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 2015  aprile 02 Giovedì calendario

ARTICOLI SUL CAOS TURCO DAI GIORNALI DEL 2/4/2015


ROBERTO TOSCANO, LA STAMPA -
Sembra davvero passato molto tempo da quando la Turchia veniva considerata come una concreta dimostrazione della possibilità di un islam politico non solo compatibile con libertà e pluralismo, ma anche in grado di creare un’alternativa alle tendenze islamiste radicali integrando le masse di credenti su un terreno di democrazia e modernizzazione. Anzi, nel momento della cosiddetta Primavera Araba furono molti, sia in Medio Oriente che in Europa e negli Stati Uniti, ad accennare con interesse ad un promettente «modello turco». Quella primavera è rapidamente sfiorita, ma è anche la Turchia a non essere più vista con quello stesso positivo interesse, e certamente non come modello.
Se in questi ultimi giorni si parla della Turchia è per alcune inquietanti notizie di cronaca, dal rapimento e uccisione di un magistrato da parte di un gruppuscolo estremista (che porta il nome grottescamente «retro» di Partito-Fronte di Liberazione del Popolo Marxista Rivoluzionario) all’irruzione di un uomo armato in una sede del Partito di governo, l’Akp - cui si aggiungono episodi come il falso allarme di una bomba a bordo di un aereo della Turkish Airlines e persino un misterioso generalizzato blackout elettrico. Nelle ultime ore si registra anche un attacco armato a una stazione di polizia. Sono notizie che diffondono sconcerto e aumentano incertezze e sospetti, ma la profonda inversione di segno negativo della realtà politica interna della Turchia viene da molto più lontano, e ha ragioni molto profonde e non episodiche. A questo quadro vanno aggiunti clamorosi errori di politica estera, come aver puntato su un’imminente caduta di Assad e per questo essersi schierati dalla parte dei suoi oppositori, compresi i jihadisti più radicali.
Al centro della nostra analisi dobbiamo mettere la trasformazione di un leader, Recep Tayyip Erdogan, che - in una progressione costante - si sta spostando su posizioni sempre più autoritarie e personaliste. In Turchia sembra stia ormai emergendo un sistema politico che pur continuando a basarsi su un consenso ampiamente maggioritario si può ormai classificare sotto la definizione di «democrazia illiberale». Come nell’evoluzione darwiniana, diventa difficile segnare esattamente il punto di passaggio da una variante della democrazia a un «regime», ma fatti come la sistematica repressione dei giornalisti, la destituzione di giudici e poliziotti sgraditi al potere, i ripetuti rinvii a giudizio e condanne per «offesa al Presidente» e un’islamizzazione strisciante nel campo della cultura e dell’istruzione sono segnali non equivoci del graduale, ma ultimamente accelerato, strutturarsi di un regime.
I più radicali e coerenti fra gli oppositori laici di Erdogan sono estremamente polemici nei confronti di chi, in Turchia e all’estero, si era lasciato illudere dalla prospettiva di un islam turco moderato e democratico a volte immaginando che potesse trattarsi di una sorta di versione musulmana della Democrazia Cristiana italiana. Certo sarebbe onesto, da parte di chi in effetti si era lasciato trarre in inganno, fare autocritica, e ammettere che talora si scambiano i propri pii desideri per realtà. Ma, onestà per onestà, vi sarebbe materia anche per i laici turchi di fare autocritica, e soprattutto cercare di rispondere ad alcune inquietanti domande. Come si spiega il ripetuto successo elettorale del Partito di Erdogan, l’Akp, che continua a raccogliere buona parte del voto delle classi popolari? Come mai l’opposizione non ha saputo presentare un’alternativa non solo laica, ma anche progressista e credibile in campo sociale, terreno occupato invece dall’Akp con una serie di misure popolari? Quali sono gli errori e le carenze politiche che spiegano perché non si sia riusciti a superare la spaccatura sociale e culturale fra l’Istanbul europea e cosmopolita e l’Anatolia religiosa e conservatrice?
