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 2015  aprile 03 Venerdì calendario

MA CHE RAZZA DI PARTITO

Vecchia pietra/per costruzioni nuove/vecchio legname/per nuovi fuochi...». Il senatore del Pd Mario Tronti quasi sussurra i versi di Thomas Stearns Eliot per festeggiare i cento anni di Pietro Ingrao, l’ultimo comunista, il sopravvissuto del secolo delle ideologie. Nell’auletta dei gruppi parlamentari applaudono le prime file, il capo dello Stato in carica (Sergio Mattarella) e il presidente emerito (Giorgio Napolitano), Pier Luigi Bersani e Achille Occhetto, Anna Finocchiaro e Luciano Violante, Emanuele Macaluso e Aldo Tortorella, antichi più che anziani. Vecchie pietre, vecchio legname. Le nuove costruzioni, il Pd di Matteo Renzi, non si vedono in sala. Non c’è un ministro a testimoniare la presenza del nuovo corso, neppure un vice-segretario.
«Il governo? E chi è?». Massimo D’Alema, seduto a due posti di distanza dall’ex rivale Occhetto, sfodera l’acidità dei momenti peggiori. Il giorno prima il suo nome è rimbalzato nell’inchiesta giudiziaria che ha portato all’arresto del sindaco Pd di Ischia Giosi Ferrandino, candidato alle europee. Notizie non rilevanti ai fini penali sull’acquisto di bottiglie di vino di produzione dalemiana e di cinquecento copie del suo libro, più finanziamenti di 60mila euro (registrati) della cooperativa Cpl Concordia alla fondazione Italianieuropei, corredate da intercettazioni («D’Alema è uno che mette le mani nella m...»), ma che bastano a far infuriare l’ex premier. Galeotto fu il libro: "Non solo euro", il testo in questione, fu presentato a Roma da Renzi il 18 marzo 2014, quel giorno Matteo assicurò che per la futura Commissione europea il governo avrebbe scelto «le persone più forti che abbiamo». D’Alema si era riconosciuto nell’identikit, invece Renzi designò Federica Mogherini.
È anche da quella promessa che parte la guerra che oggi dilania il Pd. Il fantasma di una mini-scissione che agita il partito del 41 per cento alle elezioni europee, con la minoranza interna che minaccia di non votare la legge elettorale Italicum quando a fine mese approderà alla Camera. Un atto che segnerebbe una rottura irreparabile. «Operazione 27 aprile», la chiama Pippo Civati. Ma la vera guerra contro il passato che preoccupa Renzi non è quella contro i leader della minoranza (Pier Luigi Bersani, Gianni Cuperlo, Stefano Fassina, Rosy Bindi, Pippo Civati), divisi tra loro. È la difficoltà a far cambiare verso al Pd, dopo quasi un anno e mezzo di segreteria.
Divisioni. Iscritti in fuga. Infiltrazioni di ogni tipo, comprese quelle della criminalità mafiosa. «Un partito non solo cattivo ma pericoloso e dannoso», ha scritto l’ex ministro Fabrizio Barca nel suo rapporto sul Pd romano, in cui «traspaiono deformazioni clientelari e una presenza massiccia di "carne da cannone da tesseramento"» e che «subisce inane le scorribande dei capibastone». A Roma il centrosinistra governa dal 1993, salvo la parentesi di Gianni Alemanno dal 2008 al 2013, l’inchiesta Mafia Capitale sta sfiorando le amministrazioni del Pd e i suoi uomini-chiave. L’ultimo indagato, il cinquantenne Maurizio Venafro, era il capo di gabinetto di Nicola Zingaretti alla presidenza della regione Lazio. Nato e cresciuto nella Fgci di Goffredo Bettini e nelle sezioni di borgata del Pci, nessuno ha mai messo in discussione la sua correttezza ma è il modello Roma fatto persona, per più di venti anni nelle stanze del potere romano: capo staff di Francesco Rutelli in Campidoglio, affiancandolo nella candidatura a premier nel 2001, capo del dipartimento comunicazione con Enrico Gasbarra alla Provincia di Roma, capo delle relazioni esterne della giunta Marrazzo e infine braccio destro di Zingaretti. Negli stessi giorni è stato sciolto il municipio di Ostia, governato dal Pd, per collusioni con la mafia. Roma è l’unica situazione locale in cui Renzi si è mosso con rapidità, nominando commissario il presidente del partito Matteo Orfini. Che non è un estraneo alle beghe correntizie, è stato in cordata per anni con il deputato Umberto Marroni (uno dei commensali, tra l’altro, nella cena in cui il futuro ministro Giuliano Poletti sedeva a tavola con Gianni Alemanno e con il socio del boss Massimo Carminati Salvatore Buzzi). Nel partito li chiamavano i Dalemerrimi o i Dalebani, per sottolineare la fedeltà al loro capo di allora, D’Alema. In minoranza a Roma, dove dominavano Bettini, Zingaretti, i veltroniani. Oggi Orfini sta con Renzi, ha impugnato la bandiera del rinnovamento: azzeramento delle commissioni in Campidoglio, inchiesta sui circoli, invito ai consiglieri comunali ad andare in Procura a denunciare le situazioni sospette.
