varie 1/4/2015, 1 aprile 2015
ARTICOLI SUL NUCLEARE IRANIANO DAI GIORNALI DEL 1 APRILE 2015
MAURIZIO MOLINARI, LA STAMPA -
A Losanna i negoziati sul nucleare iraniano vengono prolungati di 24 ore per redigere una «dichiarazione comune» che testimonia i progressi compiuti, dando tempo fino a giugno per trasformarli in accordo, ma Israele ritiene che si tratti di una «luce verde» a Teheran che aumenta le minacce per la propria sicurezza nazionale.
È il premier Benjamin Netanyahu a dirlo parlando alla Knesset in occasione dell’inaugurazione della nuova legislatura: «L’intesa che stanno scrivendo a Losanna lascerà all’Iran gli impianti sotterranei, il reattore nucleare di Arak e le centrifughe più avanzate» e ciò significa che «secondo le nostre stime il tempo necessario all’Iran per creare una bomba atomica sarà ridotto a meno di un anno, o forse a molto meno di questo».
Al Beau Rivage Palace Hotel di Losanna si consuma la maratona negoziale fra l’Iran e il Gruppo 5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna più Germania) in un clima di cauto ottimismo che si riflette nelle parole del ministro degli Esteri russi Sergei Lavrov: «È possibile un buon accordo». Ma Netanyahu esprime la convinzione che «si sta materializzando la più grande minaccia alla nostra sicurezza ed al nostro futuro» ovvero «il tentativo dell’Iran di armarsi con ordigni nucleari». Da qui l’impegno, esplicito e solenne, a «fare di tutto per proteggere la sicurezza e il futuro di Israele».
Clausola del tramonto
A breve distanza dalla Knesset, nel quartiere di Montefiore è l’ex stretto collaboratore di Netanyahu, Dore Gold, a incontrare i reporter per spiegare quanto sta maturando a Gerusalemme. «Israele non può accettare due aspetti dell’intesa di Losanna» afferma, indicando il primo nella «clausola del tramonto» ovvero «la decisione di siglare un accordo a tempo, che verrà meno dopo 10 o 15 anni, come mai è avvenuto nei precedenti negoziati sul disarmo internazionale». E il secondo «nel fatto che saranno lasciate a Teheran le centrifughe che sono macchine per accelerare l’arricchimento dell’uranio e denotano la volontà di violare le intese prima ancora di firmarle». Uno scenario «che obbligherà Israele ad adottare delle contromisure» d’intesa con i Paesi sunniti, accomunati dal timore di «un’egemonia regionale iraniana». Alla domanda su quali saranno le contromosse israeliane, Gold risponde così: «Il pericolo maggiore viene dagli aspetti militari del programma iraniano, rivelati dall’Agenzia atomica Onu nel 2011».
Flotta di sottomarini
Di più Gold non dice ma sui quotidiani israeliani campeggiano foto e resoconti sul sottomarino «Tanin» - il più sofisticato, acquistato dalla Germania - spiegando che «altri due saranno consegnati nei prossimi mesi» portando a sei la flotta di sommergibili con cui, come scrive «Yedioth Aharonot», Israele «potrebbe rispondere in caso di aggressione iraniana». A confermare il clima di corsa agli armamenti in Medio Oriente c’è quanto afferma Gold: «L’Arabia Saudita ha fatto sapere che in risposta all’Iran nucleare si doterà delle stesse potenzialità».
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DANIELE MASTROGIACOMO, LA REPUBBLICA -
«Lavoriamo tutta la notte e se sarà necessario anche domani». Sguardo stanco, viso duro, le mani infreddolite nelle tasche, il funzionario americano avanza spedito cercando di seminare i cronisti che gli stanno alle calcagna. Si concede una sola frase. È un grugnito: la sintesi di una partita ancora tutta da giocare. L’accordo storico sul nucleare iraniano deve attendere. L’obiettivo di una svolta entro la mezzanotte del 31 marzo non è stato raggiunto. Si continua a trattare. Ad oltranza. I piccoli ma «concreti progressi» tra le due delegazioni — presiedute nella trattativa dall’Alto rappresentante della politica estera europea, Federica Mogherini — sono incoraggianti. Persino il rientro al Palace Beau Rivage di Losanna del ministro degli Esteri Sergei Lavrov, dopo un viaggio lampo a Mosca per un colloquio con Putin, è visto come un segnale positivo. Adesso resta inchiodato alla sua sedia. Ascolta le obiezioni degli americani, le proposte degli europei, gli interventi scettici dei cinesi, le insistenze iraniane. Ascolta e sospira. Il clima è teso. Il ministro Wang Yi decide di rientrare a Pechino.