In altri termini, Erdogan non è tanto la causa di una crescente debolezza dei laici quanto una sua conseguenza. Tanto più che il laicismo turco non si è affermato attraverso la maturazione graduale di un’intera società, ma sulla base della scorciatoia autoritaria di Atatürk, un modernizzatore di straordinarie doti politiche e grande visione progettuale, ma tutto meno che un democratico. E tanto più che al di fuori di una classe intellettuale urbana - in Turchia vasta ma certo non maggioritaria - il modello di Stato laico, mai condiviso da una «maggioranza silenziosa» di credenti, si è retto ed è arrivato ai nostri giorni grazie al periodico intervento dei militari. Insomma, quando si parla di democrazia si dà per scontato che si intenda democrazia liberale, ma cosa succede quando i «democratici» (quelli che davvero vincono le elezioni - come Putin, per fare un altro esempio) non sono liberali - dato che usano il potere della maggioranza per reprimere le minoranze - e i «liberali» (quelli che sono evoluti, moderni e laici) non sono democratici - dato che hanno nostalgia del tempo in cui le élites colte gestivano il potere senza l’interferenza delle masse religiose?
Eppure la Turchia è uno straordinario Paese, come dimostrano ritmi di modernizzazione e sviluppo economico veramente straordinari e la presenza di intellettuali e professionisti di grande livello. Ci sarà quindi di certo un «dopo Erdogan» in cui le contraddizioni di natura politica potranno finalmente essere superate e in cui in particolare la religione, legittimamente presente nello spazio pubblico, non pretenderà di imporre la sua egemonia in campo politico. E in cui - va aggiunto - la Turchia potrà riprendere quel suo avvicinamento all’Unione Europea che oggi appare purtroppo come un sogno pateticamente irreale.

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MARTA OTTAVIANI, LA STAMPA -
La Turchia è risucchiata in una spirale di terrore che sembra non avere fine e, oltre alla tensione, nel Paese aumentano anche polemiche e sospetti. Ieri tutta la nazione piangeva la morte del magistrato Mehmet Selim Kiraz, rimasto ucciso nel blitz che avrebbe dovuto salvarlo.
Il Presidente nel mirino
Non c’è stato nemmeno il tempo per riprendersi dallo choc che le televisioni hanno iniziato a diffondere immagini provenienti dalla parte asiatica della città, dove un uomo si era introdotto in una sede dell’Akp, il partito di Erdogan. Era armato, ma a sorpresa non ha aperto il fuoco contro nessuno, ha solo fatto uscire tutti e ha esposto una bandiera turca, sulla quale era rappresentata anche una scimitarra, dalla finestra dell’ultimo piano. Un gesto probabilmente isolato.
Quello che è successo nel pomeriggio potrebbe invece avere un collegamento con il sequestro, martedì scorso, del magistrato Kiraz. Erano da poco passate le 18, le 17 in Italia, quando una coppia si è avvicinata alla questura centrale di Istanbul, notoriamente uno dei luoghi più sicuri della megalopoli sul Bosforo. La polizia ha subito notato qualcosa di strano nella loro andatura e presto si sono accorti che lui aveva un fucile e lei una bomba. La sparatoria è durata pochi minuti, la kamikaze è morta subito e il compagno, ferito, è stato interrogato dalla polizia. Non hanno detto se siano legati al Dhkp-c, l’organizzazione terroristica di estrema sinistra che ha sequestrato Kiraz nel suo ufficio, ma la dinamica dell’attentato somiglia molto ad altri colpi messi a segno dal gruppo.
Allarmi bomba sugli aerei
Nel Paese la tensione si taglia con un coltello, aumentata da due allarmi bomba su due aerei della Turkish Airlines in pochi giorni. Sui velivoli non sono stati ritrovati ordigni, ma è bastato il solo sospetto a incrementare il senso di paura in un Paese che in questi giorni si sta scoprendo sempre più vulnerabile. Ci sono poi le polemiche che riguardano le falle nella sicurezza. Il tribunale dove Kiraz è stato fatto prigioniero sulla carta doveva essere il più sicuro del Paese. Il Presidente Erdogan, complimentandosi con le forze antisommossa per il blitz di due sere fa, si è attirato le critiche della stampa di opposizione, che gli ha fatto notare che il primo obiettivo dell’attacco, ossia salvare Kiraz, era palesemente fallito.
