Notizie tratte da: Ivan Bunin # A proposito di Čechov # Adelphi Milano 2015 # pp. 223, 14 euro., 2 aprile 2015
Notizie tratte da: Ivan Bunin, A proposito di Čechov, Adelphi Milano 2015, pp. 223, 14 euro.Vedi Libro in gocce in scheda: 2311912Vedi Biblioteca in scheda: 2311283«Che cosa scriverete sul mio conto nelle vostre memorie? Vi prego, evitate di scrivere che ero “un simpatico talentuoso e un uomo di specchiata onestà”» (Anton Pavlovič Čechov all’amico Ivan Bunin)
Notizie tratte da: Ivan Bunin, A proposito di Čechov, Adelphi Milano 2015, pp. 223, 14 euro.
Vedi Libro in gocce in scheda: 2311912
Vedi Biblioteca in scheda: 2311283
«Che cosa scriverete sul mio conto nelle vostre memorie? Vi prego, evitate di scrivere che ero “un simpatico talentuoso e un uomo di specchiata onestà”» (Anton Pavlovič Čechov all’amico Ivan Bunin).
Ivan Bunin, poeta e narratore, in seguito alla Rivoluzione del ’17 lasciò la Russia e si stabilì a Parigi. Nel 1933 ricevette il premio Nobel per la letteratura.
«Nato il giorno 17 del mese di Iannuario dell’anno 1860, battezzato il 27 del mese medesimo con il nome di Antonij; figlio di Pavel Georgievič Čechov, mercante di terza gilda di Taganrog, e della di lui legittima consorte Evgenija Jakovlevna. Padrini: Spiridon Titov, fratello mercante di Taganrog, e la sposa di Dmitrij Saf’janopolu, mercante di terza gilda di Tanganrog» (dal certificato di nascita di A. P. Čechov).
Čechov era tisico. Aveva un viso giallastro e rugoso che, appena quarantenne, lo rendeva simile a un anziano mongolo.
L’infanzia? La povertà gretta della famiglia; la madre taciturna, labbra sottili e sempre serrate; il padre «iracondo e severo» che costringeva i figli più grandi a cantare di notte nel coro della chiesa, li tormentava con le prove fino a tarda sera, autentico tiranno, e pretendeva che sin da piccoli, a turno, stessero a bottega, «occhio del padrone».
«Bisogna mettersi a scrivere solo quando ci si sente freddi come il ghiaccio» (Čechov).
«Lo riconosco, sono troppo nervoso con quelli di casa. Sono troppo nervoso in genere. E brusco, e ingiusto, spesso…» (da una lettera del 20 febbraio 1883 al fratello maggiore Aleksandr).
«Secondo me, terminato un racconto bisognerebbe gettare via l’inizio e la fine. È lì che noialtri uomini di lettere concentriamo le bugie maggiori».
«Quando lavoro, non faccio che bere caffè e brodo fino a sera. Caffè la mattina e brodo a pranzo. Altrimenti non riesco a lavorare».
Čechov mangiava poco, dormiva poco, adorava l’ordine.
Aveva belle mani, grandi e asciutte.
A pranzo e a cena Čechov mangiava poco, si alzava continuamente da tavola e faceva avanti e indietro per la sala da pranzo fermandosi accanto all’ospite di turno per riempirgli a forza il piatto. Poi toccava alla madre: le toglieva di mano coltello e forchetta e iniziava a tagliarle la carne in pezzi minuti, sempre con il sorriso sulle labbra, sempre in silenzio.
«Non lo vidi mai in vestaglia. Era sempre molto accurato nel vestire, sempre impeccabile. Nutriva un amore ossessivo per l’ordine» (Bunin).
«Descrivere il mare è difficilissimo. Sapete che cosa ho letto di recente sul quaderno di uno scolaro? “Il mare era grande”. Punto. È straordinario, a parer mio».
Si ha notizia di una sola serata in cui Čechov fu visibilmente scosso da un fiasco: la prima del Gabbiano, a Pietroburgo.
«E soprattutto non date mai ascolto ai consigli altrui. Hai sbagliato? Hai mentito? L’errore è soltanto tuo».
«È difficile scrivere dopo Maupassant, che dall’arte pretendeva moltissimo, ma dobbiamo farlo, specialmente noi russi, e dobbiamo anche osare».