Nessuno vuole far fallire una trattativa che fino a due anni fa sembrava impossibile. Un terzo rinvio in 18 mesi sarebbe un naufragio: Teheran punterebbe dritta alla bomba nucleare, Barack Obama si brucerebbe una delle sue ultime carte in politica estera. E poi Israele: ancora ieri, davanti alle voci che davano per imminente un accordo politico tra il Gruppo dei 5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) la Ue e l’Iran, Netanyahu ha lanciato fuoco e fiamme: «Non resteremo a guardare».
Si tratta per un accordo politico. Gli aspetti tecnici saranno affrontati nei prossimi tre mesi e definiti entro il 30 giugno. «Non siamo disposti a rinviare la discussione senza un impegno preventivo», ribadisce Josh Earnest, portavoce della Casa Bianca, «i colloqui non devono andare oltre l’alba» è l’avvertimento all’Iran. Adesso ci vuole un documento, una dichiarazione congiunta su almeno tre paletti che delimitano il campo delle future discussioni: l’arco di tempo in cui Teheran limiterà il processo di arricchimento dell’uranio al 20 per cento; il paese dove stoccare le migliaia di chili di combustibile accumulate negli ultimi anni; la fine delle sanzioni decretate dall’Europa e dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. L’Iran è disposto a cessare la produzione per 10 anni ma chiede l’immediata revoca dell’embargo. Gli Usa insistono per 15 anni di moratoria in modo da evitare che Teheran si possa costruire una bomba atomica. L’Europa, con i 5+1, è disposta ad aprire i canali commerciali ma in modo graduale, pronta a bloccarli davanti a nuovi doppi giochi. Teheran chiede fiducia: accetta le ispezioni a sorpresa dell’Aiea, i controlli periodici, ma a testa alta. Vuole entrare di nuovo a pieno titolo nel consesso internazionale. Per risollevare la sua economia colpita da 12 anni di sanzioni. Ma soprattutto per tornare ad essere la potenza regionale che può spegnere l’incendio del Medio Oriente e scongiurare la minaccia del Califfato nero.
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BERNARDO VALLI, LA REPUBBLICA -
ALL’IRAN
degli ayatollah che in queste ore tenta di rientrare in società vanno riconosciute due invenzioni tra le più singolari dei nostri tempi: la rivoluzione a ritroso e l’unità, meglio la simbiosi, tra Islam e politica. La Storia può obiettare che si tratta non tanto di idee nuove, ma di riesumazioni. Ma per noi, adagiati nella nozione di progresso, fece un certo effetto la rivoluzione islamica di Khomeini che trentacinque anni fa, nel 1979, ricondusse la nobile Persia alle leggi coraniche risalenti al millennio precedente. Nei nostri ricordi le rivoluzioni, anche se disastrose, proponevano o imponevano, di solito, innovazioni. La presa diretta del potere da parte dei religiosi sciiti, per secoli contrari ad assumerlo, dopo che un loro imam giovinetto si era nascosto e mai ritrovato, produsse invece un forte effetto nel mondo musulmano. Pur avendo profonde radici nella storia della loro religione, gli islamisti di oggi sono stati risvegliati e affascinati dall’avvento degli ayatollah al governo dell’Iran. I nazionalismi postcoloniali, ricalcati sullo statalismo sovietico, furono ripudiati, anche perché sconfitti.
La grande Persia non cessa di stupirci. Trasse in inganno perfino un noto filosofo. Michel Foucault, alla vigilia della loro presa del potere, dopo lunghi dialoghi con gli ayatollah, disse e scrisse che non avrebbero mai accettato di governare. Foucault fu sedotto, e in parte anche noi semplici cronisti, da chierici che parlavano di Spinoza e di Heidegger, ben inteso spesso per criticarli. Quegli stessi religiosi, oltre a compiere una rivoluzione a ritroso e a rifarsi ai principi coranici di circa un millennio e mezzo fa rivendicano da anni il diritto di avere la più avanzata e la più rischiosa tecnologia: quella nucleare.
