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 2015  marzo 29 Domenica calendario

MICHELE MARIOTTI

BOLOGNA
Bisognerebbe fare il tifo perché resti in Italia, nonostante gli impegni, le lusinghe che arrivano dall’estero: Londra che lo ha celebrato, lo scorso dicembre, come un big dopo il concerto schumanniano al Covent Garden; New York che a metà febbraio con una pagina del New York Times e una valanga di applausi ha decretato il suo trionfo al Met per l’esecuzione di La donna del lago di Rossini con Juan Diego Flórez, Joyce DiDonato, Daniela Barcellona. Contrariamente all’attuale andazzo, però, Michele Mariotti, almeno per ora, ha deciso di restare.
Direttore d’orchestra tra i migliori della nuova leva italiana, ha accettato con entusiasmo l’incarico di responsabile musicale del Comunale di Bologna fino al 2018 — con il sovrintendente Carlo Sani e il direttore artistico Fulvio Macciardi fanno uno dei migliori team artistici dei teatri italiani — e a Bologna ha preso casa, un appartamento in un signorile e antico palazzo del centro città, a due passi dal teatro, che considera la sua tana. Ha trentacinque anni e sembra un ragazzino: il viso tondo, il sorriso soave, l’aspetto da giovane perbene. Sembra subito uno velocissimo, ambizioso, serio. Nel salotto, elegante e molto tradizionale c’è il pianoforte e, sul tavolo, aperta, una partitura. «Se vuoi dirigere bene un’opera o un concerto devi studiare e non solo la partitura, ma anche il libretto, la storia, le radici culturali di quello che esegui», spiega e farebbe felice Riccardo Muti che considera la cultura un elemento necessario per un buon direttore d’orchestra.
Di Mariotti si sente solo parlar bene, «allora c’è qualcosa che non va!», ride. «Io penso che il mio vero merito sia di non aver avuto fretta. Se riguardo il mio cammino finora, c’è un percorso costante. Arrivare sul podio è facile. Restarci è difficile. Io ho inaugurato il Comunale nel 2007 con un Simon Boccanegra che era la mia quarta opera. Mi vengono ancora i brividi a pensarci. Andò bene tanto che Marco Tutino, l’allora sovrintendente, mi offrì la carica di direttore musicale. Dissi di no. Non tanti avrebbero rifiutato. Ma io credo che la carriera del direttore d’orchestra non sia come quella di un atleta. Qualche anno fa vidi Federer giocare contro Djokovic: vinse quest’ultimo e tutti dissero “Per forza Federer è ormai vecchio”. Aveva trentadue anni. Io, a trentacinque, sono considerato giovane».
La storia di Mariotti racconta un misto di passione, dolore, entusiasmo, determinazione ma anche destino. Suo padre è Gianfranco Mariotti, storico sovrintendente del Rof, il celeberrimo Rossini Opera Festival, tra le più importanti manifestazioni italiane e uno dei luoghi della rinascita interpretativa di Rossini (la prossima edizione sarà dal 10 al 22 agosto). «La mia principale attività da ragazzo era il basket. Giocavo a pallacanestro dieci mesi l’anno, poi arrivava il festival e volevo fare il direttore. L’estate era per me l’odore del palco dell’orchestra che era proprio, guarda caso, quella di Bologna che oggi dirigo, i musicisti con cui sono cresciuto... La fissazione per il podio l’ho avuta fin da piccolo. Costruivo le bacchette con gli spiedini, e crescendo, confesso anche di averne rubate ai direttori che venivano al festival. A Carlo Rizzi, David Eric Robertson... A Renzetti e a Daniele Gatti le ho chieste. Le prendevo e poi dirigevo in camera mia». Entra — «con fatica perché non avevo studiato» — al Conservatorio di Pesaro, ma nel 2001 si iscrive anche al corso di direzione d’orchestra dell’Accademia Musicale Pescarese dove si diploma nel 2004 con Donato Renzetti. «Invece al Conservatorio mi sono diplomato solo in composizione con Manlio Benzi, perché mentre studiavo nel 2005 mi proposero di dirigere il Barbiere a Salerno e io accettai». In questi dieci anni da Salerno è volato a Bologna, alla Scala, Torino, Firenze, Barcellona, Parigi, Liegi, Mosca, Tokyo, New York, Los Angeles, Washington... Ora è in partenza per Monaco dove dirigerà un concerto, in giugno esordirà sul prestigioso podio della Gewandhaus di Lipsia, tra tre anni sarà a Chicago con Bohéme, mentre a Bologna (dove in questi anni lo hanno acclamato con La gazza ladra, Idomeneo, Carmen, La Cenerentola, La Traviata, Il prigioniero, Le nozze di Figaro, Norma) si aspetta un nuovissimo Flauto magico anche per l’allestimento degli sperimentali Fanny e Alexander.
