Lucia Capuzzi, Avvenire 2/4/2015, 2 aprile 2015
IL TERRORISMO FA LIEVITARE LE SENTENZE DI MORTE
La stanza del patibolo era rimasta vuota per 105 anni. Nella prigione pachistana di Sergodha non si eseguivano condanne a morte dal 1910. Martedì, però, il boia è tornato a colpire anche là. Sono già decine i detenuti impiccati a Islamabad da dicembre, quando il governo ha deciso lo stop alla moratoria dopo l’attacco taleban alla scuola di Peshawar. Le tre ultime esecuzioni del 31 marzo non rientrano nel rapporto appena diffuso da Amnesty International e relativo al 2014. S’inseriscono, però, nell’inquietante dinamica descritta nello studio.
Per contrastare «criminalità, terrorismo e instabilità interna» gli Stati hanno incrementato esponenzialmente il ricorso alle sentenze capi- tali. In media, ogni giorno, sono stati emessi sette verdetti di morte, per un totale di 2.466. Rispetto al 2013, si parla di 500 in più, quasi un terzo (28 per cento). Principali responsabili sono Egitto e Nigeria che, nel tentativo di far fronte alla minaccia interna, hanno emesso condanne di massa: ben 509 da parte del Cairo e 659 di Abuja. Tale tendenza prosegue nel 2015, come dimostra il caso Pakistan. A dicembre, inoltre, anche la Giordania ha messo fine a otto anni di moratoria, mentre l’Indonesia ha annunciato l’intenzione di incrementare il ricorso al boia in particolare per i trafficanti di droga, definiti «un’emergenza nazionale». Perfino a Papua Nuova Guinea e Kiribati, nel Pacifico – l’unica area virtualmente “libera” dalla pena di morte –, gli esecutivi hanno ipotizzato di tornare alle “morti di Stato” in funzione anticrimine.
Una strategia «inutile» – afferma Amnesty –, basata sulla «falsa teoria della deterrenza». «I governi che impiegano la pena di morte per contrastare la criminalità ingannano se stessi. Non c’è prova che la minaccia di un’esecuzione costituisca un deterrente più efficace rispetto a qualsiasi altra sanzione», ha affermato il segretario generale dell’Ong, Salil Shetty.
L’allarme è solo in parte controbilanciato da un elemento positivo: il numero di esecuzioni effettivamente compiute si è ridotto del 22 per cento rispetto all’anno precedente, raggiungendo quota 607. Tra le vittime, spesso, anche dissidenti accusati di reati d’opinione o persone condannate in base ad atti quali “l’adulterio”, la “blasfemia”, la “stregoneria”. Il tragico primato spetta ancora una volta alla Cina anche se per tale nazione non si hanno dati certi. Il rigido segreto di Stato costringe le organizzazioni internazionali a basarsi sulle stime che parlano di migliaia di condanne. Segue l’Iran, dove le esecuzioni rese note dalle autorità sono state 289. Gli attivisti, però, ne denunciano altre 454 non riconosciute. In Arabia Saudita il boia ha colpito 90 volte, in Iraq almeno 61 e negli Stati Uniti 35.
Come nel 2013, anche stavolta sono stati 22 i Paesi nel mondo ad applicare la pena capitale. Nei loro rispettivi bracci della morte, languono quasi 20mila detenuti in attesa del boia. Vent’anni fa, però, le nazione non abolizioniste erano 41, segno di una tendenza abolizionista che procede, anche se a rilento. Un’ulteriore prova è arrivata ieri: il penitenziario di San Quintino, a Los Angeles, ha annunciato un ampliamento straordinario. La ragione? Le esecuzioni sono congelate dal 2006 e le 715 celle sono quasi tutte “esaurite”: solo sette risultano ancora libere.