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 2015  marzo 29 Domenica calendario

IO, MIO FRATELLO FRANCESCO E GLI ANNI MAGICI DEL FOLKSTUDIO – [Intervista a Luigi De Gregori] – Vino caldo, pop corn e ricordi sfumati: “Negli anni del Folkstudio ero quasi sempre ubriaco, ma l’atmosfera magica di quel posto non l’ho dimenticata”

IO, MIO FRATELLO FRANCESCO E GLI ANNI MAGICI DEL FOLKSTUDIO – [Intervista a Luigi De Gregori] – Vino caldo, pop corn e ricordi sfumati: “Negli anni del Folkstudio ero quasi sempre ubriaco, ma l’atmosfera magica di quel posto non l’ho dimenticata”. Luigi De Gregori ha più di settant’anni e il desiderio di tornare a quando notte e giorno confondevano i profili nell’alba di Trastevere: “Il locale era scomodo. Un basso umido in cui percorrendo un corridoio si giungeva a una stanza quadrata”. Il palco era lì e sul palco suonava chi ne aveva voglia: “Oggi dirlo sembra strano, ma a metà degli anni 60 il Folkstudio era un punto di riferimento dall’enorme valenza internazionale. Gli hippies e i folksinger che bruciavano la cartoline militari che li avrebbero voluti soldati sul fronte vietnamita, fuggivano attraverso il Canada, raggiungevano la Scandinavia e poi, viaggiando verso l’Europa del Sud, arrivavano a Roma per unirsi a quel carnevale estemporaneo”. Dal primo Folkstudio: “Quello ricavato dallo studio del pittore Harold Bradley in cui davanti alla porta di metallo dell’ingresso si affollavano dialetti diversi mossi dalla voglia di suonare e guadagnarsi la cena” tra “i fiori falsi e i sogni veri della friggitoria chantant” nel corso del tempo passarono De André e Rino Gaetano, i ragazzi con il pianoforte sulla spalla di Venditti, Guccini, Bob Dylan e Francesco De Gregori, figlio di Rita e Giorgio, fratello di Luigi. “C’era un bordello ogni sera e solo dopo molte multe da parte dei vigili, qualcuno propose di strutturarsi in associazione. Il programma era sempre estemporaneo e a volte, quando non c’era nessuno, Bradley, un afroamericano dall’esistenza molto avventurosa che mi piacerebbe ringraziare per le tante cose belle che mi ha insegnato, improvvisava. Prendeva un blocco di travertino sotto il pianoforte e lo scuoteva con una mazzetta da muratore mentre la voce vibrava ‘When John Henry was a little baby, sittin’ on his daddy’s knee’. Per decenni, di fronte al mondo, Luigi De Gregori, lunga barba bianca, stivali e giacche da texano a un passo dal rodeo: “Mi sono sempre vestito così, non posso stupirmi se qualcuno si incuriosisce” ha usato il cognome della madre, Grechi: “In fondo non ero andato a pescare molto lontano. Accadde non perché – come sarebbe semplice pensare – con Francesco avessi dei problemi, ma perché li avevo con la mia identità. Temevo il desiderio di confronto da parte del pubblico, la confusione, gli interrogativi oziosi su somiglianze e differenze. Quando ho capito che effettivamente eravamo diversissimi, ho lasciato cadere la distinzione e mi sono riappropriato del mio cognome”. Durante lo scorso Festival della canzone, i due si sono ritrovati insieme su una pedana. Il titolo dell’evento: “Noi non ci Sanremo” era più di un manifesto. Il luogo deputato, “L’asino che vola”, un Folkstudio del 2000 in cui Grechi, ogni due settimane, sempre di martedì, organizza programmazioni utili a far esibire ragazzi senza chiedere patenti o appartenenze certe: “La gente non chiedeva altro, lo spazio è bellissimo, ‘Noi non ci Sanremo’, filologicamente seguiva la stessa linea del Folkstudio di un’epoca lontana”. Di che linea parla? Non di una linea reducistica, se è quello che vuol sapere. Non ho rimpianti feroci né sfrenata voglia di riesumare a ogni costo un periodo felice della mia vita. Di cosa si è trattato allora? Del desiderio di rimettere in moto energie non sopite. Con il Folkstudio ho un debito di gratitudine. Mi ha dato stimoli, fatto conoscere persone che si sono rivelate importanti, spiegato il valore della diversità. Capitavi lì e ascoltavi una soprano cinese seguita da un violinista russo. Negli anni 60 Roma era interessantissima. Piena di artisti in fuga dalle