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 2015  aprile 03 Venerdì calendario

FARE POLITICA? ROBA DA DRAGHI

Per troppo tempo in Europa è mancata una leadership politica capace di affrontare i problemi. Mario Draghi si è dato da fare per riempire quel vuoto». L’autore di un giudizio così impegnativo è uno dei banchieri centrali più rispettati che ci siano in circolazione. Si chiama Paul Volcker, ha 87 anni ed è considerato l’uomo che, alla guida della Federal Reserve americana, riuscì a portare gli Stati Uniti fuori dal trauma della crisi petrolifera degli anni Settanta, gettando le basi per il boom vissuto nell’era di Ronald Reagan. Ha affidato il suo pensiero sul banchiere italiano alla rivista "Fortune", che ha inserito Draghi al secondo posto nella classifica dei cinquanta leader più influenti del pianeta, appena pubblicata. Più in alto, almeno per il 2015, c’è solo il numero uno del colosso Apple, Tim Cook, mentre due personalità come il presidente cinese Xi Jinping e Papa Francesco sono relegate in terza e in quarta posizione.
Per uno che di mestiere fa il presidente della Banca centrale europea (Bce), essere definito un «leader politico» è un’arma a doppio taglio. In Germania, per esempio, il riconoscimento rischia di essere considerato una conferma del fatto che Draghi sta sbagliando tutto. Dai tempi della ricostruzione, i tedeschi vedono infatti l’inflazione come il diavolo che fece crollare la Repubblica di Weimar, favorendo l’affermazione del nazismo. E reputano la politica monetaria di Draghi, che ha abbassato il costo del denaro e iniziato a comprare titoli di Stato per oltre 1.100 miliardi di euro per immettere liquidità nel sistema finanziario e aiutare l’economia a ripartire (il cosiddetto "quantitative easing"), come un cedimento ai governi dei Paesi più indebitati, che possono così scansare le riforme. Per questo sui quotidiani di ogni orientamento, dalla "Frankfurter Allgemeine Zeitung" alla "Süddeutsche Zeitung", le critiche si sprecano. La "Bild" ha parlato addirittura di Tsunami-monetario, definendo la manovra della Bce «la più grande bomba monetaria di tutti i tempi», che in Germania rischierebbe di far schizzare verso l’alto i prezzi.
Ma Draghi fa davvero politica? Il sospetto che circola insidiosamente in Germania e in alcuni ambienti europei deriva dal fatto che, oggi, il presidente della banca centrale è più che mai stretto tra due fuochi. Da un lato ci sono le accuse dell’establishment tedesco, dall’altro c’è chi va in piazza a manifestare contro la Bce, com’è successo il 18 marzo a Francoforte. Dove diecimila manifestanti, nel giorno dell’inaugurazione del nuovo grattacielo dell’istituto, si sono radunati per protestare contro l’austerity, dando il via a una serie di scontri con la polizia culminati in decine di arresti. Così come risponde senza fare una piega alle critiche tedesche, argomentando senza mai ricorrere a frasi fatte, anche in questo caso Draghi non si è nascosto. Ha respinto il quadro che dipingono i movimenti, che lo giudicano un freddo tecnocrate al servizio delle banche e del capitale. E, affermando di capire perché la Bce è diventata il «punto focale di tutte le frustrazioni» generate dalla crisi, ha invitato i manifestanti a mirare più in alto. Il deficit di democrazia che i cittadini percepiscono nelle scelte dell’Europa unita dipende dal fatto che «la nostra unione va rinsaldata» sia dal punto di vista economico che politico, perché non può funzionare «un sistema in cui le decisioni sulle politiche pubbliche sono assunte senza un adeguato grado di rappresentatività e la responsabilità di dar conto del proprio operato». Per superare le difficoltà e gli egoismi nazionali che rischiano di affondare l’euro, la risposta è dunque più Europa, non meno Europa. E più politica, non meno politica, un processo che deve avvenire «potenziando i canali attraverso i quali la legittimazione democratica si esplica autenticamente», a cominciare dal Parlamento europeo.

