Francesco Palmas, Avvenire 1/4/2015, 1 aprile 2015
CEMENTO E TUNNEL: IMPIANTI DEL MISTERO
Complessità, ridondanza e occultamento: tre sono le parole chiave del programma nucleare iraniano. L’infrastruttura è così amplia, oscura e interconnessa che cela con difficoltà fini militari. Molti gli indizi, ma nessuna pistola fumante. Dei 30 siti nucleari iraniani, Natanz, Arak e Fordow sono al centro di una scena resa ancora più drammatica dai misteri di Parchin e Isfahan. Il primo è un sito talmente avanzato da poter produrre fino a 5 bombe atomiche l’anno. Ospita oltre 12mila centrifughe. È in gran parte interrato e fortificato. Ha una sorta di sussidiaria in Fordow, altro impianto molto più sospetto. I genieri dei pasdaran l’hanno ricavato nelle balze montane, scegliendo la periferia della città santa di Qom e la tecnica dei maestri nordcoreani. Tutto induce al mistero: dal cemento armato alle protezioni balistiche, per non dire della fitta contraerea. Un tunnel sotterraneo scava le viscere della terra e s’inabissa fino a 90 metri, per eludere le più avanzate bombe degli arsenali nemici. Gli iraniani hanno sempre temuto che Gerusalemme potesse replicare qui i raid di successo contro gli impianti siro-iracheni. Anche il nome delle centrifughe, a Natanz e Fordow, è anodino. Ir-1 è la loro sigla temibile, perché replica affidabilissima delle centrifughe impiegate dal Pakistan nella sua folle scalata all’atomo bellico. L’Iran ne ha denunciato il possesso nel 2003. Era marzo.
Un tempismo perfetto, perché due mesi prima la Corea del Nord aveva stracciato il trattato di non proliferazione nucleare. C’era di che allarmare la comunità internazionale. Col tempo, le centrifughe iraniane sono migliorate: all’Ir-1 è stato affiancato il modello Ir-2, più veloce, segnalato nell’impianto pilota di Natanz. Quanto temono gli 007 occidentali è frutto di un intenso lavoro di spionaggio: Natanz forma forse un continuum integrato con gli altri 4 siti incriminati? Forse sì. Arak ad esempio sarebbe l’anello di congiunzione fra Isfahan e Natanz. Ospita un reattore ad acqua pesante, in tutto simile a quelli utilizzati dagli indiani e dagli israeliani per dotarsi di plutonio militarizzabile.
Disegnato dai russi e bramato da Teheran fin dal 1980, il reattore è stato testato a Isfahan, poi concepito con una potenza tremenda di 40 megawatt termici. Non è chiaro se sia già entrato in funzione. A regime, dovrebbe impiegare l’uranio naturale sfornato da Isfahan, l’altro tassello imprescindibile delle mire belliche iraniane, vista la sua capacità di convertire lo yellow cake. Detto in soldoni Isfahan può produrre 200 tonnellate di uranio l’anno, fondamentali per alimentare l’impianto di arricchimento di Natanz.
La catena si fa quasi inequivocabile. Arak va senz’altro fermato. Se mai dovesse entrare in funzione, potrebbe sfornare plutonio, molto più stabile dell’uranio nella creazione di miniordigni, integrabili nelle testate missilistiche. In condizioni ottimali, dal sito uscirebbero fino a 9 kg di plutonio l’anno, abbastanza per due bombe. Teheran saprebbe anche come innescarle: a Parchin, i pasdaran invitarono tre anni fa il fisico ex-sovietico Vyacheslav Danilenko. Si fecero addestrare sulle tecniche degli esplosivi ad alto potenziale, la strada maestra per l’innesco degli ordigni nucleari. L’Aiea si allarmò. Chiese libero accesso alla base. Ovvio, Teheran rifiutò. Poi bonificò l’area, cancellando le possibili prove.