiere più secolare di Istanbul. È cominciato tutto con la distruzione del vecchio teatro Emek che aprì i battenti nel 1924, ai tempi di Ataturk, sostituito da un grande magazzino. «Era l’ultimo in città. Il governo sta cercando di omologare la cultura turca a una sorta di standard islamico-internazionale», sottolinea. E anche i lavoratori dello spettacolo non hanno più tutele. «Durante i balletti arrivano gli ispettori a misurare la lunghezza dei gonnellini o ad arrestare quegli attori che hanno interagito eccessivamente con il pubblico, come è successo a un mio collega che ha avuto la sfortuna di avere in sala la figlia di Erdogan», aggiunge Sonmez. « E poi dopo le proteste di Gezi Park trovare lavoro in società pubbliche è impossibile», chiosa Baris Atay, un attore dal maglione nero che ne accentua l’aspetto da bello e tenebroso: «Ma non ci rassegniamo».