Giampaolo Pansa, Libero 29/3/2015, 29 marzo 2015
L’ITALICUM DI RENZI? L’HA INVENTATO IL DUCE
Ma a chi assomiglia questo Matteo Renzi che si propone di diventare il padrone politico dell’Italia? Le risposte, e i confronti, ormai si sprecano. Non assomi-
glia a nessuno, è un impasto originale del bullismo fiorentino e dell’astuzia che ha sempre connotato i cervelli della città gigliata. No, è un figlioccio di Sil-
vio Berlusconi, il Royal Baby descritto da Giuliano Ferrara. Macché, è quasi un gemello di Benito Mussolini. Lo dice la voglia spasmodica di una nuova legge elettorale super maggioritaria, l’Italicum, un desiderio ritornato prepotente in questi giorni.
Anche il capo del fascismo voleva una legge elettorale all’incirca per la stessa ragione che muove Renzi. Era andato al potere nell’ottobre 1922 grazie a un colpo di Stato deciso dal re Vittorio Emanuele III. E aveva bisogno della legittimazione che poteva venirgli soltanto da un voto popolare, con un consenso ben più ampio di quello raccolto nel 1921, prima della marcia su Roma. Al tempo stesso voleva il controllo assoluto della Camera dei deputati, mentre il Senato era di nomina regia.
Per di più, all’interno del Partito nazionale fascista stavano emergendo dei contestatori del Duce. Erano episodi isolati, ma avevano come protagonisti non semplici militanti, bensì alcuni capi dello squadrismo. Uno era Cesare Forni, il ras della Lomellina, che nella fase dell’espansione fascista aveva guidato le camice nere dell’Italia del nord ovest. Un altro era Alfredo Misuri, leader dello squadrismo in Umbria. Eletto deputato nel 1921, due anni dopo, il 29 maggio 1923, pronunciò a Montecitorio un discorso che definì «di opposizione fascista».
Misuri sostenne che Mussolini aveva l’obbligo di garantire agli italiani elezioni politiche libere. Il «nucleo sano» dell’opposizione non andava stroncato, poiché rappresentava «un correttivo benefico» all’azione del governo. Il Duce non doveva chiedere i pieni poteri, bensì sciogliere la Milizia e impedire che il partito si sovrapponesse allo Stato.
Quel 29 maggio Mussolini non sedeva alla Camera, ma seppe tutto da Italo Balbo e da Cesarino Rossi che si erano precipitati a riferirgli il discorso sentito a Montecitorio. Il capo del governo s’imbestialì: «Il partito non può tollerare una requisitoria come quella di Misuri. Bisogna punirlo subito, oggi stesso!». Balbo gli garantì che ci avrebbe pensato lui.
La sera del 29 maggio, Misuri venne aggredito nei pressi di Montecitorio.Tre squadristi lo pestarono duro. Poi lo ferirono con una pugnalata. Due anni dopo Misuri fu arrestato e spedito per cinque anni al confino nell’isola di Ustica. Perse anche la cattedra di Zoologia all’università di Perugia. Quando ritornò in libertà, era destinato a morire di fame. Poi grazie al capo della polizia, Arturo Bocchini, trovò un posto da impiegato presso la Gazzetta del Popolo di Torino.
I CONTESTATORI DEL DUCE
Cesare Forni era destinato a essere ucciso. Il ras lomellino era colpevole due volte. Non soltanto perché criticava Mussolini. Aveva anche osato presentarsi alle elezioni con una lista di dissidenti, i Fasci nazionali. Il 12 marzo 1924 fu aggredito alla Stazione Centrale di Milano da una banda guidata da Albino Volpi e Amerigo Dumini.
Non riuscirono ad accopparlo perché Forni era un colosso alto due metri. Venne ferito, ma ritornò a Mortara sulle proprie gambe.