dittature più diverse. Lei che ci faceva? Cercavo di capire cosa avrei fatto nella vita. Sono nato a metà degli anni 40, per puro caso, in un’abbazia benedettina sui colli Euganei. Poi mi sono trasferito a Roma e da lì a Pescara, a Dublino, a Milano. Lavoravo come bibliotecario. Lo stesso mestiere di suo padre, Giorgio De Gregori. Per motivi personali, per non dire esistenziali, mi ero adagiato sul lavoro che in famiglia era ben visto. Mi arresi al posto fisso, in un momento in cui dalle note ero stato già folgorato. Una mia collega aveva un fratello che lavorava alla Emi. Lo conobbi e lui mi spinse a fare dei provini. Dividersi tra gli studi di registrazione e la biblioteca non era semplice. Mi sforzai. Non pianificavo nulla. Andavo a suonare a 300 chilometri di distanza e la mattina, dopo aver guidato tutta la notte, mi ritrovavo tra i volumi. Inseguiva una passione? La musica era uscita dalla porta principale e rientrò da quella di servizio. A quel punto non mi feci più troppe domande. Il suo primo album è del 1976. Nel secondo, intitolato Luigi Grechi, c’erano due canzoni scritte da suo fratello e un elogio del tabacco: “E la nube che produco/cosciente od incosciente/ a confronto di ben altre è quasi niente”. Parlavo di Seveso. Nello stesso giorno in cui esplose il reattore dell’Icmesa e mezza Lombardia venne devastata, Pubblicità progresso diffuse lo spot in cui su sfondo nero si diffondeva un messaggio paradossale: ‘Chi fuma avvelena anche te, digli di smettere’. Mi sembrò una buffonata. Un’ipocrisia spaventosa. E decisi di scrivere l’elogio del tabacco. Su Seveso, al pari di Venditti, scrisse una canzone anche lei. Censurata, con grande dolore, dalla mia casa discografica di allora. Nelle mie canzoni, almeno apparentemente, la politica non c’era. Tra le righe però, la trovavi sempre. C’era politica nel grottesco processo a suo fratello inscenato al Palalido nell’aprile 1976? Ho ricordi precisi e posso dire che si trattò soltanto di una volgare questione di soldi. La politica non c’entrava niente. C’era una lotta per il controllo dei concerti. Una lotta mafiosa. Il servizio d’ordine che sarebbe riuscito a imporsi sugli altri avrebbe avuto in mano la gestione degli eventi e gestire gli eventi, significava avere accesso a un mare di denaro. Come andò quel giorno? Francesco aveva deciso di non affidarsi a nessun servizio d’ordine, neanche a quello della Fgci. Fece due concerti. Uno pomeridiano e uno serale. Alla fine della seconda esibizione, quando gli spettatori normali erano ormai andati via, i 200 contestatori rimasero padroni della situazione. Ci fu un tentativo di invadere il palco. Secondo le cronache si distinsero Nicoletta Bocca, figlia di Giorgio e Gianni Muciaccia in seguito leader dei Kaos Rock. Gianni Muciaccia lo respinsi io mentre si arrampicava sul palco. Nel 1976 facevo politica attiva nel Pci e tra autonomi e ragazzi dei collettivi, conoscevo quasi tutti. A concerto concluso raggiungemmo i camerini. Ci fecero sapere che se non fossimo tornati sul palco avrebbero distrutto le apparecchiature: ‘Spacchiamo tutto’. Tornammo. Ci fu una sorta di processo. Una farsa. Qualcuno disse a Francesco cose dolci: ‘Suicidati come Majakovskij’. Lui diede un paio di risposte precise sui costi del concerto e sul libero arbitrio: ‘Chi è venuto ad ascoltarmi l’ha fatto perché voleva’. Non bastò. All’epoca purtroppo cose del genere accadevano. Erano stati disturbati Lou Reed e, con la minaccia di una bomba, anche De Andrè. Era successo anche a Venditti. Era salito sul palco un tipo: ‘Compagno, devi leggere questo comunicato’ con Antonello fermo: ‘Questo te lo vai a legge’ a casa tua e qui me lasci lavorà’. Complessivamente il Palalido fu una triste pagina, gonfiata ad arte dalla stampa. Colpa dei giornalisti? Con i giornalisti sono abbastanza incazzato. Tendono ad accontentarsi. A raccontare la realtà superficialmente. Nel mio caso, poi, c’è una regola fissa. Prendono il comunicato stampa, lo ricopiano e se sono fortunato piovono anche un paio di domande. Quesiti fondamentali: ‘Di che segno sei?’, oppure, con sforzo massimo: ‘Progetti per il futuro?’