Elezioni alle porte
In un clima così le attenzioni degli analisti sono puntate verso le elezioni politiche del prossimo 7 giugno. Saranno consultazioni chiave perché l’Akp, il partito per la Giustizia e lo Sviluppo che guida il Paese dal 2002, dovrà assolutamente ottenere i due terzi dei seggi in parlamento, soglia necessaria per portare avanti le riforme costituzionali per il presidenzialismo forte che stanno tanto a cuore a Erdogan. Il suo maggior avversario sarà il partito curdo e proprio su questo punto si concentrano i timori di molti. Il Dhkp-c in passato è stato accusato di avere legami con il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan. Il rischio è che Erdogan cerchi di strumentalizzare quanto accaduto per aumentare il consenso, con le inevitabili conseguenze su una situazione già incandescente.

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ANTONIO FERRARI, CORRIERE DELLA SERA -
I n altri tempi, quanto sta vivendo la Turchia in questi giorni avrebbe provocato un duro richiamo delle Forze armate, e forse qualcosa di assai più grave. Oggi però i militari sono stati depotenziati dal presidente Erdogan, ed è difficile immaginare i carri armati per le strade del Paese. Però quanto accade e moltiplica la pericolosa tensione sociale ha ovviamente acceso tutti i possibili segnali di allarme. Riaffiorano, dalla clandestinità, i brigatisti rossi del «Fronte rivoluzionario di liberazione del popolo», sequestrano un magistrato, assaltano una sede del partito di governo e una stazione di polizia incuranti dei caduti e degli arresti. Si possono poi aggiungere il blackout che martedì ha paralizzato il Paese, e gli allarmi-bomba che hanno costretto tre rientri a Istanbul in quattro giorni di aerei della Turkish airlines. No, questo non può essere, come pensa Erdogan, una manovra di infidi nemici della pace e della stabilità del Paese. C’è qualcosa di più grave sotto la superficie di una Turchia che si riscopre fragile e insicura, con una politica interna punteggiata dalle intimidazione nei confronti di qualsiasi oppositore, e una politica estera disastrosa, che ha tolto il sonno agli stessi vertici della Nato, preoccupati dalle scelte pericolose di un membro tra i più importanti. C’è da pensare che questa instabilità e questa tensione gravissima, che la Turchia riscopre dopo 13 anni di guida solitaria e sicura del partito islamico-moderato, abbia altre ragioni. Per esempio lo scontro, che tutti cercano di annacquare ma che esiste, eccome se esiste, tra il presidente e il primo ministro Ahmet Davutoglu, che è pur sempre una sua creatura. Erdogan avrebbe da dire sulle liste per le cruciali elezioni parlamentari del 7 giugno. Probabilmente i candidati li vorrebbe scegliere lui, invece del primo ministro che è anche il leader eletto del partito Akp. C’è anche dell’altro. Erdogan sognava di conquistare i due terzi dei seggi, per avviare la riforma presidenziale, e diventare l’uomo solo al comando. Adesso, molti sondaggi dicono che è persino in bilico, se non esclusa (per adesso), la conquista della maggioranza assoluta. Si prospetterebbe quindi la necessità di immaginare una coalizione. Scenario, per l’arrogante Erdogan, davvero da incubo.

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MONICA RICCI SARGENTINI, CORRIERE DELLA SERA -
Doveva essere la giornata del dolore ieri ad Istanbul con migliaia di persone in lacrime davanti al Palazzo di giustizia per i funerali del procuratore Mehmet Selim Kiraz, e, invece, si è trasformata in un nuovo incubo con i cittadini in preda a momenti di isteria collettiva, impauriti all’idea di vivere di qui al giorno delle elezioni politiche, il 7 giugno, tra continui attentati e falsi allarmi.