«Ci sono cani piccoli e cani grandi, ma i piccoli non devono farsi intimorire dai grandi: tutti devono poter abbaiare, ognuno con la voce che il Signore gli ha dato».
« Sono considerati poeti, mio caro signore, soltanto coloro che usano parole come “orizzonte d’argento”, “accordo celeste” o “alle tenebre darem battaglia” ».
« Sapete, di recente sono stato a Gaspra, da Tolstoj. Era ancora a letto, ma ha parlato a lungo di tante cose. Anche di me, tra l’altro. Alla fine, quando ho fatto per alzarmi e prendere congedo, mi ha afferrato per un braccio e ha detto: “Baciatemi”. L’ho fatto, e quel vecchio energico è stato lesto a sussurrarmi all’orecchio: “Non lo sopporto proprio, il vostro teatro. Shakespeare scriveva porcherie, ma voi siete addirittura peggio!”» (Čechov nel marzo 1902).
« I decadenti non esistono e non sono mai esistiti. In Francia la
novità è Maupassant e da noi ci sono io, che ho cominciato a scrivere racconti brevi. È questa, la novità... I vostri decadenti sono dei furfanti, altro che! E offrono merce avariata... Misticismi e diavoli vari! Tutte panzane! Non lasciatevi ingannare. Altro che “pallide membra”, le hanno pelose come tutti quanti!...» (alludendo alla poesia in un solo verso di Brjusov, Copri le pallide membra…).
« Siamo un popolo molto pigro. E la nostra pigrizia ha contagiato persino la natura. Guardate quel fiume: non ha nessuna voglia di scorrere! Si piega in mille anse, da quanto è pigro. La nostra famigerata “psicologia”, il nostro “dostoevskismo” sono figli della pigrizia. Non abbiamo voglia di lavorare, e inventiamo panzane».
«Mi accusano spesso, lo faceva anche Tolstoj, di scrivere di quisquilie, di non avere eroi positivi: rivoluzionari, Alessandri Magni o quanto meno un onesto capo della polizia, come Leskov... Ma dove volete che vada a prenderli? Noi siamo uomini di provincia, abbiamo città senza selciati, campagne povere, gente stremata... Da giovani cinguettiamo felici e contenti, ma verso i quarant’anni siamo già vecchi e pensiamo alla morte... Begli eroi!».
Adorava, i ristoranti. Invitava continuamente gli amici a pranzo o a cena. E offriva lui.
Sostenne diverse volte, categorico e convinto, che l’immortalità, la vita oltre la morte in qualunque sua forma era un’emerita sciocchezza. «È pura superstizione. E la superstizione è da temersi in ogni sua ipostasi. Il pensiero dev’essere lucido e ardito. Prima o poi dovremo parlarne seriamente, sapete? E, quant’è vero che due più due fa quattro, vi dimostrerò che l’immortalità è una sciocchezza». In altre occasioni, tuttavia, avrebbe sostenuto l’esatto contrario con fermezza ancora maggiore: «Una volta morti non scompariamo, non è possibile. L’immortalità è un fatto. Concedetemi un istante e ve lo dimostrerò...».
«L’ipocrisia dei letterati è la peggiore».
« Voi precisate troppo... » rimproverò a Gor’kij. «Se scrivo: “L’uomo si sedette sull’erba...” è tutto chiaro. Altro è, invece, se scrivo: “Un uomo alto e robusto di statura media e con la barba fulva si sedette sull’erba verde che nessun piede aveva mai calpestato, si sedette in silenzio, guardandosi attorno con timore e circospezione...”».
Anno dopo anno, Čechov cambiava viso.
Stando ai ritratti, il nonno, la nonna, il padre e lo zio erano gente di campagna. Le donne avevano zigomi pronunciati, bocche senza labbra: erano mongole dalla testa ai piedi. I nonni, i genitori e anche lo zio di Čechov erano tutti campagnoli, tutti con gli zigomi pronunciati. Spaventavano quasi, specialmente chi aveva vissuto per più di trent’anni in Europa. La mandibola dello zio. Rozza come poche. Il padre era un po’ meglio, ma aveva anche lui quella stessa mandibola.