In quel momento l’Italicum di Mussolini era già pronto a colpire. Il percorso per arrivare
a quella legge capestro fu rapido. Il 25 gennaio 1924, Vittorio Emanuele
III firmò il decreto che scioglieva la Camera dei deputati e il governo Mussolini fissò al 6 aprile il giorno delle elezioni. Era un voto truccato gra-
zie a una legge che ebbe poi il nome del suo presentatore: Giacomo Acerbo, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Prevedeva che i due terzi dei seggi di Montecitorio sarebbero andati al partito di maggioranza relativa. Ossia al Partito nazionale fascista.
Alla fine di gennaio Mussolini scelse la commissione
che doveva compilare gli elenchi dei candidati governativi. Era composta da cinque uomini di assoluta fiducia del Duce: Francesco Giunta, Aldo Finzi, Cesarino Rossi, Michele Bianchi e Acerbo. Venne chiamata la Pentarchia e si mise subito all’opera per dar vita al famoso Listone.
Era una massiccia coalizione di fascisti, liberali, nazionalisti, democratici, dannunziani, combattenti, popolari in rotta con don Luigi Sturzo. In tutto 356 candidati, vagliati nome per nome in lunghe sedute rissose. Nel suo primo discorso elettorale, Mussolini dichiarò che il voto di aprile doveva certificare la sconfitta definitiva delle opposizioni di sinistra, i socialisti e i comunisti. Era il suo obiettivo e lo raggiunse.
Il Listone ottenne il 64,9 per cento dei voti validi e mandò a Montecitorio tutti i 356 candida-
ti. A questi si aggiunsero altri diciannove eletti nelle liste di disturbo filofasciste. Alle opposizioni rimasero le briciole. I popolari di Sturzo conquistarono appena 39 seggi, i socialisti unitari 24, i socialisti massimalisti 22, i comunisti 19. A travolgerli
furono i 4 milioni e 305 mila voti fascisti, raccolti soprattutto nell’Italia centrale e meridionale. Mentre nelle regioni settentrionali, in Piemonte, Liguria, Lombardia e Veneto, gli oppositori ebbero più consensi dei fascisti: un milione e 317 mila voti contro
un milione e 194 mila.
LA STABILITÀ
Il trionfo dell’Italicum di Mussolini stabilizzò il regime. Ma il dopo elezioni non fu per niente pacifico. Il 10 giugno 1924 venne rapito e ucciso Giacomo Matteotti. Quattro ministri del nuovo governo, tra questi il filosofo Giovanni Gentile, si dimisero invocando la conciliazione nazionale. Il 18 giugno fu arrestato il segretario amministrativo del Pnf, Giovanni Marinelli, accusato di complicità nel delitto Matteotti. Il giorno successivo si dimise Luigi Freddi, capo dell’ufficio stam-
pa del partito. Ma il colpo più pesante lo su-
bì Aldo Finzi, il sottosegretario al ministero dell’Interno. Il 6 aprile era stato rieletto deputato nella circoscrizione venetotrentina con trentamila preferenze. Il doppio di quelle raccolte da Alcide De Gasperi, candidato per il Partito popolare di don Sturzo, e sei volte quelle di Matteotti. Aveva 33 anni e si sentiva sulla cresta dell’onda. Ma la mattina del 14 giugno ricevette al ministero la visita improvvisa di Acerbo. Il sottosegretario lo informò che Mussolini aveva bisogno di allentare la pressione degli antifascisti che lo accusavano di aver ordinato il sequestro di Matteotti. Per questo il Duce gli chiedeva di dimettersi dall’incarico, «per il momento».
Sbalordito, Finzi si recò subito a casa di Mussolini. Il capo del governo abitava in un grande e cupo appartamento a Palazzo Tittoni, che sorgeva in una strada destinata a diventare famosa: via Rasella, il luogo dell’attentato del marzo 1944. Mussolini non volle sentir ragioni e Finzi fu costretto a dimettersi. A poco a poco, scomparve dalla vita pubblica. E vent’anni dopo anche lui venne fucilato alle Fosse Ardeatine, come antifascista ed ebreo.
Dedico questa rievocazione a Matteo Renzi e ai suoi nel Pd. State attenti all’Italicum. Questa legge che distrugge le opposizioni può portare male, molto male.