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 2015  aprile 02 Giovedì calendario

IL FIDO SYLVINHO

Il «dietro le quinte» del Mancio. Uno spettacolo comunque. «Se non capite bene, fermatemi e ripeto...» dice lui. Lui è Sylvinho, the winner: pensa che il suo italiano zoppichi e teme che la lingua faccia filtro al suo pensiero. Non è così. Il pensiero del vice di Roberto Mancini è sciolto, pieno, tondo. E scorre. Italiano chiaro e voglia infinita di parlare. Dentro ai suoi racconti ci sono la tattica e l’approccio, gli spogliatoi top d’Europa e i sorrisi, il dialogo con i calciatori di oggi e le «gag» con quelli di ieri. Sylvinho è uno che ha vissuto il calcio in prima fila, stravincendo. Sylvinho è uno che, ora, vive la seconda fila con un doppio obiettivo: completare Mancio contemplando la trasformazione dell’Inter in squadra vincente.
Domanda apparentemente banale: come si insegna a vincere?
«Non si insegna a diventare vincenti. Vincenti si nasce e basta. Messi e Neymar, per esempio, lo erano già a 15-16 anni».
E all’Inter com’è la situazione?
«Qui c’è grande qualità umana e tecnica. Bisogna lavorare grado per grado e far capire ai giocatori che devono imparare a lavorare per stare sempre al massimo livello. Ovvero? Pensare che si gioca sempre un match di Champions: quando giochi lì, un errore è gol. Ecco, questa squadra deve avere la mentalità votata a questo concetto: zero margini di errore. Quanto ci vorrà a questa squadra per arrivare in Champions? Un anno, massimo due...».
Al momento va sradicata la fragilità della sconfitta o della difficoltà di vincere. Come si fa?
«Il giorno dopo il k.o. con la Samp, noi dello staff ci siamo presentati tutti con il sorriso sulle labbra. Siamo i punti di riferimento della squadra e non possono vederci abbattuti».
Lei completa Mancio e parla coi giocatori.
«Certo, io di più di Roberto. Mi sento ancora un giocatore, so come ragionano: un calciatore non ti inganna. Ascolto i problemi, cerco di risolverli. Solo quando la situazione è da... allarme dico: “Ehi Roby, qui sta a te…” Ma nel resto io non potrò mai sostituirmi a lui».
La prima offerta di fargli da vice quando è stata?
«Roberto mi voleva “vice” già nel 2010, quando gli dissi che avrei smesso di giocare, al City. Rifiutai, ma solo perché avevo bisogno di tornare un po’ in Brasile visto che ero in Europa dal 1999. Da allora siamo rimasti sempre in contatto. A novembre, quando è tornato all’Inter, mi ha telefonato. Mi voleva subito. Ero al Corinthians, non potevo mollare la squadra a 4 partite dalla fine del campionato. Sono arrivato dopo ma sono qui, nonostante il Timao avesse pensato anche a me come primo allenatore».
Che mondo è l’Inter?
«Sto benissimo e si fa un gran bel lavoro. Per certi versi mi sembra di essere tornato al ‘99, quando dal Brasile passai all’Arsenal di Wenger. Perché? Niente ritiro il giorno prima delle partite a Londra. Ultimo allenamento e poi via a casa. Rimasi sconvolto, ero abituato in Brasile ad andarci fin dal venerdì se giocavamo la domenica. Mi sentivo quasi in colpa! Questo per dire che è un’esperienza bella, nuova, diversa, forte. E Mancini insegna tantissimo».
Lei è stato allenato da Wenger, Rijkaard, Guardiola e Mancio. Qual è il tecnico perfetto prendendo le qualità di ognuno?
«Dovrebbe essere un padre come Rijkaard; avere la cura maniacale nella preparazione delle partite di Guardiola, uno che se stava ore a studiare avversari e contromosse; l’intelligenza gestionale di Wenger; l’intensità dinamica di Mancini. Cosa dovrebbe avere di me? Io credo nel comportamento del giocatore e amo intensità e qualità. Anche Roberto è tifoso del bel calcio, è un vincente, ama l’organizzazione non solo tattica, l’intensità. E ogni tanto diventa matto se vede che qualcosa non migliora».
Quindi non è vero che è troppo buono?
«S’incazza, eccome. Non dico quando, ma ha avuto tre sfoghi non male... Sa essere duro, s’arrabbia sapendo annusare l’aria».
E sa scrivere bene i pizzini.
«Una genialata, non avevo mai visto nessuno usarli prima di lui. Sennò come fai a parlare col terzino dall’altra parte».
Il pre-gara è momento sacro. Quali parole si dicono ai giocatori nello spogliatoio?
«Non esiste la parola giusta. Io volevo essere lasciato tranquillo mentre Deco, al Barcellona, si avvicinava e mi parlava di tutto, mi chiedeva, la famiglia, la quotidianità. Io gli dicevo «Ehi, fra 3’ si va in campo!” e lui continuava, e un quarto d’ora dopo dava spettacolo davanti a 100 mila persone. Ho vissuto anche Edmundo: sbraitava, urlava, era il suo modo di sfogare la tensione. Poi in campo segnava sempre. Il modo perfetto non esiste quindi».
Il modo perfetto di vivere Milano è (anche) vincere il derby.
«E io l’ho già battuto: giocando con il Celta (nel 2003, ndr) al Meazza, e poi l’ho eliminato in semifinale di Champions nel 2006 con il Barcellona. Ero seduto in tribuna? Beh, anche la prossima sarò seduto...».