«Quello che è successo in un solo giorno in Turchia riempirebbe un giornale scandinavo per un mese», aveva commentato ieri su Hurriyet l’analista Murat Yetkin senza sapere che la giornata avrebbe riservato ancora diverse «sorprese».
In mattinata, nella parte asiatica della città, solitamente tranquilla, un uomo armato ha fatto irruzione nella sede locale del partito islamico Akp minacciando di uccidere tutti i dipendenti se non fossero usciti dall’edificio. Le forze speciali turche sono riuscite a fermarlo solo dopo che aveva rotto un paio di vetri ed esposto una bandiera turca sulla quale era stata aggiunta una sorta di scimitarra. Un simbolo sicuramente estraneo alla Turchia moderna creata da Mustafa Kemal Atatürk e anche ai terroristi del Dhkp-C che martedì avevano sequestrato il magistrato Kiraz, rimasto poi ucciso durante il blitz per liberarlo.
La tensione ha raggiunto livelli inaspettati nel pomeriggio quando un uomo e una donna hanno attaccato la questura centrale della megalopoli sulla Vantan Caddesi, nel quartiere di Fatih, uno dei distretti più conservatori della città, roccaforte dell’Akp. La questura è una specie di Alcatraz e i due attentatori non si illudevano certo di espugnarla. L’intento, probabilmente, era solo di colpire un luogo simbolo. In men che non si dica, infatti, una strada centrale della città si è trasformata in una zona di guerra. La gente, in attesa davanti agli uffici, si è tuffata, gridando, all’interno. Nello scontro a fuoco la terrorista, che pare indossasse un giubbotto esplosivo, si è subito accasciata al suolo, senza vita. Il suo compagno d’armi, invece, seppur ferito, ha cercato di scappare ma è stato arrestato.
Il Paese è sgomento e le ipotesi che circolano, sia sugli attacchi sia sul maxi black-out di martedì, sono delle più disparate. C’è chi parla di un ritorno della strategia della tensione, quella che in passato ha portato a colpi di Stato militari e repressioni feroci. Secondo alcuni l’improvvisa impennata di violenza giocherebbe a favore di Erdogan spingendo gli elettori, oggi in fuga verso i nazionalisti del Mhp, a votare per la «stabilità» del partito al potere. I sondaggi danno l’Akp in forte perdita di consensi (39-40% contro il 50% delle politiche del 2011). E quelle di giugno sono elezioni che «il sultano» deve assolutamente vincere se vuole cambiare la costituzione in senso presidenziale.
Ieri il premier Ahmet Davutoglu ha parlato «di un asse del male che cerca di creare un’atmosfera di caos prima del voto ma — ha aggiunto — noi siamo abbastanza forti da stanarli». Detto, fatto. A Antalya, Eskisehir, Smirne sono scattate le manette ai polsi di decine di presunti simpatizzanti del gruppo di estrema sinistra Dhkp-C e all’Università di Istanbul 26 giovani sono stati arrestati per aver esposto su un muro la fotografia di uno dei due sequestratori del giudice.
È sera e la città si rallegra per l’elettricità ripristinata, ma quello che si stenta a ritrovare è la calma. «Cosa potrà mai accadere domani?» è la domanda che tutti si fanno.
Monica Ricci Sargentini

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MARCO ANSALDO, LA REPUBBLICA -
«La Turchia va alle elezioni, e le crisi arrivano come una cascata». L’analisi di Murat Yetkin, direttore del Hurriyet Daily News, fotografa in modo perfetto il caos in cui è piombato da 48 ore il Paese della mezzaluna. Una verniciata di sangue che ha colpito soprattutto Istanbul, cuore pulsante fra Asia e Europa, calata come un incubo di cui si faticano a vedere i contorni, figuriamoci l’uscita.
La Turchia torna preda di un terrorismo questa volta multiforme, che la coglie impreparata non tanto nella risposta, come sempre tranciante, vedi il blitz delle teste di cuoio che ha forse causato l’uccisione — secondo fonti indipendenti — del giudice sequestrato dai terroristi del gruppo marxista-leninista del Dhkp-C. Quanto in una strategia chiara, che non sia solo quella della repressione brutale di piazza (Gezi Park nel 2013), degli arresti continui di giornalisti, e dell’affermazione a qualsiasi prezzo del partito islamico da 13 anni al potere.
