Italo Carmignani e Egle Priolo, Il Messaggero 28/3/2015, 28 marzo 2015
DAL COLTELLO ALLE TRACCE DI DNA UN’INDAGINE PIENA DI BUCHI
«In questo processo l’unica certezza è la morte di una ragazza». Frase breve e pleonastica, ma racconta il mondo del processo Kercher, uno dei più complessi degli ultimi anni. Una frase utilizzata sia da Massimo Zanetti, giudice a latere del primo processo d’appello a Perugia, che da Paolo Bruno, consigliere relatore della (seconda) Corte di Cassazione. In mezzo ci sono stati un altro appello e due ricorsi, eppure poco è cambiato in una storia che ha tenuto col fiato sospeso Italia, Usa e Inghilterra per quasi otto anni.
In realtà qualche altra certezza e verità processuale ci sono state. Prima di tutto, la condanna definitiva a Rudy Guede, il giovane ivoriano incastrato dal suo dna trovato all’interno della casa del delitto. Rudy raccontò in una lettera anche della responsabilità degli altri due imputati, Amanda e Raffaele, ma in aula non fu altrettanto convincente. Eppure la Corte di Cassazione (la prima) rinviando l’appello bis a Firenze chiese ai giudici di valutare quella sentenza di condanna a 16 anni per concorso in omicidio. E di quel «concorso» con qualcuno la Suprema corte voleva sapere di più.
La battaglia tra accusa e difesa si è combattuta in buona parte su questo punto. «C’è già un colpevole, è Rudy», hanno insistito gli avvocati dei due imputati. «Non poteva essere solo», hanno replicato i procuratori. Ma anche i giudici, visto che pure la Corte d’appello di Firenze ha sostenuto che «l’aggressione fu simultanea e posta in essere da tutti e tre i correi per immobilizzare Meredith ed usarle violenza». Lo ha ricordato pure il pg Mario Pinelli in Cassazione parlando di «una vittima su cui inferiscono tre persone». Eppure nella stanza del delitto non c’è traccia biologica di Amanda o Raffaele (levato il gancetto del reggiseno della vittima, oggetto di contestazione per una presunta contaminazione comunque bocciata dai giudici fiorentini).
LA DIFESAUn particolare su cui la difesa di Sollecito ha puntato con insistenza parlando dell’impossibilità di una «pulizia selettiva» della stanza e che la stessa Amanda ha sottolineato commentando la sentenza fiorentina: «Gli esperti concordano nel dire che il mio dna non venne trovato in nessun punto della stanza di Meredith, quando invece il dna del reale omicida, Rudy Guede, venne trovato dappertutto nella stanza e sul corpo di Meredith. Questa prova scientifica confuta la teoria del multiplo assalitore».
E poi c’è il coltello considerato l’arma del delitto. Sequestrato a casa di Raffaele in corso Garibaldi è entrato e uscito dal processo: prima compatibile, poi incompatibile con le ferite. Con il dna trovato tra lama e manico che a un certo punto fece parlare addirittura di fecola di patate. L’ultima parola, però, agli esperti del Ris che, a Firenze, hanno sostenuto che su quel coltello ci fosse il dna di Amanda e di Mez. E che la sua lama fosse compatibile con la ferita mortale, mentre quelle più superficiali sarebbero state lasciate dal coltellino che Sollecito solitamente portava con sé.
Nel mezzo, tanti altri dubbi: dall’attività sul computer di Sollecito quella notte alle presunte bugie di Amanda, che alla fine Raffaele scioglie spiegando di aver fatto uso di cannabis e di non avere ricordi nitidi di cosa fece la ragazza quella sera. Con il mutuo alibi che alla fine per lui è apparso una trappola. E, soprattutto, con una domanda che ha trovato sempre risposte diverse: perché? Un gioco erotico finito male, la punizione dell’inglese, fino ai dissidi per le pulizie di casa. Ma il movente, come ha ricordato il pg Pinelli, non conta per stabilire una responsabilità. Di certo, una ragazza, arrivata a Perugia per studiare e disegnare il suo futuro, è morta a 21 anni. Uccisa da una coltellata.