Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  marzo 29 Domenica calendario

LE LETTERE DI ANNA FRANK

In poche settimane cessò di essere una bambina. Non solo nel corpo, costretto a una dolorosa convivenza anche con estranei, otto persone in sessanta metri quadri, giorno e notte sempre insieme, e quasi sempre in silenzio, nascosti dietro la libreria girevole al numero 263 della Prinsengracht. Ma anche nella testa la quattordicenne Anna divenne improvvisamente un’adulta. Una metamorfosi accelerata dalla guerra e dalla paura, perché il buio ti fa scavare dentro alla ricerca di un senso. E la letteratura può essere un buon rifugio, anche migliore di quello segreto dove la famiglia Frank aveva trovato riparo. “Il libro dei bei pensieri”, così decise di chiamarlo. Un registro di contabilità donatole dal padre Otto, dove prese l’abitudine di annotare le parole degli altri. Classici e minori, Tommaso Moro, Shakespeare e Goethe, ma anche una scrittrice come Alice Bretz, completamente cieca, capace però di trovare la luce nella malattia. «Finché esiste la bellezza, perché mai un uomo dovrebbe sentirsi solo?», annota Anna nel quadernone. Non c’è la riposta perché non c’è neppure la bellezza, in un’Amsterdam assediata dai nazisti nel 1943.
Non è voluminoso “Il libro dei bei pensieri”. Solo trenta citazioni che però accendono una nuova luce su Anna, sottratta alla condizione di vittima e restituita alla pienezza della sua vita intellettuale prima della tragedia. Non più solo l’autrice del Diario, testimonianza del genocidio ebraico e parte irrinunciabile delle memorie del mondo. Ma anche una grande lettrice, compulsatrice irrequieta e sorprendente di testi che s’interrogano sulla pace e la guerra, sulla giustizia e l’utopia, sul libero arbitrio e la schiavitù. Il merito dell’opera omnia, ora tradotta per la prima volta in Italia da Einaudi nel settantesimo anniversario della morte, è proprio quello di consegnarci la fotografia di Anna prima del mito, prima di farsi simbolo di una storia grande che ha finito per inghiottire tutto. Un ritratto che parte da lontano, dalle lettere di una bambina giocosa e arguta, incline agli scherzi e ai
valzer sul ghiaccio. E molto vanitosa.
Anna fu l’ultima ad arrivare nell’appartamento in Merwedeplein, ad Amsterdam, nella primavera del 1934. L’avevano preceduta i genitori insieme a Margot, la sorella maggiore di tre anni. Erano dovuti scappare da una Francoforte divenuta ostile alle famiglie ebree. Grazie allo zio Erich, il padre Otto era riuscito ad aprire la sede olandese della Opekta, una ditta alimentare. La vita agli inizi non era affatto male. Anche le prime missive alla nonna paterna Alice, rifugiata in Svizzera con la figlia, restituiscono i rituali di una famiglia borghese in un bel quartiere affollato di immigrati tedeschi. La mattina a scuola, metodo Montessori. Nei giorni di festa un salto alla pista di pattinaggio, il momento prediletto da Anna. E poi i compiti a casa, la collezione di cartoline, lo studio delle lingue, le nuove amicizie, anche la scoperta di un mondo maschile in cui non appare a disagio («i ragazzi non mi mancano»). Insomma una felice quotidianità vissuta con piglio sicuro, a tratti impertinente, soprattutto nel confronto con Margot, più studiosa e riflessiva. Una differenza che non passa inosservata alle maestre. Molti anni più tardi, un’insegnante avrebbe confessato che il celebre diario se lo sarebbe aspettato da Margot, non da Anna.
La tonalità allegra e spensierata è destinata a spegnersi nel settembre del 1939, con l’inizio della guerra, e nove mesi più tardi con l’invasione nazista dell’Olanda. Sono solo rapidi accenni, nelle lettere alla nonna Alice, che però disegnano l’angoscia di quei mesi: le finestre oscurate, il pattinaggio artistico rimandato a tempi migliori, il padre che va a vivere nell’ufficio sulla Prinsengracht. Anna non lo dice espressamente, forse non lo sa neppure, ma si tratta di una precauzione adottata da Otto per allontanare i sospetti dalla sua famiglia. Nell’estate del 1942 arriva improvvisa la chiamata per Margot: deve presentarsi il tal giorno in un certo luogo per essere portata in un campo di lavoro. Non c’è più tempo da perdere. Il padre aveva già preparato da tempo l’alloggio segreto nella sede della Opekta. La famiglia Frank si trasferisce al primo piano dell’elegante palazzo. Ne sarebbe uscita due anni dopo. In compagnia delle SS.
Di quel periodo sappiamo già tutto grazie al Diario, che documenta la capacità di elaborazione maturata precipitosamente dalla ragazza. Una consapevolezza — scopriamo ora — nutrita da innumerevoli letture lumeggiate per la prima volta dal nuovo volume einaudiano. In fondo anche Anna è una “ladra” di libri, mandante segreta di Miep Gies, l’eroica collaboratrice di Otto che procura alla famiglia Frank non solo cibo e medicine ma anche una biblioteca clandestina. «È Anna a ordinare i titoli che Miep acquista in libreria o prende in prestito negli scaffali pubblici», ci racconta Frediano Sessi, curatore dell’edizione critica del Diario. «Qualche volta li sceglieva lo stesso Otto, industriale colto che aveva in carico l’educazione delle figlie». Non sembra composta a caso la libreria di casa Frank. Un gioco di rimandi tra filosofia, antropologia e teologia nel quale trovare significato e conforto per la tragedia del presente. “Se non morire è l’unico obiettivo della vita, che cos’è per il popolo la bellezza della primavera? Niente! Un cielo stellato? Niente!
Cos’è l’arte per il popolo? Niente!”. Sono i versi dello studioso Eduard Douwes Dekker, critico verso gli aspetti più crudeli del colonialismo olandese: come pseudonimo aveva scelto un verso di Ovidio, Multatuli, ovvero “ho sopportato molte cose”. Sopporta molte cose anche Anna, costretta alla reclusione, a una convivenza litigiosa, al silenzio. Cerca il suo posto nel mondo attraverso le parole, scritte e lette. S’interroga su Dio e sul mestiere delle armi, sul dialogo tra Galilei e Bellarmino (tratto da Il titano di Harsanyi) e sull’utopia di Moro. Anche la morte rimbalza nelle sue letture, inseguita e schivata, e alla fine accolta perché “come può il creato essere sempre nuovo e giovane, se non elimina esso stesso le vecchie forme? (dal Canto eterno di F.J. de Clercq Zubli)”.
Il creato eliminò anche lei, anche se non era ancora “una vecchia forma”. La prelevarono nell’agosto del 1944, appena quindicenne. L’ultimo suo “bel pensiero” porta la data di maggio. «Chi non sa ascoltare, non sa nemmeno raccontare». Non c’è una fonte, forse era un pensiero tutto suo. Lei aveva ascoltato le voci del mondo, anche per questo ha saputo raccontarle.
Simonetta Fiori, la Repubblica 29/3/2015