. Lei ha studiato letteratura. Americana e inglese, avrei dovuto affrontare anche quella tedesca, ma lasciai perdere. Scrittori contemporanei che ammira? Cormac McCarthy l’ho letto tutto. Non La strada, però. Il suo meglio è altrove. Ha scritto cose deliziose, ma i libri più noti, penso a Non è un paese per vecchi, sono operazioni furbe. Leggendo, sembra di ascoltarlo: ‘Volete il pulp? E io ve lo do, che ci metto?’. Leggere la aiutò a inquadrare la realtà? Attraverso Sinclair Lewis, Steinbeck e un’infinità di altri romanzieri, trasmissioni radio, film e fumetti, dipanai il filo di un’America mitica che con l’America vera aveva poco a che fare. Poi negli Usa, molto tardi a dire il vero, andai. Nel 1982. Mi feci accompagnare da un amico musicista, Peter Rowan. Un viaggio alla Easy Rider? Un viaggio importante perché rimosse il mito e lo trasformò in realtà. Nessun vagabondaggio o sacco a pelo sotto le stelle, però. Partimmo da San Francisco, toccammo Los Angeles, il deserto e poi arrivammo fino al Texas. Tutto in macchina, fermandoci a dormire nei motel. Con Peter parlavamo spesso di musica e della rivoluzione da cui entrambi, a latitudini diverse, eravamo stati investiti nello stesso modo negli anni 50. Quale rivoluzione? Quella del Rock. Sentendo suonare i dischi nelle nostre stanze, i miei e i suoi genitori avevano affrontato la novità con armi simili: ‘Che cazzo è questa musica da negri?’. Non erano razzisti, ma per loro si trattava di baccano e poco più. Fino ad allora, la musica era divisa rigidamente tra classica e pop. E chi faceva musica pop non rinunciava mai all’accompagnamento della grande orchestra. Quando arrivarono quattro scalzacani, quattro ragazzetti che pestavano una batteria, una chitarra elettrica, un basso o un sax, nacque il rock and roll. Lazzaroni che facevano a meno dell’orchestra e che molto prima di farsi crescere i capelli o vestirsi in modo strano, rompevano uno schema. A lei è capitato di romperlo spesso? Di romperlo e di osservare la rottura. A Pescara, dove vissi felice con un arenile sconfinato a disposizione fino alla prima adolescenza, vidi l’esplodere della modernità. Il passaggio tra l’era antica e quella di nuovo conio, lo vissi lì. Mi piaceva. Mi esaltava. Vedevo il progresso muoversi, cambiare forma al presente. Nuove macchine da far correre sull’asfalto, l’uso industriale della plastica, l’arrivo della televisione nei bar con la gente in piedi a vedere Lascia o raddoppia. In Abruzzo, notare il mutamento di una piccola città avviata al mutamento metropolitano, era più semplice di quanto non fosse a Roma dove, storicamente, c’era una certa inerzia. I parenti ingordi che sulla strada di Pescara assalivano il signor Hood cantato da suo fratello erano i vostri? Non direi. Io e Francesco abbiamo avuto un’infanzia lieta. Guardando da vicino altre infelicità, mi sono reso conto di quanto siamo stati fortunati ad avere due bravi genitori. Magari severi, giustamente severi, ma due ottime persone. Ha nostalgia del passato? La nostalgia è un inganno, la storia si ripete e non ci sono parole da rimpiangere. Non è vero che il prima fosse migliore, è solo una rifrazione. Un’illusione ottica. La vita è la vita e a me della vita non fa orrore niente. Dicono: ‘La cultura sta scomparendo’. Senza arrivare a discutere dell’analfabetismo di ieri, non è vero. Se hai gli strumenti passi anche attraverso la cultura massificata. Su Internet, una vera benedizione, trovi di tutto. Però bisogna sapersi muovere. Scegliere. Spotify ce l’ha quasi chiunque, ma chissà perché ascoltano tutti le stesse canzoni. Far rinascere il Folkstudio sotto le insegne de L’asino che vola serve anche a questo? A diversificare? A saper scegliere? Nasce per dare linfa a un diverso approccio che scarti dalla consueta catena di produzione, promozione, distribuzione. Distinguere, altrimenti, è difficile. Non si sente mai discutere di scuola o di tendenza artistica. Anche la sua scuola di provenienza è incerta. La potremmo definire un autodidatta. Le definizioni, come le etichette, sono sempre