Gianni Barbacetto, il Fatto Quotidiano 1/4/2015, 1 aprile 2015
IL MILIARDO DI GARDINI, LE BANCHE E IL VINO: C’È ODOR DI D’ALEMA
Ci si può dimettere da vignaioli? “Io non sono un ministro, che ha vincoli di comportamento, sono un cittadino qualsiasi”, dice infuriato Massimo D’Alema, “e non sono deputato: sono in pensione. Io non assegno appalti”. Così per lui non costituiscono un problema le 2 mila bottiglie di vino e le 500 copie del suo libro comprate dalla coop Cpl Concordia. E neppure i 60 mila euro versati alla sua fondazione, Italianieuropei. Ora però, benché non indagato, dovrà andare dai magistrati napoletani a testimoniare come persona informata sui fatti. Certo gli elementi emersi dalla storia che arriva dall’isola delle tangenti è per D’Alema un segno di declino: di lui si favoleggiava come il destinatario della valigia da 1 miliardo di lire portata al Bottegone da Raul Gardini nel 1989 e oggi, 26 anni dopo, siamo alle bottiglie di vino. Lo raccontò l’autista di Gardini: “A Botteghe Oscure ci ha ricevuti D’Alema. Lui e Gardini sono entrati in una porta...”. La valigia del miliardo portata alla sede del Pci viene evocata anche da Carlo Sama, successore di Gardini, e da Sergio Cusani, finanziere di fiducia. Ma nessuno la racconta fino in fondo e così, senza prove, nel processo evapora in appello e nella storia politico-giudiziaria rimane sospesa nel mondo di mezzo tra verità non confermate e veleni sparsi per intossicare.
Era un momento delicato per il Pci, che si preparava a cambiare nome, pelle e metodi. Fino alla caduta del Muro, la partecipazione del partito in Tangentopoli era limitata a portare a casa una quota degli appalti pubblici, affidati alle coop rosse che poi finanziavano la “ditta”. Qualcosa cambia con l’Alta velocità, e proprio D’Alema – allora vice di Achille Occhetto – parrebbe al centro del cambiamento. Almeno a dar retta a un certo Bartolomeo De Toma, già braccio operativo di Bettino Craxi in molti appalti, che in un verbale di Mani Pulite raccolto dal pm Paolo Ielo racconta: “Vincenzo Balzamo”, segretario amministrativo del Psi, “mi riferì di una riunione sull’Alta velocità dove si discuteva di ripartizione di lavori tra le varie imprese, che poi avrebbero dovuto erogare finanziamenti illeciti. In quest’occasione il tesoriere del Psi mi disse che pur essendo Marcello Stefanini il segretario amministrativo del partito, tutte le questioni riguardanti il finanziamento erano coordinate dall’allora vicesegretario Massimo D’Alema”. Ma al momento della deposizione sia Stefanini, sia Balzamo erano già morti, nessuna conferma fu trovata e così anche la storia dell’Alta velocità s’indirizzò su un binario morto. Più produttiva sembrò l’indagine di Bari per un finanziamento illecito di una ventina di milioni di lire ricevuto da Francesco Cavallari, il re delle cliniche pugliesi. Ma quella volta D’Alema si salvò grazie alla prescrizione. Per il resto, il leader fu chiamato in causa sempre e solo indirettamente, in rapporto a uomini della sua corrente. Come Cesare De Piccoli, eurodeputato veneziano del Pds. Era il 1994 quando Antonio Di Pietro contestò al manager Fiat Antonio Mosconi una mazzetta di 200 milioni: denaro “finalizzato alla campagna elettorale della corrente politica veneta facente capo all’on. Massimo D’Alema”. È nel 2005 che il leader Maximo veste i panni del banchiere d’affari. È in corso la tripla scalata dei “furbetti del quartierino” a due banche, Antonveneta e Bnl, e al CorrieredellaSera. Chi legge la storia come una “bicamerale degli affari”, versione finanziaria della Bicamerale, è favorito dal fatto che non solo D’Alema si spende in difesa degli scalatori, ma che media anche un passaggio di azioni Bnl dall’Udc Vito Bonsignore a Consorte. È lo stesso D’Alema a raccontarglielo in una telefonata (intercettata): “È venuto a trovarmi Bonsignore... Voleva sapere se io gli chiedevo di fare quello che tu gli hai chiesto di fare, oppure no (ridacchia)... Che voleva altre cose, diciamo... a latere su un tavolo politico... Ti volevo informare che io ho... ho regolato da parte mia”.
Due imprenditori di fede dalemiana entrano anche nella vicenda dell’ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati: sono Enrico Intini (già indagato a Bari per turbativa d’asta nella sanità pugliese e legato a Gianpaolo Tarantini, l’uomo che procacciava escort per Silvio Berlusconi) e Roberto De Santis (che condivideva con Massimo D’Alema la proprietà della barca Ikarus). Il primo versa all’associazione di Penati “Fare Metropoli” 30 mila euro. Il secondo 20 mila attraverso Milano Pace spa, che sta realizzando a Sesto il complesso “Le torri del parco”. Ma, ormai tramontata la grande stagione delle banche, inizia quella piccola del vino. L’ex presidente del Consiglio si concentra nella conduzione dell’azienda vinicola La Madeleine, 15 ettari in provincia di Terni, di proprietà dei figli Giulia e Francesco. Quest’ultimo acquisisce l’azienda da un prestanome dell’avvocato Sergio Melpignano, commercialista romano con una lunga storia, arrestato nel 1996 insieme all’avvocato Giovanni Acampora e al giudice di Roma Antonio Pelaggi per tangenti pagate per aggiustare un processo a carico del costruttore Renato Armellini. Socio di D’Alema in Ikarus e finanziatore di Italianieuropei era Vincenzo Morichini, coinvolto nel 2011 in una storia di appalti e mazzette Enac, l’ente dell’aviazione civile. Socio a sua volta di Morichini era Adolfo Orsini, diventato amministratore dell’“Agenzia regionale umbra per lo sviluppo in agricoltura”: un amico che sa capire il gran lavoro fatto dalla famiglia D’Alema per ripulire e riqualificare la Madeleine, impiantarci i vigneti e ottenere anche qualche finanziamento regionale.