varie 3/4/2015, 3 aprile 2015
ARTICOLI SU GRAZIANO DELRIO DAI GIORNALI DI VENERDI’ 3 APRILE 2015
ANTONELLA BACCARO, CORRIERE DELLA SERA -
A agosto dell’anno scorso le solite voci maligne lo davano fuori da Palazzo Chigi per incomprensioni con il premier. Da ieri l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, è effettivamente fuori da quel palazzo. Ma per prendere la guida di uno dei dicasteri-chiave del governo: quello delle Infrastrutture e dei Trasporti, liberatosi per le dimissioni di Maurizio Lupi. Una promozione senz’altro, ma anche un compito arduo, quello che il quasi 55 enne ex sindaco di Reggio Emilia, padre di nove figli, giocatore del Milan mancato (era stato selezionato ma rinunciò) dovrà portare a termine: di certo il più importante della sua vita. Col predecessore ha in comune l’origine popolare, l’attaccamento al territorio, una fede cattolica praticata e la passione per lo sport. Per il resto non potrebbero esserci persone più diverse: estroverso e portato alla battuta Lupi, silenzioso e quasi ieratico nella prosa Delrio. Un globe-trotter che negli ultimi mesi ha macinato chilometri su è giù per l’Italia, ma soprattutto giù, visto che l’ultima missione che si era dato era quella di intervenire sul divario di sviluppo del Meridione. «Il Sud quest’anno potrebbe crescere più del Nord, a condizione che sappia spendere i residui fondi del periodo 2007-2013» ha ripetuto.
Un tema che ora potrà declinare in modo diverso, concentrandosi sul gap infrastrutturale del Sud. La partenza è in salita: martedì prossimo dovrà già presentare in Consiglio dei ministri il nuovo allegato al Def (documento di economia e finanza) predisposto da Lupi per ridurre la lista delle opere prioritarie a solo 49 progetti. Poi in Senato lo attende il disegno di legge delega per la riforma del Codice degli appalti, cruciale in un momento in cui la corruzione pare inarrestabile. In lista poi c’è la riforma della legge Obiettivo. E della struttura tecnica di missione che sovrintende a essa, per anni diretta da Ercole Incalza, finito agli arresti. Se sarà o meno spostata a Palazzo Chigi è dirimente per comprendere la portata del mandato assunto ieri da Graziano Delrio.
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PAOLO EMILIO RUSSO, LIBERO -
Era il volto moderato del renzismo rampante, il (mansueto) cane da guardia chiamato a salvare almeno le apparenze. Graziano Delrio ha giurato ieri sera da ministro per le Infrastrutture, ha già cominciato il trasloco da Palazzo Chigi verso il dicastero di Porta Pia. La struttura che prenderà in mano a partire da quest’oggi non è certo di poco conto, certo. Lo aspettano le grandi opere, i trasporti, i fondi europei per il Mezzogiorno e una montagna di danaro, ma la distanza fisica dal presidente del Consiglio segna l’abbandono di quel ruolo di moderazione che gli era stato costruito intorno.
Nessuno - nemmeno tra i “falchi” del centrodestra - se la sente di dire male del sottosegretario alla Presidenza del consiglio uscente. Ex sindaco di Reggio Emilia, appassionato di montagna tanto da passarci tutte le vacanze estive insieme alla famiglia, di calcio e di bicicletta come Romano Prodi ed è l’ideatore dello stile “sobrio” che il premier aveva provato ad imporre ai suoi ministri appena dopo il giuramento. «Siamo venuti senza l’abito della festa», lo slogan del suo stile, scritto nero su bianco nel libro che ha appena scritto, “Cambiando l’Italia”.
“Cido”, come lo chiamavano da piccolo, ha certamente una storia particolare. Laureato in Medicina, specializzato in endocrinologia a Gerusalemme e in Gran Bretagna, si è sposato a soli 22 anni e, prima ancora, era stato calciatore nella Reggiana e del Montecavolo. Il suo sogno era quello di giocare nella squadra che poi sarebbe diventata il simbolo del berlusconismo, il Milan. Consigliere regionale col Partito popolare di Mino Martinazzoli, quindi consigliere comunale e segretario della Margherita reggiana, a quarantaquattro anni diviene sindaco della sua città. Dossettiano doc, ha una famiglia-tribù composta di nove figli e un cane labrador di nome Lapo, ha conosciuto Renzi quando era alla guida dell’Anci e l’altro “semplicemente” sindaco di Firenze. I due ebbero un rapporto affettuoso e spiritoso, tanto che lo stesso Delrio raccontò di avere salvato il numero del leader Pd sul suo telefonino alla voce “Mosè”, poi le cose si sono un po’ complicate.