«Sapete che cosa mi è successo, una volta? Stavo salendo lo scalone del Consiglio dei nobili di Mosca quando scorsi, di spalle, Južin-Sumbatov di fronte allo specchio. Tirava per la giacca Potapenko e gli sibilava caparbio, a denti stretti: “Lo capisci o no, che sei lo scrittore numero uno, in Russia?”... Poi però mi vide, arrossì e aggiunse in tutta fretta, indicandomi nello specchio senza neanche voltarsi a guardarmi: “Insieme a lui, è ovvio...”».
«Quel tipo di donne che, a guardarle, vien fatto di credere che abbiano le branchie, sotto il bustier».
«Uno scrittore dev’essere povero, deve sapere che se non scrive, se cede alla pigrizia, potrebbe morire di fame. Vanno incarcerati, gli scrittori, per costringerli a scrivere di galere, torture e bastonate... Sapeste quanto sono grato alla sorte di essere stato povero da giovane!».
In altre occasioni sosteneva l’opposto: «Uno scrittore dev’essere ricco sfondato, tanto ricco da potersi concedere in qualunque momento un giro del mondo sul proprio yacht, o da organizzare una spedizione alle sorgenti del Nilo, al Polo Sud, in Tibet o in Arabia, da comprarsi il Caucaso o l’Himalaya... Tolstoj dice che a un uomo servono tre aršin di terra. Sciocchezze. Tre aršin di terra servono a un morto, a un vivo – e soprattutto a uno scrittore – serve il mondo intero...».
Scriveva nel maggio 1889: 4 maggio 1889: «Se non riesco a tirar fuori due novelle al mese o diecimila rubli di reddito l’anno non è per pigrizia, ma per costituzione psicofisica: non amo abbastanza il denaro per concentrarmi sulla medicina e non ho abbastanza passione – e forse talento – per scegliere la letteratura. Il sacro fuoco che è in me arde sempre, ma svogliato, senza fiammate né crepitii, ragion per cui non mi capita mai di scrivere trenta o quaranta pagine in una sola notte, o di farmi prendere dal lavoro al punto di non andare a dormire; è forse per questo che non ho partorito né sciocchezze clamorose né arguzie degne di nota.
«Da morto sarò solo come lo sono da vivo».
«Mi vergogno terribilmente di come scrivevo agli inizi!» si lamentava con lui uno scrittore. «Che dite!» esclamò Čechov. «Cominciare male è meraviglioso! Quando invece l’avvio è folgorante, allora sì che è finita!».
«Ci sono mille sciocchi per ogni persona intelligente, mille parole vuote per ogni arguzia, che così finisce soffocata».
«Ebbe o non ebbe un grande amore nella sua vita? Non credo. “L’amore” scrive Čechov sul suo taccuino “o è ciò che resta di qualche cosa che si guasta, ma che un tempo è stato immenso, oppure è parte di ciò che immenso diventerà in futuro, ma che nel presente non ci soddisfa e ci dà molto meno di quanto ci aspetteremmo”» (Bunin nel 1935).
«A tutt’oggi molti ritengono che Čechov non conobbe mai il vero amore. L’ho creduto anch’io, per lungo tempo. Ora, invece, posso affermare per certo che lo ebbe, un grande amore: Lidija Alekseevna Avilova» (Bunin nel 1953, dopo aver letto le memorie della Avilova).
La Avilova (Strachova da nubile, sorella di un seguace di Tolstoj) era una di quelle donne che Čechov tanto amava e che definiva «giunoniche».
Lidija Alekseevna Avilova, sposata, tre figli, invitò a casa sua a cena Čechov mentre il marito era lontano, nel Caucaso. Annota nelle sue memorie: «Avevo preparato una cena fredda, con vodka, vino, birra e frutta. In sala da pranzo la tavola era apparecchiata per il tè».
Un passaggio della lettera che Čechov scrisse alla Avilova il 14 febbraio del 1904, quattro mesi prima di morire: «Vi auguro ogni bene, e soprattutto siate allegra, guardate alla vita senza troppe complicazioni: è davvero più semplice di quello che sembra. E merita forse, questa vita che non conosciamo, le riflessioni tormentate che logorano le menti di noi russi? È tutto da vedersi...».