SOCIALISTA E LIBERALE
Il fatto che per Draghi, 67 anni, la politica sia centrale non deve stupire più di tanto. Nato a Roma, figlio di un dirigente dell’Iri, orfano di entrambi i genitori fin da quando era adolescente, ha insegnato in varie università prima di diventare, nel 1991, direttore generale del Tesoro. Ha ricoperto l’incarico fino al 2001, attraverso un’epoca di trasformazioni profondissime, la svalutazione della lira, le grandi privatizzazioni, l’avvicinamento all’euro. Ha lavorato con sette ministri diversi - da Guido Carli a Giulio Tremonti, passando per Carlo Azeglio Ciampi e Vincenzo Visco - e nove differenti governi (tra la Dc di Andreotti, il centrosinistra e il centrodestra) senza che nessun osservatore potesse mai dire con certezza come la pensasse politicamente. «Si sente vicino a qualche gruppo politico?», gli ha chiesto infine il settimanale tedesco "Die Zeit", in un’intervista pubblicata il 15 gennaio, perché ai giornali italiani da quando è a Francoforte non ne ha più rilasciate. Risposta: «No. Le mie convinzioni rientrano in quelle idee che oggi verrebbero definite del socialismo liberale, quindi non proprio collocabili in raggruppamenti estremi».
Per scavare nel Draghi politico, sono due gli aspetti principali da considerare. Il primo è quello della tattica, fondamentale per muoversi in un sistema come l’Eurozona, dove gli interessi da conciliare sono molteplici e spesso divergenti fra loro. Il secondo è quello della direzione di fondo in cui lui stesso sostiene di muoversi, quella di un’Europa che non lasci andare al suo destino nessuno dei Paesi che ne fanno parte. Perché, come ha detto all’Università di Helsinki il 27 novembre scorso, «se un Paese può potenzialmente uscire dall’unione monetaria si crea un precedente ripetibile per tutti gli altri». E l’euro «è - e deve essere - irrevocabile in tutti gli Stati membri che l’hanno adottato, non solo perché è scritto nei trattati, ma perché senza irrevocabilità non può esistere una moneta realmente unica», ha spiegato, respingendo le tentazioni che spesso emergono per cacciare la Grecia o gli altri Paesi che non si mettono in regola con i conti.
Per capire meglio la strategia del consenso attuata in ogni decisione importante, è interessante raccontare come Draghi sia arrivato a trovarsi solo cinque indicazioni contrarie, su un totale di 25 governatori, quando la Bce ha lanciato il "quantitative easing". Supermario, come lo chiamano i fan, partiva da una situazione in cui la banca centrale tedesca - la Bundesbank - e il governo di Angela Merkel erano totalmente contrari a qualsiasi acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario. La squadra di oppositori era peraltro anche più ampia e comprendeva gran parte dei Paesi del Nord Europa.

PICCONATE ALLA BUNDESBANK
Per aprire una crepa nel "muro" di Berlino, il presidente ha scelto di andare per picconate graduali, cominciando nell’aprile 2014 quando ha cercato un accordo sulla «funzione di reazione» della Bce, vale a dire ha chiarito cosa la banca avrebbe dovuto fare in determinate circostanze. Così, una volta queste si fossero verificate, per chi nutriva riserve sarebbe diventato difficile opporsi. Tra settembre e novembre ha poi trovato un accordo sull’espansione del bilancio Bce, con l’intenzione di riportarlo ai livelli del 2012, quando aveva superato per la prima volta la soglia dei mille miliardi. Infine ha affrontato la questione di come suddividere i rischi, che si è risolta soltanto a gennaio, a ridosso del meeting cruciale del giorno 22, e della legittimità dell’acquisto di titoli come strumento di politica monetaria.
A quel punto, l’ultima picconata era sul "quando". E, appunto il 22 gennaio, la grande maggioranza ha detto «ora». Non si è arrivati a un voto, ma assolutamente contrari, da tradizione, sono stati i due tedeschi della Bundesbank, Jens Weidmann e Sabine Lautenschlaeger, spalleggiati dall’austriaco Ewald Nowotny («avrei aspettato un po’» ha detto alla tv, rivelando comunque una disponibilità), dall’olandese Klaas Knot, contrario ma con atteggiamento costruttivo, e dall’estone Ardo Hansson. Anche quel vertice Draghi l’aveva preparato con cura. Il 14 gennaio aveva visto in forma privata la cancelliera Merkel, come sua abitudine alla vigilia di decisioni significative, anche per non provocare sorprese negative. Le ha strappato in sostanza un "no comment" (a tutela dell’autonomia della Bce, hanno spiegato a Berlino) in cambio di una concessione sui rischi: garantisce che l’80 per cento degli acquisti di titoli vada in carico alle banche centrali nazionali, e solo il 20 alla Bce. Una rassicurazione alla Germania che non è piaciuta a molti osservatori, che vi vedono il rischio di un’Eurozona in cui comunque ognuno deve cavarsela da solo. Ma anche un falso problema, nell’idea di Draghi, perché se fallisse un Paese i costi sarebbero comunque distribuiti tra tutti.
Fatto sta che, alla fine, la maxi-operazione è passata a larghissima maggioranza e che, secondo una ricostruzione della Reuters, almeno due governatori importanti hanno cambiato idea tra novembre e gennaio. Tra questi il lussemburghese Yves Mersch, molto autorevole e considerato un falco filotedesco. Per inciso, Weidmann resta fieramente contrario, e non esita a ripeterlo, pur ribadendo il reciproco rispetto che lui e Draghi provano fra loro. Per il numero uno della Bundesbank, il "quantitative easing" - facendo calare il costo degli interessi pagati sui titoli di Stato nei Paesi più deboli - porta al rischio che «la disciplina dei conti pubblici venga trascurata». E rafforza le «pressioni politiche a tenere i tassi d’interesse permanentemente bassi», quando un ritorno dell’inflazione dovrebbe spingere ad alzarli.
La capacità tattica di raggiungere gli obiettivi che si prefigge è però solo il primo aspetto politico di Draghi. Che, nei suoi interventi, cerca sempre di inquadrare il suo operato in un orizzonte più ampio, quello di un’Europa che non può fermarsi se non vuol fallire. E che resta necessaria per tutti, perché con la globalizzazione tutti avrebbero da perderci.