Dice Sahin Alpay, scrittore, politico e giornalista, la cui opinione è interessante essendo stato nei suoi anni giovanili un convinto maoista: «In Turchia ci troviamo di fronte a un picco maccartista. E mi riferisco al termine di “Stato parallelo” inventato dal presidente Erdogan, rivolto ai simpatizzanti del movimento di Fetullah Gulen (suo avversario rifugiatosi in Pennsylvania, ndr), visto come colui che intende provare la corruzione del governo. Nei primi anni Cinquanta, negli Stati Uniti, il senatore Joseph McCarthy accusò migliaia di americani di essere membri del partito comunista, o agenti sovietici, avviando una caccia alle streghe seguita da indagini aggressive con una totale mancanza di prove. Quel maccartismo ha trovato la sua applicazione più selvaggia nella Turchia di oggi».
E la distanza fra avversari politici oggi non potrebbe essere più grande. Titola in prima pagina il quotidiano filogovernativo Akit: “Il giudice è stato ucciso dalla gente di Gezi Park”. Parole che hanno fatto infuriare molti giovani di Piazza Taksim, impegnati due anni fa a difendere gli alberi dalla colata di cemento, e dai reiterati tentativi di islamizzazione.
Ma la Turchia non è solo al centro di tensioni interne, con le elezioni alle porte, e un accordo ormai saltato per diffidenze reciproche fra partito islamico e fazione curda. I nodi sono soprattutto all’estero. Ankara non ha risolto la propria posizione sul cosiddetto Califfato islamico. Barack Obama chiede a Erdogan una presa di distanza chiara, tuttora mancante, mentre dal confine poroso fra Turchia e Siria gli aspiranti jihadisti continuano a penetrare, e sono più quelli che riescono a farlo di quelli fermati dalla polizia.
C’è poi il nodo con l’Europa. La scorsa settimana, in una riunione all’Istituto Affari Internazionali a Roma, il ministro turco per la Ue, Volkan Bozkir, ha detto che «nel giro di due anni Ankara sarà in grado di chiudere tutti i capitoli negoziali per aderire all’Unione Europea». E un convegno ricco di voci diverse svoltosi al Partito radicale, alla presenza di Emma Bonino convinta sostenitrice dell’ingresso di Ankara, ha appoggiato l’apertura di nuovi capitoli. Ma le trattative sembrano arenate: ieri per molte diffidenze europee, oggi anche per un maggiore disinteresse turco. Le convulsioni della Mezzaluna conosceranno poi, questo mese, una nuova fonte di asperità: l’anniversario dei 100 anni del genocidio armeno, che Ankara riconosce solo come massacro (e con cifre molto ridotte rispetto a quelle presentate da Erevan), ma non come primo esperimento mondiale di pulizia etnica. La Turchia si troverà così fra qualche giorno al centro esatto di una ventata internazionale che le chiederà di prendere posizione su un passato pieno di pagine oscure.
Persino il Papa ieri ha parlato di Turchia. Nell’udienza generale in Piazza San Pietro ha ricordato la figura di don Andrea Santoro, il sacerdote ucciso nel 2006 nella Chiesa di Santa Maria a Trebisonda. «Eroico testimone dei nostri giorni», lo ha definito. E tuttavia Erdogan, al solito incurante delle critiche esterne («non mi interessa l’isolamento, gli altri leader sono gelosi di me») , è preoccupato soprattutto del possibile calo di voti. «Gli ultimi sondaggi hanno fatto squillare campanelli d’allarme », dice il politologo Cafer Solgun. Forse da 48 ore, qui, non c’è una mano invisibile che ha schiacciato il pulsante “caos”. Ma molti interessi diversi, in un Paese dove tutti i nodi sono venuti improvvisamente al pettine, e sono pesanti come macigni.