E il basket che fine ha fatto? «Non credo che mi stiano rimpiangendo. Ero bravino, ma non sono alto e oggi senza l’altezza nella pallacanestro sei fuori. Poi sono arrivati i problemi alla schiena dovuti al lavoro sul podio. Sono stato per un po’ ultras della Scavolini, poi sono passato al calcio, tifo Juve, gioco a tennis e vado in bici. A Pesaro ci sono delle bellissime ciclabili sulla spiaggia». I suoi autori preferiti restano Rossini e Verdi. «Non ho la presunzione di dire che so come si fa Rossini, che ho seguito tutta la vita, ma so come non si dovrebbe fare. La tradizione lo ha cambiato e violentato, ma per fortuna viviamo e godiamo dei benefici della rivoluzione di Claudio Abbado e Alberto Zedda della fine degli anni Sessanta che ci restituirono un autore più mozartiano, pulito, più concettuale e profondo. Cosa che servirebbe anche per Donizetti che ancora rischia di passare per grossier e un po’ bandistico. Quanto a Verdi è teatro puro. Verdi ti smaschera, ti mette a nudo, la musica è già una messa in scena, la parola, i silenzi che in musica contano. Ricordo ancora l’emozione di una Cavalleria rusticana diretta da Muti dove lui faceva cantare piano la morte di compare Turiddo».
Sul tavolo squilla il cellulare. Dal display lampeggia la scritta “meine Liebe”, amore mio. «È il cellulare tedesco di mia moglie, sta lavorando in Germania», dice. La moglie è il soprano Olga Peretyatko che molti considerano la nuova Netrebko, bella, luminosa e di successo. Si sono conosciuti a Pesaro nel 2010 per il Sigismondo e due anni dopo si sono sposati. «Non è stato un colpo di fulmine, il nostro. Lei era già sposata, io avevo una compagna e un figlio. Ma la fortuna di essere russa è che divorzi in un mese e mezzo. Siamo una coppia un po’ particolare. Ognuno con la sua carriera, in giro per il mondo... La nostra casa è questa, a Bologna. Trasferirmi? No. Non andrei mai per esempio a vivere negli Stati Uniti. Mi mancherebbe il bar, il giornale, la piazza... Partire da casa è sempre una guerra per me». Con Olga lavoreranno insieme ne I puritani il 14 aprile al Regio di Torino. «Ci sarà sempre qualcuno che dirà “l’ha chiamata il marito”, colleghi cui dà fastidio il successo, le carriere degli altri. Ma è una piccineria solo italiana. Noi siamo maghi nel rovinare tutto, basta ricordare le assurde polemiche dell’anno wagneriano e verdiano. In Germania senza far polemiche non c’è stato un teatro che ha fatto Verdi, da noi solo litigi perché se facevi Verdi dimenticavi Wagner. Provinciali ». E allora perché scegliere Bologna invece che una grande città straniera? «Stare a Bologna non l’ho visto come una perdita di occasioni ma come una possibilità per maturare più velocemente. Qui c’è un’orchestra di qualità, con cui posso fare sinfonica e operistica, un’orchestra che conosco e mi conosce fin da ragazzino. Per tutti sono “Michele” e non lo vedo come perdita di autorevolezza perché il direttore non è un solista, non esiste senza gli altri. Nonostante la crisi della lirica in Italia, io sono ottimista. Il problema è che da noi il teatro, a differenza di Londra, Berlino, New York, ha perso il ruolo identificativo nella vita sociale. C’è da lavorare perché torni ad avere una funzione centrale nelle nostre vite e io sono fiducioso. Forse noi più giovani serviamo anche a questo». Alla generazione dei più grandi si rivolge con ammirazione o polemica? «Per carità. Non bisogna far la guerra a nessuno, figuriamoci ai Muti, agli Abbado, ai Gatti... C’è bisogno di queste personalità. E noi dobbiamo stare nel loro solco. Confesso che una volta in quel solco ci stavo con più paura. Oggi ho meno ansia. Mi sento finalmente calmo».
Anna Bandettini, la Repubblica 29/3/2015