riduttive. Mi hanno incasellato come cantante country, ma il country di oggi non ha niente a che vedere con il concetto di campagna. Il campagnolo vede gli stessi programmi e compra gli stessi oggetti del cittadino, la vecchia generazione del country parlava in dialetto e ora, come è ovvio, così non parla più. In campagna lei è andato a vivere. Nel Folignate, a Bevagna. Anche se in realtà, mi sento nomade e, non diversamente da Bruce Chatwin, ho ripulsa per qualsiasi domicilio fisso. Il nomadismo è una componente essenziale per musica e letteratura. L’uomo nasce nomade e poi compie il peccato originale trasformandosi in stanziale. Il concetto di proprietà, ad esempio, era del tutto incomprensibile agli indiani d’America. Provavano a spiegarglielo, sempre senza fortuna. Gli sfuggiva, come dovrebbe sfuggire a noi se sotto le mentite spoglie della società integrata, non inseguissimo, non so quanto consapevolmente, la disintegrazione. Sa cosa mi raccontano in campagna? Cosa le raccontano? Che, esattamente come nel folk, nei tempi andati il canto non era separato dalla vita, dalla festa, dalla nascita e dal lavoro. Non c’era separazione. Le feste del raccolto e la mietitura erano baccanali. I contadini si facevano un culo così, ma sapevano anche divertirsi. Il macchinista che muoveva la trebbiatrice spesso veniva da fuori. Era un marinaio di terraferma. Arrivava, faceva strage di donne e poi se ne andava dopo aver piantato debiti e cuori infranti. Della vita in campagna aveva dipinto quadri nitidi anche Rino Gaetano. Eravamo amici fin dai tempi del Folkstudio. I miei preferiti sono quelli che non ci sono più. Rino che riusciva a legare demenziale, sofferenza intima e romanticismo, Ivan Graziani, un grande chitarrista rock con una vena artistica e una voce assolutamente originali e De André. A mio fratello lo presentai io: ‘Fabrizio, stasera vieni al Folkstudio, Francesco ha scritto anche una parodia della Guerra di Piero‘. De André era simpaticissimo. Una sera, in riviera, a una cena con i discografici, sparì agli antipasti e tornò con un clochard un’ora dopo. Lo fece sedere al posto d’onore. Era fatto così. Dopo il successo de “Il bandito e il campione”, scritta da lei e venduta in oltre 500.000 copie, Giovanni Cocconi scrisse che o era stato lei a sbagliare mestiere o più probabilmente i discografici a cui aveva invano proposto il pezzo. A dir la verità, a rifiutare fu solo una persona. E me ne frega talmente poco che mi sono anche dimenticato il suo nome: ‘Sono tutte canzoni intelligenti – disse – ma di questa roba non importa niente a nessuno’. Non covo rancori. Sono lento a scrivere, ho fatto un lungo apprendistato e a fare dischi, suonare ed esibirmi, non ero evidentemente pronto. Ottimi. Ogni tanto mi scambiano per lui o per il fratello di De André. Allora rispondo rapido: ‘Ma no, sono il cugino di Bennato’. A Francesco mi legano le comuni radici. I dischi, le letture, i film. Altri possono interrogarsi sull’ermetismo degregoriano. Io no. La pensiamo in modo simile, esiste un meccanismo di leggibilità reciproca. Il suo lavoro mi piace moltissimo e non lo dico per parentela. Mio fratello, per profondità di scrittura, è il più significativo autore di canzoni che ci sia in Italia. Dublino, una sua canzone, la scriveste insieme. La canzone fu scritta da Francesco e si intitolava Piombino: ‘La gente di Piombino è criminale che a mezzanotte e mezzo chiude i bar’. Aspettava un imbarco per l’Elba e nel buio del porto covava pensieri tristi e malinconici. Aggiunsi qualche strofa. Tutto qui. Ha mai pensato che se oltre alle strofe avesse aggiunto anche De Gregori al suo nome, il suo percorso avrebbe potuto essere diverso? No, non ci ho mai pensato. Lei mi chiede se sono felice. Felice è una parola grossa. Però, a differenza di ieri, al di là delle vittorie o delle sconfitte del mio immaginario, trovo un senso nelle cose. Prima non lo trovavo e mi sembrava di aver perso tempo dietro alle sciocchezze. Forse non è felicità, ma autoassoluzione. E mi va bene così. Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 29/3/2015