Renzi voleva Delrio al ministero dell’Economia («perchè ci deve andare un padre di famiglia») ma si scontrò con le resistenze del Capo dello Stato, poi lo ha candidato al Quirinale ma soltanto per spaventare il Cavaliere, col tempo lo ha un po’ ridimensionato. E pensare che era Delrio l’unico renziano dentro al governo di Enrico Letta, lo averva piazzato agli Affari regionali proprio su richiesta del “rottamatore”. Pochissime le sue gaffe nei due anni e mezzo in prima fila e, tra queste, quel microfono lasciato aperto mentre, in conferenza stampa per parlare di sanità, mentre sussurrava a Sergio Chiamparino «continua tu a me non me ne frega un cazzo». Durante una trasmissione tv nel febbraio scorso, il sottosegretario si lasciò scappare che il governo stava considerando di tassare i bot, subito smentito dal “titolare”: «Non è prevista alcune nuova tassa». Ultimamente, forse insofferente per il troppo peso di Luca Lotti, Maria Elena Boschi e il “giglio magico”, Delrio promuove con Matteo Richetti, Lorenzo Guerini e Angelo Rughetti un embrione di corrente, i “cattorenziani”. Forse è questa la decisione che gli è costata il posto a Palazzo Chigi.
Delrio ha resistito anche agli schizzi di fango che, nel 2012, arrivarono dalla sua città e che riguardavano un suo comizio nella cittadina di Cutro, in provincia di Crotone, tenuto poco prima della riconferma a sindaco, nella primavera 2009. Sentito dai pm antimafia di Bologna che indagavano sulle infiltrazioni della ’ndrangheta in Emilia, spiegò che si era trattato di una «semplice visita istituzionale» e non di una caccia al voto dei tantissimi calabresi immigrati da decenni nella sua città, uscendone pulitissimo.
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STEFANO FELTRI, IL FATTO QUOTIDIANO -
Adesso gli rinfacciano tutto: il Movimento Cinque Stelle, con la deputata reggiana Maria Edera Spadoni, gli ricorda che da sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio è andato alle processioni religiose di Cutro, il paesino calabro da cui è arrivata la ‘ndrangheta che infesta la città emiliana. Uno che non ha capito le infiltrazioni criminali in Emilia nell’edilizia “è politicamente inadeguato” a fare il ministro delle Infrastrutture, attacca la Spadoni. Eppure per una breve stagione, questo medico di 55 anni è stato il simbolo della concretezza emiliana, di quella sinistra non comunista che poteva dare una base culturale alla rottamazione renziana. Il premier Matteo Renzi se lo portò in Banca d’Italia, nei giorni in cui formava il governo: Mario Draghi dalla Bce e via Nazionale preferiscono ministri politici, Delrio era il candidato. Ma Renzi lo voleva più vicino. All’attivo, come ministro degli Affari regionali di Enrico Letta, ha una riforma delle Province prima molto celebrata e poi sparita dalla lista dei successi da attribuire al renzismo perché crea 20 mila esuberi da ricollocare.
Avendo cresciuto nove figli, credeva di poterne allevare un decimo: Matteo da Pontassieve. Ha salvato il nome dell’allora sindaco di Firenze sul cellulare come “Mosè” (Delrio sul cellulare di Renzi è “Ietro”, suocero del profeta). La marcia verso la terra promessa è cominciata dalla presidenza dell’associazione dei Comuni, l’Anci, nel 2011, sconfiggendo il barese Michele Emiliano. Lì inizia la conversione: dal romagnolo Dario Franceschini al toscano Renzi. A differenza che nella Bibbia, Mosè conquista la terra promessa. È Ietro, invece, che si limita a intravederla: da Reggio Emilia Delrio si porta il suo city manager, Mauro Bonaretti, è convinto che sia sufficiente (assieme alla carica da sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e alla stanza più grande) per avere il controllo della macchina amministrativa di Palazzo Chigi. Ma i toscani avanzano, da Luca Lotti (all’Editoria), al capo del dipartimento legislativo Antonella Manzione, da Raffaele Tiscar a Maria Elena Boschi. Sono loro i più prossimi a Renzi e, in una corte, questo è tutto. Cercano di rimandare Delrio in Emilia Romagna, quando i candidati finiscono indagati, poi provano a spingerlo al Quirinale. Arriva l’inchiesta su Maurizio Lupi e si libera il ministero dei Trasporti. Promosso e rimosso, ma lontano dall’imperatore, almeno nel suo feudo dei Trasporti e delle Infrastrutture, almeno avrà un po’ di autonomia per dimostrare se davvero i sindaci sanno fare anche i ministri.