Avendo seguito spesso da vicino alcuni grandi avvenimenti iraniani degli ultimi decenni, mi è capitato di avere sentimenti contraddittori. Non poteva non indignarmi la prima brutale fase della presa del potere di Khomeini. Ho al contrario ammirato la coraggiosa difesa del paese negli otto anni di guerra con l’Iraq di Saddam Hussein, alla quale parteciparono anche gli esuli politici ritornati in patria. Mi ha incuriosito la società iraniana, in particolare quella di Teheran, quando si è dimostrata capace di vivere con un non tanto vago sarcasmo i lugubri, cupi momenti della dittatura religiosa. I sussulti democratici non potevano che esaltarmi. Al contrario ho trovato inaccettabile il linguaggio degli ayatollah che addirittura invocavano la distruzione di Israele.
Ci si può fidare degli ayatollah? Il mondo è diviso. Nella stessa America, diventata subito il “grande Satana” per la Teheran dei chierici, il Congresso, dove dominano i repubblicani, è in favore di più severe sanzioni all’Iran; mentre la Casa Bianca, democratica, è incline a un’intesa, sia pure con tutte le precauzioni. La diplomazia internazionale si è prodigata nel mandare avanti un negoziato in cui non mancavano e non mancano le trappole. Il mondo musulmano è in grande allarme. Quello sunnita, il più numeroso, teme che una volta riammesso nella società internazionale, con l’aureola di potenza nucleare (al momento pacifica), l’Iran possa usufruire di un sempre più forte prestigio. E’ già presente nelle aree più agitate del Medio Oriente. In Libano ha alleati molto dinamici: gli Hezbollah. A Damasco contribuisce a tenere in piedi il despota Bashar el As- sad. A Bagdad governano gli sciiti, fratelli nella religione ma non sempre come arabi. E sono le milizie sciite, spesso inquadrate da graduati iraniani, che costituiscono la fanteria (insieme ai curdi) sulla quale contano gli aerei della coalizione creata dagli americani, di cui fanno parte numerosi paesi occidentali e arabi. Tutti impegnati contro lo “Stato islamico”, in Iraq e in Siria, ma non disposti a combattere a terra.
L’Arabia Saudita partecipa alla coalizione aerea contro lo “Stato islamico”, e quindi usufruisce della fanteria sciita, ma al tempo stesso combatte gli sciiti che hanno preso il potere nel vicino Yemen. Non solo, insieme all’Egitto e agli altri paesi della Lega araba, ha appena deciso di creare una forza sunnita di quarantamila uomini chiaramente rivolta contro l’Iran sciita. In quanto a Israele togliere le sanzioni a Teheran non è un errore, ma un crimine. Per Netanyahu l’Iran costituisce la più immediata minaccia per lo Stato ebraico. In questo Israele è lo stretto, obiettivo alleato dell’Arabia Saudita. Per entrambi i paesi l’amica America compie un grave errore se vuole veramente recuperare gli ayatollah. Nel Medio Oriente in preda al caos: in cui i nemici diventano alleati e gli alleati nemici se si cambia campo di battaglia: l’Iran promosso a interlocutore della superpotenza suscita il panico.
Per chi è fedele al principio che la parola è più civile del fucile, e che un’intesa sia pure faticosa è più auspicabile di una guerra sia pure soltanto minacciata, la posizione di Barack Obama è condivisibile. Lo è senz’altro per noi. Il trionfo della diplomazia vale più di cento battaglie vinte. Ma la contabilità nucleare è un esercizio rischioso. Gli sbagli col tempo si pagano. Ed è facile sbagliare se gli interlocutori non si distinguono spesso per la chiarezza. Il leader supremo, l’ayatollah Khamenei, è un enigma. Forse lo è anche per coloro che lo rappresentano al tavolo dei negoziati, con gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, la Francia, l’Inghilterra e la Germania.
