Antonio Padellaro, il Fatto Quotidiano 29/3/2015, 29 marzo 2015
CRAXI E IL FORMAT DELL’UOMO SOLO AL COMANDO
L’ultima volta che parlai con Bettino Craxi era il 1998 e lavoravo all’Espresso. Gli telefonai ad Hammamet, fu gentile e alla domanda su cosa si rimproverasse dopo Mani Pulite disse soltanto: “Ho sottovalutato ciò che stava accadendo”. Mi è tornato in mente guardando martedì scorso la prima puntata di 1992, la fiction che va in onda su Sky, quando l’attore che interpreta Antonio Di Pietro sfoglia un giornale che parla di un cinghiale selvatico fotografato alla periferia di Milano e ci fa capire che il vero cinghiale da catturare, anzi il “cinghialone”, come se ne parlava nei giornali, era proprio lui, Bettino. Anche se adesso il Di Pietro autentico nega e dice che “nell’inchiesta quel nome non esisteva”, la verità è che oltre le indagini del pool milanese (e le successive condanne definitive per corruzione e finanziamento illecito) quello stesso nome, in quegli anni, in quella crisi economica e morale devastante fu il principale bersaglio della protesta collettiva, la calamita dell’insofferenza, il capro espiatorio della frustrazione nazionale.Lemonetinecheglitiraronoaddossoil30aprile 1993 a Roma, davanti all’hotel Raphael, furono la colonna sonora di un’esecuzione: Bettino Craxi era l’uomo più odiato d’Italia. Lui che non molti anni prima, nel 1984, dopo la firma del Concordato con la Chiesa, all’apice della presidenza socialista veniva acclamato come il nuovo uomo della Provvidenza. Come era potuto accadere?
Nani, ballerine, garofani e la calca delle tv
“Si vedono uomini cadere da un’alta fortuna a causa degli stessi difetti che li avevano fatti salire”. L’aforisma di La Bruyere apre il libro Processo a Craxi che nel 1993 scrissi con Giuseppe Tamburrano, dividendoci i ruoli. Io che già dai tempi del Corriere della Sera avevo seguito passo dopo passo l’ascesa del leader socialista esponevo le ragioni dell’accusa, quella politica e quella giudiziaria. Tamburrano, politologo socialista che conosceva come pochi la storia del Psi, esponeva le ragioni della difesa anche se nella foga del dialogo ci afferrava il sentimento comune della delusione. Giuseppe ricordava i tempi dell’ascesa e del trionfo, il congresso dell’acclamazione, la piramide quasi divina dell’architetto Panseca, l’esibizione del potere, la calca dei cortigiani, la ressa dei postulanti, il “partito nuovo” degli emergenti e del made in Italy, le Thema e le Mercedes, i Cartier d’oro e le cene al Savini. Ciò che restava dell’antico socialismo dei valori e della testimonianze fu bruscamente emarginato. Riconosceva anche i meriti del primo politico italiano di spicco che aveva capito le tendenze delle democrazie occidentali, nelle quali il confronto non è tra partiti ma tra leader. Ero presente al famoso congresso di Rimini del 1982 quando Craxi dopo aver lanciato lo slogan “Cambiamento” (ma guarda un po’), nell’apoteosi degli applausi, dei garofani agitati al cielo, nella calca delle televisioni impazzite, stretto tra mille fans, invocato da nani e ballerine viene avvicinato da un signore anziano che timidamente prova a mormorargli: “Bettino sono un vecchio compagno...”. E lui sarcastico e tra le risate della corte: “Che sei vecchio lo vedo”. Forse fu lì che cominciò la discesa.