IL TRADIMENTO DI CAFFÈ
Per molti critici questo aspetto è difficile da conciliare con il sostegno sempre fornito al rigore sui conti pubblici che Bruxelles e la Germania chiedono ai Paesi più deboli, a cominciare dalla Grecia. O, su un altro fronte, con la convinzione che sia stato Draghi, l’estate passata, a imporre al premier Matteo Renzi la flessibilità del lavoro arrivata con il Jobs Act. Sul Web e nei convegni fioriscono le accuse di tradimento nei confronti di Federico Caffè, il celebre economista che Draghi ama ricordare come uno dei suoi maestri più importanti, nonché relatore della sua tesi di laurea (nel 1970, con uno studio sul fatto che a quei tempi mancavano le condizioni per dar vita alla moneta unica). Antonio Lettieri, un sindacalista della Fiom che a Caffè ha dedicato diversi studi, di recente ha ricordato una provocazione dell’economista scomparso nel 1987: con gli operai non si può fare come con le patate, se c’è un’eccedenza (ovvero disoccupazione) non basta diminuirne il prezzo per collocarli tutti. «Invece oggi la flessibilità del lavoro è la nuova ortodossia», ha scritto Lettieri, anche a Francoforte, «dove pure un orgoglioso discepolo di Caffè siede al vertice della Bce».
Su entrambi i fronti, rigore e flessibilità, la difesa di Draghi è affidata a un’idea possibile di Europa. Il senso è questo. Negli Stati Uniti, in Germania, in Italia, ci sono zone povere che ricevono un flusso continuo di finanziamenti da quelle ricche. Nell’Eurozona questi trasferimenti non sono possibili e, dunque, serve «un approccio diverso per assicurare che ogni Paese stia meglio all’interno dell’Unione che al di fuori di essa», ha ripetuto a Helsinki, altrimenti l’euro si spezzerà. Per arrivarci i requisiti sono due: il primo è che ognuno sia in grado di «trovare e sfruttare i propri vantaggi comparati, in modo da beneficiare del mercato unico», attraendo investimenti e generando occupazione. Il secondo che sia in grado «di reagire con rapidità agli shock a breve termine, anche attraverso l’aggiustamento salariale», perché con la moneta unica non esiste più la possibilità di svalutare la lira. Solo in questo modo sarà possibile un’unione diversa, dove le differenze socio-economiche tra i vari Paesi non si faranno più profonde a ogni crisi, con maggiori meccanismi di solidarietà e con quel grado di flessibilità sui conti pubblici necessario per superare i momenti di difficoltà. E solo così si potrà investire seriamente sull’istruzione, un pallino su cui torna appena possibile.
Draghi fa davvero politica? Di certo ci tiene alla distinzione dei ruoli, tra tecnici e politici, e non è un caso se non ha valutato nemmeno per un attimo l’ipotesi di lasciare Francoforte per andare al Quirinale quando Giorgio Napolitano si è dimesso. Di fatto, però, il suo è un programma non da poco. Da leader politico, direbbe Paul Volcker.