Fin dall’inizio del difficile dialogo l’Iran ha chiesto l’arresto immediato delle sanzioni, che colpiscono la vendita del petrolio e le banche, ossia il commercio estero principale risorsa del paese. Gli occidentali hanno sempre insistito per ridurre le sanzioni a tappe, via via che venivano rispettati i termini dell’accordo. La durata di quest’ultimo era un altro vistoso ostacolo. Quindici anni dicevano gli americani, nove - dieci anni gli iraniani. Il numero delle centrifughe, grazie alle quali si arricchisce l’uranio, è da tempo un irrisolvibile rompicapo. Non sono sempre uguali, Alcune sono più rapide e possono accelerare l’eventuale realizzazione di una bomba atomica. Nove mesi invece di un anno? O ancor meno? La contabilità delle centrifughe è dunque essenziale: è strettamente legata alla credibilità degli iraniani che giurano da tempo di voler utilizzare le centrali nucleari soltanto per fare medicinali e non missili. Una soluzione sarebbe di mandare l’uranio arricchito iraniano, essenziale per le armi, in un paese terzo. Ad esempio la Russia. Ma i negoziatori dell’ayatollah Khamenei, successore di Khomeini non ci pensano neppure. Ai tempi della rivoluzione, trentacinque anni fa, si discuteva se nei caricatori dei fucili automatici della polizia incaricata di affrontare i manifestanti dovevano esserci più cartucce vere o di legno. Carter, allora presidente degli Stati Uniti, consigliava lo scià Reza Pahlevi di preferire le seconde, quelle di legno. E cosi Khomeini vinse. Forse avrebbe vinto lo stesso.
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ALBERTO NEGRI, IL SOLE 24 ORE -
Diminuzione dei cavalli e aumento dell’ottimismo, diceva una vecchia canzone: mentre scadeva la deadline di mezzanotte i negoziati sul nucleare iraniano sembravano rallentare inesorabilmente ma allo stesso tempo si moltiplicavano le dichiarazioni che davano l’intesa oramai vicina, anche a costo di prolungare le discussioni oltre il limite previsto. Nei corridoi dello storico hotel Beau Rivage di Losanna non si escludeva neppure la possibilità di una decisiva telefonata tra il presidente iraniano Hassan Rohani e Barack Obama.
Gli Stati Uniti hanno confermato la disponibilità a spostare di un giorno la scadenza per trovare l’accordo. «Abbiamo fatto sufficienti progressi nel corso degli ultimi giorni per meritare di restare fino a mercoledì (oggi, ndr)»,ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato Marie Harf. Uno dei negoziatori iraniani, Hamid Baidinejad, è stato esplicito: «I negoziati vanno avanti finché non saranno garantiti i diritti dell’Iran al nucleare».
I più ottimisti, dopo il ritorno di Serghej Lavrov al tavolo negoziale del “5+1” a Losanna, sembravano i russi. «Le possibilità sono elevate», ha dichiarato il ministro degli Esteri commentando l’ipotesi di concludere la trattativa. Lunedì era ripartito per Mosca avvertendo che sarebbe tornato se si fossero riaperte le possibilità di arrivare a un accordo. «Le prospettive di questo round sono abbastanza buone - ha ribadito Lavrov in un’intervista alla Ria Novosti -. Le chance sono alte. L’accordo è possibile soprattutto se nessuno dei partecipanti aumenta la posta in gioco all’ultimo minuto nella speranza di ottenere qualcosa in più invece di mantenere l’equilibrio degli interessi. E questo equilibrio di interessi - ha aggiunto - si sta ancora formando». L’intesa sarebbe stata raggiunta su una parte delle sanzioni, stando alle parole del ministro russo. «Le sanzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu dovranno essere revocate dopo che il sestetto di mediatori e l’Iran raggiungeranno un accordo».
Era questa la richiesta che aveva avanzato in pubblico la Guida Suprema iraniana Alì Khamenei, massima istanza della repubblica islamica. Secondo fonti diplomatiche le “chiavi” dell’accordo sono nelle mani della Guida. Solo il Grande ayatollah, il Rabhar, può davvero sbloccare il difficile negoziato accettando una revoca non contestuale ma graduale delle sanzioni contro l’Iran. Khamenei avrebbe condizionato la firma alla revoca immediata delle misure prese ai danni di istituzioni, società e persone fisiche iraniane. Ma questa è una condizione non gradita dagli Usa che vogliono una tempistica agganciata ai controlli sulla conversione a scopi civili del nucleare iraniano.
