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 2015  marzo 29 Domenica calendario

PER AVERE UNA VERA RIPRESA BISOGNA RIPENSARE IL WELFARE

Le piccole scintille di crescita che vedete, o che qualcuno vi decanta, non sono i sintomi di una ripresa strutturale, per ora c’è nessuna inversione di tendenza. Anzi, anche nel favorevole contesto internazionale, l’Italia continua a far peggio del resto d’Europa (per l’Ocse nel 2015 farà lo 0,6% contro la media Ue dell’1,4%). Ma, soprattutto, si aggiunge un ulteriore allarme. Per la Bce, infatti, anche se dal 2017 la crescita dell’eurozona potrebbe attestarsi intorno al 2%, la disoccupazione difficilmente scenderà sotto il 10%, un tasso che dovremo, nostro malgrado, considerare «naturale». Milioni di senza lavoro cui sommare chi un impiego nemmeno lo cerca, chi trova solo lavori parziali e chi è parcheggiato in cassa integrazione senza ritorno. Gli Stati Uniti sono entrati in crisi prima di noi, hanno lanciato il quantitative easing prima di noi, sono tornati a crescere prima di noi e hanno anche risolto il problema della disoccupazione prima di noi (5,5%, contro il nostro 13%), rifiutandosi di archiviare la crisi senza aver affrontato la jobless recovery, una ripresa che non crea lavoro. Ciò può derivare sia da una crescita più impetuosa della nostra, sia da una diversa strutturazione del mercato del lavoro. In entrambi i casi, però, dovremo almeno provare a “rubare” loro qualcosa. Se negli Usa la disoccupazione è scesa principalmente per l’incremento del pil, allora l’eurozona dovrà crescere ben più del 2% considerato come traguardo cui ambire. E dunque l’Italia non può
certo accontentarsi del segno più davanti ad uno “zero virgola”. Se, invece, il merito fosse di una diversa struttura del mercato del lavoro, sarà necessario agire in tal senso. Noi con il Jobs Act ci abbiamo provato, ma molto resta da fare. E chi sbandiera l’incremento dei contratti a tempo indeterminato ora registrato - buono in percentuale, modesto in valore assoluto - come figlio della riforma, oltre ad essere o ignorante o in malafede, rischia di far credere che da riformare non ci sia più niente. Quindi, dovremo abituarci a convivere con la crescita senza occupazione - almeno fino a quando non avremo rilanciato la produttività (dal 2000 nell’eurozona è cresciuta del 9,5%, da noi dell’1,5%) e avremo imparato che «il miglior modo per tutelare non è proteggere dal rischio di perdere il lavoro, ma garantire conoscenze più efficaci» (Draghi) - e prepararci ad affrontare le conseguenze di questo fenomeno. Per esempio, ripensando il welfare, coperta perennemente troppo corta. Il modello della flexsecurity ha mostrato la sua efficacia, non fosse altro per i tanti ragazzi che fuggono nel Nord Europa attratti da un sistema che li protegge e li difende, e che qui si sognano. Introdurre politiche attive di sostegno al lavoro, rompere la dicotomia tra ipergarantiti e non garantiti, proteggere il lavoratore (o ex) e non il posto di lavoro. Anche su questo dobbiamo metterci al pari con l’Europa, in attesa che l’economia europea si metta a pari con quella americana. (twitter @ecisnetto)