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TOMMASO CIRIACO, LA REPUBBLICA -
Allenta la cravatta, piega la giacca e si accomoda sulla poltrona del barbiere di Montecitorio. È il rito con il quale Graziano Delrio inganna l’attesa. Mancano venti minuti al consiglio dei ministri convocato per nominarlo ministro delle Infrastrutture. «Avevo programmato di tagliare i capelli da tempo. No, davvero: il giuramento non c’entra». Le braccia sono bloccate dal telo. Volge lo sguardo verso l’alto per indicare la chioma brizzolata: «Sono lunghi e mi danno fastidio, allora approfitto di questo momento di eccessiva calma...». L’ultimo della giornata, perché a sera giurerà al Colle. «Ho trascorso con Renzi l’intera mattinata. E anche questa decisione, come le altre, l’abbiamo presa assieme. Lui e io siamo come fratelli».
Tutto è iniziato all’alba, quando ha attraversato il cortile di Palazzo Chigi per raggiungere i suoi uffici. A metà mattinata ha iniziato a riempire gli scatoloni. Un rapido, ma minuziosissimo trasloco. Quando arriva alla Camera incontra il deserto.
Tutti in vacanza per un lunghissimo ponte. «Vado a fare qualcosa di più rilassante, dice? Non sono così sicuro, a dire il vero. Certo, il sottosegretario era un ruolo molto impegnativo». Un autentico massacro, nei racconti dei predecessori. Mille grane, mille mediazioni. «Ma anche il ministro delle Infrastrutture ha una mole di cose da fare - prevede Delrio - E poi la delicatezza del passaggio, del momento...». Il punto è proprio questo, perché la nomina arriva dopo la bufera che ha costretto Maurizio Lupi alle dimissioni.
«Bisogna soprattutto far partire i cantieri. Andiamo oltre la crisi anche se riusciamo in questo obiettivo».
Il programma è ambizioso. Non a caso la vigilia della nomina è spesa al telefono, per una serie di colloqui informali. Vuole costruire una squadra, e intende farlo in fretta.
Delrio è considerato un fedelissimo del premier.
Eppure più di qualcuno racconta un film diverso. Fatto di divergenze con Renzi e qualche tensione di troppo. Forse è per questa ragione che Delrio finisce da mesi, puntualmente, in ogni totonomine possibile.
Non succederà più, sorride, mentre la forbice del barbiere continua a tagliare. «Freddezza con Renzi? Ma di cosa parlano, è tutta pura invenzione. Invenzione di sana pianta. Io e Matteo siamo davvero come fratelli. Non c’è nessun tipo di problema, abbiamo cominciato assieme». In effetti, Delrio è forse il primo dei renziani. «Appunto! Abbiamo iniziato e continuato assieme. Anzi, anche in questo caso abbiamo deciso assieme, come tutte le altre volte». Con un metodo infallibile, giura: «Valutando le cose che sono più utili e chi le può fare meglio».
Hanno valutato questo nuovo inizio alle Infrastrutture. Delrio si tufferà nella sfida, accettando di restare ancora lontano dalla sua Reggio Emilia. E dalla numerosissima famiglia, ben nove figli. Cambia comunque poco, visto che i ritmi da sottosegretario erano già altissimi: «Da questo punto di vista non ci sono grosse differenze, il sacrificio per la famiglia è che io stia a Roma». Il barbiere ha finito, tutto è in ordine per il giuramento. Sta per indossare la giacca, quando si affaccia il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni per un saluto. Due renziani al governo, in due ministeri di peso. Non si conosce invece il nome del successore di Delrio: «Ne abbiamo parlato, ma non so se il Presidente ha assunto le determinazioni definitive. Comunque il sottosegretario alla Presidenza non deve giurare al Quirinale, ma a Chigi. Quindi non deve farlo stasera». Va via da Montecitorio così come era arrivato. Da solo, a passo veloce. Euforia e qualche pensiero in più, visto che va ad occupare una poltrona scomoda. La accoglie con un sorriso: «Il mio stato d’animo? Soddisfatto. E un po’ preoccupato».