In altre situazioni, invece, il Pd nazionale stenta a intervenire. In Calabria non è stata ancora completata la formazione della giunta di Mario Oliverio, eletta il 23 novembre, quattro mesi fa. E non si può neppure dare la colpa all’inesperienza, dato che il nuovo presidente è entrato per la prima volta nel consiglio regionale calabrese nel 1985, quando Renzi aveva dieci anni. In Campania c’è il volo del calabrone Vincenzo De Luca su cui pesa una condanna in primo grado per abuso di ufficio e che per la legge Severino potrebbe essere costretto a sospendersi dalla sua funzione in caso di elezione. Ma ha vinto le primarie e si presenta come l’uomo di Renzi in regione. Intanto a Eboli un funzionario del Comune e un imprenditore sono stati arrestati con l’accusa di sfruttare donne immigrate: certificati falsi di residenza in cambio di voti alle primarie comunali per il Pd. In Sicilia c’è lo scambio delle identità. Nella pirandelliana Agrigento il candidato vincente alle primarie del Pd Silvio Alessi in realtà è di Forza Italia, sponsorizzato dal presidente del Pd isolano Marco Zambuto (ex cuffariano, ex alfaniano, oggi faraoniano, nel senso di Davide Faraone, il sottosegretario all’Istruzione capo dei renziani in Sicilia) che è andato in visita ad Arcore da Silvio Berlusconi. Nelle Marche, dopo dieci anni di governo, il presidente uscente del Pd Gian Mario Spacca si è buttato dalla parte opposta e guiderà una lista civica di centrodestra aperta a Forza Italia.
In tutte queste situazioni c’è un solo protagonista, il Pd di sempre, con i vecchi uomini e i vecchi metodi, e un grande assente, il nuovo corso di Renzi. Il leader egemone a Roma, che strapazza e umilia gli avversari, nei territori finisce in minoranza o è costretto ad affidarsi ai professionisti del trasformismo. E dietro il leader c’è il deserto. I renziani, per ora, non esprimono una classe dirigente, un’organizzazione, una cultura politica. Faticano a darsi un nome. Una settimana fa i renziani della Lombardia si sono riuniti per la prima volta tutti insieme con il segretario regionale Alessandro Alfieri e con il numero due del Pd nazionale Lorenzo Guerini. E hanno deciso di chiamarsi "maggioranza del Pd", così, senza altri aggettivi. Qualunque altra definizione, tipo quella dei catto-renziani vagheggiata dagli amici di Graziano Delrio, avrebbe fatto infuriare il premier.
Di riforma del Pd si stanno occupando due ex avversari del leader, Orfini e il bolognese Andrea De Maria, incaricato di preparare un evento a Cortona. Sul tesseramento è stato chiamato a lavorare il deputato di Arezzo Marco Donati, renziano della prima ora. Compito delicato. Nel 2014 a Bologna, la città rossa per eccellenza, nell’anno del boom elettorale renziano, si sono persi per strada un quarto degli iscritti. I circoli chiudono: erano tre a Sasso Marconi, ne è rimasto uno e il nuovo segretario cittadino è stato votato da cinquanta irriducibili (su 400 iscritti). Altrove è il contrario, c’è il tesseramento gonfiato di anime morte. L’ex deputato di Sel Gennaro Migliore, ora renziano, spedito da Orfini a monitorare il municipio romano di Tor Bella Monaca, non si separa mai da una cartellina rossa che contiene i primi risultati dell’indagine: almeno un quarto delle tessere è di provenienza incerta, sospetta.
«Ho votato per Renzi alle primarie e lui è un politico di razza», osserva un padre nobile del Pd come Antonio Bassolino, «ma vedo una contraddizione profonda tra il Pd di Roma e il territorio e tra Renzi e il renzismo. C’è una grande distanza tra il segretario-premier e la sua classe dirigente, una questione che continua a restare irrisolta e che è sempre più urgente. È una difficoltà quasi tecnica: con l’attività di governo che assorbe ogni energia dove può trovare Renzi il tempo di affrontare le tante questioni locali?».
Le elezioni regionali sono ormai vicine. Un nuovo test per il Pd renziano dopo le trionfali europee del 2014 e le regioni conquistate negli ultimi mesi (l’Emilia confermata nonostante inchieste e astensioni e Sardegna, Piemonte, Abruzzo e Calabria strappate al centro-destra). Se sulla legge elettorale dovesse arrivare lo strappo della minoranza le conseguenze sul voto sarebbero imprevedibili. Ma ancora più imprevedibile è che il premier decisionista sul rinnovamento del partito si riveli immobile. Abbandonando il Pd al vecchio legname. Senza costruzioni nuove.