Quanto alle sanzioni unilaterali contro Teheran, ha aggiunto Lavrov, si tratta di una questione tra l’Iran e gli Stati che le hanno imposte. Una notazione assai interessante, se sarà confermata, e che riporta la questione più critica nel campo bilaterale, sottraendola all’accordo politico di Losanna. Forse si tratta di un modo per non mettere in difficoltà l’amministrazione Obama che già annaspa perché ha davanti un Congresso a maggioranza repubblicana inferocito per la possibile intesa con Teheran. Il leader americano è chiamato alla prova più difficile e complessa della sua presidenza. Un riavvicinamento tra Usa e Iran significa rimescolare le carte nel gioco strategico mediorientale con riflessi evidenti nei rapporti con i maggiori alleati di Washington, da Israele all’Arabia Saudita.
Israele ha fatto sentire di nuovo la sua voce. «Sembra che l’accordo di Losanna lascerà all’Iran delle strutture sotterranee, il reattore di Arak e delle centrifughe avanzate» ha detto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Il premier ha aspramente criticato il negoziato. «Secondo le nostre stime - ha affermato - il tempo per creare un’arma nucleare si ridurrà a meno di un anno e forse ancora meno. Ma a Losanna forse si sta accorciando pure il tempo della propaganda, più o meno giustificata, e questo lo sanno bene anche in Medio Oriente.
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ALBERTO NEGRI, IL SOLE 24 ORE -
L’accordo sul nucleare che si negozia a Losanna è uno storico compromesso tra l’Iran e gli Stati Uniti.«Due Stati che possono comportarsi in modo tale da non spendere la propria energia l’uno contro l’altro».
Continua pagina 17
Alberto Negri
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Lo diceva qualche settimana fa a Teheran l’ammiraglio Ali Shamkani, capo del Consiglio nazionale per la sicurezza: se Washington e Teheran fossero arrivati prima a questa conclusione l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, forse non sarebbero oggi in una situazione così tragica e magari anche Israele e l’Arabia Saudita avrebbero meno timori dell’accordo di Losanna.
Per 35 anni, da quel fatale 4 novembre 1979 quando gli studenti rivoluzionari sequestrarono 66 ostaggi nell’ambasciata americana di Teheran, Usa e Iran hanno rotto le relazioni diplomatiche facendo finta non parlarsi anche quando negoziavano in segreto le trame più oscure.
Come testimonia una Bibbia regalata dal presidente Ronald Reagan, che mostra nel suo studio il potente Hashemi Rafsanjani. Gli fu consegnata nel 1986 dal Colonnello Oliver North incaricato di vendere armi a Teheran, allora in guerra con l’Iraq di Saddam Hussein: l’incasso sarebbe andato ai controrivoluzionari del Nicaragua. Tramite un canale israeliano, le armi furono puntualmente consegnate all’Iran. Era il famoso scandalo Irangate, prova dell’ambiguità e della complessità delle relazioni tra Washington e Teheran.
Questa non è soltanto storia ma anche bruciante attualità. Gli Stati Uniti negli Anni 80 sostenevano l’Iraq secolarista di Saddam ma aiutavano anche Teheran per evitare che nessuno uscisse vincitore dalla guerra: era il ben noto “doppio contenimento”. Una strategia ancora viva oggi: gli Usa parteggiano per l’Arabia Saudita e la coalizione araba in Yemen ma negoziano con l’Iran che a sua volta appoggia i ribelli Houthi. Washington vuole bilanciare le forze tra la mezzaluna sunnita e quella sciita che combatte sul terreno in Iraq contro il Califfato. Entrambe servono alla causa americana. Israele questo non lo digerisce perché teme non soltanto una possibile atomica dell’Iran ma soprattutto la sua influenza ai confini che si fa sentire in Libano con gli Hezbollah, nel sostegno alla Siria di Assad e nei rapporti con Hamas.
