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 2015  marzo 29 Domenica calendario

CHI HA PAURA DI UN’INTESA SUL NUCLEARE IRANIANO

La chiave del negoziato con l’Iran, ripreso a Losanna alla presenza dei ministri del Cinque più Uno, si riassume in una formula, assai semplice ma non banale, e in una frase pronunciata qualche tempo fa da Barack Obama. La formula è «nucleare contro sanzioni»: se l’Iran garantisce che il suo programma nucleare resterà esclusivamente civile avrà in cambio lo smantellamento dell’embargo. Ci sono due deadline, una alla fine di marzo, l’altra a giugno: ma la cosa più importante non è la scadenza, che potrebbe anche slittare, piuttosto il significato dell’intesa.
La paura di un accordo con l’Iran, per Israele, l’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo, entrate in guerra con i loro alleati in Yemen, è sintetizzata in una battuta di Obama: «L’Iran potrebbe diventare presto una potenza molto prospera se arrivasse a un accordo», messaggio ribadito in un discorso su Youtube rivolto dal presidente il 21 marzo ai giovani iraniani in occasione del capodanno persiano di Nowruz.
La posta in gioco va oltre la questione delle centrifughe: questo ormai lo hanno capito tutti. L’Iran, in cambio dello sblocco di fondi all’estero per 5 miliardi di dollari, ha già convertito a uso pacifico il 60% del suo stock di uranio arricchito.
Qui si tratta di stabilire il ritorno di Teheran sulla scena internazionale e mediorientale che non soltanto trasforma le relazioni con gli Stati Uniti e l’Europa ma che può ridisegnare la carta geopolitica della regione.
È quello che sostanzialmente non vogliono le potenze sunnite, che hanno deciso di colpire i ribelli sciiti Houthi in Yemen alleati dell’Iran ma si guardano bene dall’attaccare Al Qaeda, il Califfato o di aiutare la Tunisia a difendere la sua vulnerabile democrazia. Il messaggio della coalizione guidata dal re saudita Salman in questa guerra all’Iran e allo sciismo militante è stato chiaro: Riad è pronta a usare la forza per ridimensionare lo status di potenza regionale di Teheran se sarà firmato l’accordo in discussione a Losanna.
Il negoziato sul nucleare ha avvicinato l’Arabia Saudita a Israele come mai è accaduto in passato. Non solo. Israele, come i sauditi, giudica una minaccia che lo Stretto di Bab el Mandeb cada in mano sciita considerando che l’Iran fa la guardia anche allo Stretto di Hormuz sul Golfo. Sia Riad che Tel Aviv, come ha dimostrato il discorso di Benjamin Netanyahu al Congresso, non accettano da parte americana uno sdoganamento di Teheran che modifichi gli equilibri regionali.
In Medio Oriente gli Stati Uniti, in realtà, giocano ambiguamente su due tavoli. Sul fronte sunnita sostengono i sauditi nella guerra in Yemen mentre su quello opposto si appoggiano alle milizie sciite nell’offensiva contro lo Stato Islamico in Iraq.
Tenere impegnati sciiti e sunniti in più conflitti contemporaneamente fa parte della sempreverde strategia di Washington di contenimento degli attori regionali. Accadde anche negli anni Ottanta quando Washington, dopo il sequestro degli ostaggi all’ambasciata americana di Teheran, approvò l’attacco di Saddam Hussein all’Iran di Khomeini ma fece in modo che nessuno dei due uscisse vincitore. Gli iraniani, dopo otto anni di conflitto nelle paludi dello Shatt el Arab ebbero un milione di morti e si ritrovarono ancora più isolati; quanto al raìs iracheno finì indebitato con le monarchie del Golfo dopo avere combattuto una guerra per procura contro gli sciiti persiani e uscì fuori da ogni controllo.
È evidente che lo statuto regionale dell’Iran, dopo la caduta dello Shah, è sempre stato motivo di conflitto. Figuriamoci ora che si vuole persino fare la pace con Teheran, impegnata a difendere il governo sciita di Baghdad e il regime di Assad in Siria.
Gli ostacoli maggiori all’accordo sul nucleare non vengono soltanto dalle potenze regionali ma dall’interno dell’establishment americano. Questa è la vera sfida per Obama, che può sospendere le sanzioni ma non annullarle: mentre si avvicina la scadenza del 31 marzo i senatori repubblicani lavorano a una proposta di legge che imponga al presidente di chiedere al Congresso l’approvazione dell’accordo. L’impressione è che una firma a Losanna potrebbe avere un grande peso diplomatico ma non abbattere il muro della diffidenza e delle destabilizzanti rivalità regionali e settarie.
Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 29/3/2015