La storia si ripete: dal Caf al Patto del Nazareno
Fateci caso, nel 1976 al Midas di Roma, superhotel all’americana appena inaugurato sulla via Aurelia, un giovanotto corpulento in jeans approfitta delle ruggini tra i capicorrente e di qualche fortunata carambola per farsi eleggere segretario del Psi reduce da un mediocre 9,6 nelle stesse elezioni politiche del Pci trionfante al 34,4%. Prende il posto di Francesco De Martino, laconico buddha napoletano che non intende smacchiare il giaguaro comunista e che anzi teorizza l’unificazione Psi-Pci: il che per il partito di Pietro Nenni significa farsi annettere punto e basta. Fate caso alla situazione dei socialisti italiani: federazioni paralizzate dalla lotta fra le correnti, dirigenti in guerra perenne; sezioni degradate a terminali di questo o di quel boss; un corpo di militanti ridotti a servi della gleba dei signori delle tessere; una struttura chiusa, burocratica, polverosa. Vi ricorda per caso il Pd di Bersani? E poi la stessa parola d’ordine sul Cambiamento che non è ancora la Rottamazione che verrà ma il senso è quello. La stessa presa di potere del partito con un blitz che non farà prigionieri. Lo stesso scontro interno con una sinistra interessata unicamente alle proprie rendite di posizione e che il giovanotto prima divide e quindi incamera grazie a qualche strategica poltrona come le Partecipazioni statali a Gianni De Michelis e i Trasporti a Claudio Signorile (e il giovane Incalza). La stessa immagine di un partito ringiovanito, di una forza nuova, rinnovatrice che entra in campo sgomitando e scalciando. Poi, la stessa rapida conquista di Palazzo Chigi. Lo stesso disprezzo per il Parlamento retrocesso a ente inutile. La stessa corsa a salire sul carro del vincitore. La stessa sudditanza dei giornaloni. Lo stesso disegno per mettere sotto controllo la Rai. La stessa guerra alla Cgil. Lo stesso spirito d’intesa con la Confindustria. Allora, il taglio di 4 punti della Scala mobile. Oggi, la modifica dell’art. 18. Lo stesso asse di potere con la destra. C’è molta differenza tra il Caf di Craxi con Forlani e Andreotti e il patto del Nazareno di Renzi con Berlusconi? E ancora, la stessa insofferenza per i giornalisti “dei miei stivali”: quei pochissimi senza collare che quarant’anni dopo nella versione tweet diventeranno “gufi” e “sciacalli”. A parte la stazza e i vestiti sformati, molte le analogie con un altro giovanotto che verrà e che nei giorni del Midas aveva appena un anno. Certo che Matteo Renzi non è Bettino Craxi, né glielo auguriamo per come è finita quella storia. Certo, saprà guardarsi dalle degenerazioni del sistema: quello dei “bilanci falsi di tutti i partiti che tutti sapevano” come ammise il cinghiale ferito nel famoso interrogatorio nell’aula milanese del processo Cusani. Anche perché rivisitato su Youtube quel confronto tesissimo con il pm Di Pietro trasmette un senso di sgomento, di dramma incombente che nessuna fiction potrebbe mai restituirci. Le colpe storiche e giudiziarie di Craxi restano intatte ma oggi lui quasi giganteggia a confronto dei tanti, troppi “tangentopolini” nel formaggio del ventennio successivo, senza dignità e senza verità.
Il percorso iniziale di Renzi può somigliare a quello di Craxi perché entrambi nascono a sinistra per spaccare la sinistra. Ma anche no per il diverso contesto politico oltreché temporale nel quale si svolgono le due vicende. Esiste tuttavia una coazione a ripetere insita nel sistema italiano, quasi una malattia congenita e recidiva, tra corsi e ricorsi, che comincia con il ventennio mussoliniano e attraversa quello berlusconiano. È il format dell’uomo solo al comando che rapidamente sale e repentinamente precipita. Reso cieco dalla sua stessa superbia e arroganza, mal consigliato, infine abbandonato e tradito finisce per “sottovalutare” i segnali dell’incombente disastro. Ma qui si torna al punto di partenza.
I conti con la fine: tradimenti, falsi amici e cricche
Il più pesante atto d’accusa sull’opportunismo di Giuliano Amato non è contenuto negli articoli del Fatto Quotidiano, che l’ex Dottor Sottile cerca di trascinare in tribunale con una voluminosa querela. Bensì nelle pagine di un libro dal titolo: Io parlo e continuerò a parlare, note e appunti di Bettino Craxi sull’Italia vista da Hammamet (vedi sotto e a fianco). Neppure questo il cinghiale ferito aveva previsto: che un sistema di potere, il suo, che sembrava edificato sulla pietra, e che lungo un quindicennio aveva resistito perfino all’ostilità di Ronald Reagan e della Casa Bianca, si sbriciolasse nell’arco di poche settimane. “Bettino come Benito”, scrisse all’inizio della frana Valentino Parlato sul manifesto: “Come Benito Mussolini? No, come il Benito Cereno di Melville, comandante fittizio di una nave ammutinata, ostaggio nelle mani di un equipaggio in rivolta”. Poi, nella latitanza tunisina subentra la solitudine, la rabbia, la voglia di regolare i conti con i falsi amici e con la storia. Ne fa le spese anche il “migliorista” e futuro capo dello Stato, Giorgio Napolitano in una sorta di chiamata di correo (vedi a fianco). Mentre il nome di Claudio Martelli, il brillante delfino, l’unico autorizzato a rifornirsi nel frigorifero di casa Craxi (secondo la fulminante battuta di Anna Craxi) è relegato in una nota a margine che è peggio di una condanna. Infine i conti con se stesso e una frase che suona come epitaffio: “Io non conosco la felicità. La mia vita è stata una corsa a ostacoli, e non mi sono mai fermato per dire a me stesso ora sei un uomo felice. Bettino Craxi”. Felici non lo sono stati e non lo sono neppure gli italiani derubati da Tangentopoli e poi derubati ancora dalle cricche nella indecente spoliazione della ricchezza nazionale proseguita fino ai giorni nostri, senza apparenti ostacoli. E purtroppo questa non è fiction.
Antonio Padellaro, il Fatto Quotidiano 29/3/2015