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RENZO GUOLO, LA REPUBBLICA -
La Turchia è in fibrillazione. Gli attacchi del Partito Fronte Rivoluzionario della Liberazione del Popolo (Dhkp-C) contro la magistratura e la polizia cercano di sfruttare l’indignazione. Indignazione, ancora assai viva, contro la repressione di Gezi Park e la mancata punizione dei poliziotti che si sono resi responsabili, nella circostanza, di condotte violente in ordine pubblico. Una mobilitazione, quella del giugno 2013, nata contro la cementificazione di uno dei polmoni verdi di Istanbul e che presto si era trasformata in aperto dissenso contro l’autoritarismo di Erdogan e l’islamizzazione dei costumi imposta dal suo governo.
L’azione terroristica dei piccoli gruppi marxisiti-leninisti, sfociata nel sequestro e nella morte del giudice Kiraz, agli occhi di parte dell’opinione pubblica ostile al governo simbolo della giustizia negata per la morte del quindicenne Berkin Elvan, il quindicenne ucciso dalle forze speciali durante le proteste di Gezi Park, non può produrre però alcun sbocco politico. Anche se la polizia ha dovuto usare i lacrimogeni per disperdere i manifestanti a Okmeydani, il quartiere in cui viveva Elvan, popolato da curdi, aleviti, militanti di sinistra e gruppi marginalizzati dalla politica di Erdogan, e nel distretto di Gazi nel quale il Dhkp-C conta dei simpatizzanti.
L’azione “ esemplare” dei piccoli gruppi dell’estrema sinistra mira a sollevare, in una tipica logica d’avanguardia da anni Settanta, la popolazione secondo il classico, e usurato, schema azione-repressione-insurrezione. Si tratta di modalità d’azione, compresa quella delle donne “martiri” laiche che si sacrificano altruisticamente in attacchi suicidi, già viste in passato. E che non hanno mai generato massa critica. Tanto più oggi, contro governi eletti democraticamente. Qualunque sia il giudizio sul loro operato.
Semmai la ricomparsa del terrorismo, anche quello non jihadista, rafforza il ruolo dell’Akp (il partito di Erdogan) come partito garante della tenuta del sistema. Tanto più che dopo il lungo dominio politico e la resa dei conti con Fethullah Gülen, l’epurazione nella magistratura e nelle forze dell’ordine dei simpatizzanti del leader del movimento Hizmet, il controllo di decisivi gangli dello Stato da parte di Erdogan è pressoché totale. Oggi lo “Stato profondo”, definizione che un tempo indicava l’inscalfibile e inesorabile potere dei militari, è quello nelle mani dello storico leader dell’Akp. Con tutte le implicazioni che ne possono derivare qualora si innescasse una spirale terroristica destinata a sfociare in una nuova strategia della tensione in salsa turca. Nel paese, comunque, il malessere è diffuso. E la ricomparsa del terrorismo non jihadista ne è un sintomo. Ma la campagna terroristica a pochi mesi dalle elezioni parlamentari offre al governo una chance su un piatto d’argento. A partire dalla possibilità di spingere sul controverso progetto della legge sulla sicurezza, che consente alla polizia di arrestare, detenere e anche affrontare con l’uso delle armi i manifestanti. E di cercare di fermare quella lenta ma progressiva emorragia di consensi che anche i sondaggi registrano in questi mesi. Le previsioni danno l’Akp sotto al 40 per cento, dieci punti in meno del 2011. Consensi che sembrano dirigersi verso i nazionalisti del Mhp (Partito del Movimento Nazionalista).
Se i numeri fossero questi, Erdogan perderebbe la maggioranza e i due grandi partiti laici Chp (Partito Popolare Repubblicano) e Mhp potrebbero formare un governo e imporre una “coabitazione” indigeribile per il Presidente della Repubblica islamista. Tanto che Erdogan ha reagito cercando di ridimensionare in ogni modo il peso dei nazionalisti: fermando il processo negoziale con i curdi e rilanciato la polemica con gli armeni. La ripresa del terrorismo gruppuscolare gli consentirebbe di presentarsi ancora una volta come il solo uomo che può offrire ordine e sicurezza alla Turchia e garantire che non si tornerà al passato.