Le occasioni tra Usa e Iran per ristabilire rapporti normali sono state numerose e alcune di grande peso, anche economico, perché l’Iran, per riserve, è il quarto Paese al mondo nel petrolio e il secondo nel gas. L’ex presidenre Rafsanjani assegnò nel ’94 la prima concessione petrolifera mai accordata a degli stranieri dopo la rivoluzione all’americana Conoco ma su pressione di Israele Clinton stracciò il contratto e proibì gli scambi con Teheran. Iraniani e americani provarono ancora a collaborare con la guerra in Afghanistan del 2001: andò bene, con la nomina di Hamid Karzai, ma poco dopo George Bush jr. inserì l’Iran nell’”asse del male” insieme a Iraq e Corea del Nord.
Il moderato presidente Mohammed Khatami nel 2003 fece ancora di più: sottopose a Washington, in cambio della fine delle sanzioni, un negoziato che comprendeva la trasparenza sul programma nucleare, il disarmo degli Hezbollah e il riconoscimento indiretto di Israele. Ma gli Usa respinsero l’offerta e i duri del regime si convinsero che gli Stati Uniti volessero rovesciare il regime: l’ascesa alla presidenza del radicale Mahmoud Ahmadinejad deve molto a quel rifiuto. Ecco perché di questo storico compromesso oggi non ha soltanto bisogno l’Iran per uscire dalla crisi economica e dalle sanzioni ma tutta la comunità internazionale.
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PAOLO VALENTINO, CORRIERE DELLA SERA -
Tra colpi di scena, ultimatum smentiti e litri di caffè, si è negoziato ancora nella notte all’Hotel Beau Rivage, in cerca di un’intesa sul nucleare dell’Iran, vicina come mai prima d’ora, ma ancora non così completa da poter essere accettata da tutti i partecipanti.
Quando mancavano poche ore alla mezzanotte di ieri, americani e iraniani, i due principali protagonisti della partita, hanno fatto sapere che la trattativa sarebbe sicuramente andata avanti oltre la scadenza indicata.
«Abbiamo fatto progressi sufficienti — così uno dei collaboratori del segretario di Stato Usa, John Kerry funzionario della delegazione Usa — per rimanere qui fino a mercoledì». «Non vogliamo un accordo qualsiasi — ha detto poco dopo Hamid Baidinejad, uno dei capi negoziatori sciiti —. Continueremo a trattare fin quando raggiungeremo un’intesa sui temi ancora irrisolti».
Poco prima della mezzanotte il clima si è improvvisamente inasprito. Fonti diplomatiche dei Paesi 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Regno Unito più Germania) hanno fatto sapere di aver chiesto agli iraniani di decidere entro l’alba di oggi se accettavano o meno l’intesa politica: «Non possiamo andare avanti per altri sei giorni». Ma poco dopo, un membro della delegazione Usa ha smentito la notizia.
Di certo la trattativa è andata in stallo a un passo dallo storico compromesso. Ma cosa lo abbia determinato è difficile da stabilire con precisione. Diverse fonti confermano che ostacoli difficili sono stati già superati, dal numero di centrifughe da lasciare in attività alle riserve di uranio da trasportare in Russia, per trasformarlo in barre combustibili a basso grado di purezza. E in ogni caso da Losanna, nella più ottimistica delle ipotesi, uscirà solo una dichiarazione comune, lunga diverse pagine e corredata di alcune documentazioni tecniche. Conterrà l’ossatura del grande baratto — robuste e verificabili restrizioni alla capacità nucleare di Teheran per 10 anni, in cambio di una progressiva eliminazione delle sanzioni — ma rinvierà alla fine di giugno la firma di un accordo completo.
Come anticipato dal Corriere , Baidinejad ha confermato che le criticità sono legate soprattutto alle sanzioni. Non tanto al calendario di smantellamento, secondo lui già concordato da giorni, quanto ad «altri aspetti». Il negoziatore iraniano è stato volutamente generico. Fonti europee dicono che si tratta del periodo successivo ai 10 anni, quando Teheran vorrebbe subito riprendere attività di ricerca e sviluppo sulle centrifughe di nuova generazione, a fini pacifici insistono gli iraniani, ma gli occidentali insistono per proseguire le restrizioni per altri 5 anni.
Un altro tema controverso, questo interno ai 5+1, è il meccanismo di re-imposizione automatica delle sanzioni, in caso di violazione dell’accordo. Americani ed europei vorrebbero integrarlo nell’intesa, ma Russia e Cina dicono no, chiedendo invece che tutto ritorni al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove possono sempre disporre del diritto di veto.
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PAOLO VALENTINO, CORRIERE DELLA SERA -
Due scienziati e un diplomatico donna. Un iraniano, un americano e una tedesca. Quando la storia segreta della trattativa sul nucleare di Teheran sarà scritta, sarà probabilmente su di loro e sul loro ruolo nella lunga partita negoziale, che gli studiosi appunteranno l’attenzione.
Ernest Moniz è il segretario all’Energia del governo Usa. Ali Akbar Salehi è il capo dell’Agenzia Nucleare dell’Iran. Li separa l’età (il primo ha 70 anni, il secondo 5 di meno) e due profili che non potrebbero essere più diversi: accademico della Ivy League brillante e trasandato il primo, una lunga chioma argentea a coprirgli il collo. Immacolato burocrate della Rivoluzione iraniana il secondo, camicia girocollo abbottonata senza cravatta, già ministro degli Esteri nel governo duro e puro di Ahmadinejad, sospettato dall’Aiea di aver avuto un ruolo diretto nel programma militare, circostanza sempre smentita da Teheran.
Ma questa è solo una parte della verità. Perché i due eminenti fisici hanno in comune non meno di quanto li separi: anche se nel college non si sono mai incontrati, entrambi si sono infatti formati al prestigioso Mit, il Massachusetts Institute of Technology di Boston, dove negli Anni 70 Moniz era assistant-professor al Dipartimento di Fisica, proprio mentre il giovane Salehi studiava per il suo dottorato, che conseguì nel 1977. Erano gli anni precedenti la Rivoluzione khomeinista, quando l’Iran dello Shah era il primo alleato di Washington nel Grande Medio Oriente. Ed erano gli stessi anni in cui, per una di quelle ironie di cui la Storia è maestra, uno studente israeliano frequentava al Mit corsi di business e scienze politiche: si chiamava Benjamin Netanyahu, l’uomo che più di tutti osteggia l’intesa forgiatada Moniz e Salehi.
È stata questa comune radice intellettuale a spingere poco più di un mese fa John Kerry e Mohammad Javad Zarif, i ministri degli Esteri di Stati Uniti e Iran, a integrarli nelle rispettive delegazioni. Sono stati Moniz e Salehi, in lunghe sessioni notturne uno a uno a inventarsi le tante soluzioni tecniche che hanno sbloccato il negoziato. Al punto che, oltre le questioni politiche come il calendario di allentamento delle sanzioni, un solo, vero nodo tecnico è ancora da sciogliere da qui a giugno: la possibilità per Teheran di condurre ricerca e sviluppo, oltre la scadenza dei 10 anni.
E poi c’è Helga Schmid, la donna più alto in grado della diplomazia tedesca, oggi numero due di Federica Mogherini a Bruxelles, dopo esserlo stata di Lady Ashton e aver ricoperto il ruolo di capo di gabinetto di Joschka Fischer, ai tempi del governo rosso-verde. È lei che dal 2010 rappresenta la continuità della presenza europea al tavolo della trattativa dei 5+1 con l’Iran. Il suo motto: «Le donne sono i migliori negoziatori».
Bionda, alta, elegante, sempre con un foulard di Hermes al collo, Schmid conosce ogni dettaglio, anche tecnico, della trattativa nucleare. Gli americani però non l’amano troppo. Non tanto per il negoziato iraniano, dove lei è rigorosa quanto loro, quanto per l’Ucraina. Colpa di una telefonata confidenziale del febbraio 2014, rivelata su YouTube , durante la quale Helga Schmid si lamentava del tentativo Usa di far passare gli europei per arrendevoli nella crisi di Kiev.
Risposta di Victoria Nuland, numero due del Dipartimento di Stato, in un’altra telefonata di servizio resa pubblica: «Fuck the Eu!».
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