Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport 28/3/2015, 28 marzo 2015
CRICKET. È UN ALTRO MONDO
Battaglie perdute con dignità, vittorie con il marchio dell’infamia, ricordi che non muoiono e anzi si infiammano ad ogni nuovo incrocio di mazze. E poi non dite che lo sport non assomiglia a una guerra. Stanotte, all’MCG di Melbourne, Australia e Nuova Zelanda si sfidano per il Mondiale di cricket in quella che sarà la prima finale di sempre tra due nazioni dell’Emisfero Sud. E se gli Aussie sono habitués di quei palcoscenici (settima volta che arrivano all’epilogo con quattro titoli), per i Black Caps si tratta di un debutto al livello più alto. E, soprattutto, dell’occasione a dir poco storica di vendicare settant’anni di altezzosa spocchia dei presuntuosi vicini che abitano al di là del Mare di Tasman, sublimatasi in 27 anni senza scontri diretti (dal 1946 al 1973) perché i Kangaroos si ritenevano troppo superiori e in tre episodi che per i neozelandesi sono la rappresentazione plastica dell’esecrabile spirito australiano del successo a tutti i costi e con ogni mezzo.
L’INCIDENTE DELL’ASCELLA Il primo, e più famoso, quello che brucia ancora sulla pelle di un paese intero, risale a un test match del 1° febbraio 1981, quando il capitano dell’Australia Greg Chappell istruì il fratello Trevor a lanciare l’ultima palla da sotto l’ascella, facendola rotolare mollemente sul terreno per impedire al battitore avversario di colpirla con la forza necessaria per mandarla eventualmente fuori dal campo ed ottenere sei punti. Guarda caso, quelli che servivano alla Nuova Zelanda per pareggiare la sfida. Ancora oggi, se chiedete a un abitante dell’isola che sta ai nostri antipodi quale sia stato l’episodio più vergognoso della storia dello sport, vi sentirete rispondere senza esitazione «l’incidente dell’ascella». Non sarà una semplice partita, insomma. Piuttosto, nei significati perfino sociologici, quasi uno scontro di civiltà. E scordatevi la vittoria dei Black Caps (in casa) nella fase a gironi, la finale sarà tutt’altra questione. Tra i fattori che potrebbero mettere in difficoltà i neozelandesi, infatti, ci sono anche le dimensioni del campo. Nel cricket la forma e le dimensioni del terreno di gioco non sono fisse. I campi di Melbourne e Auckland sono entrambi ellittici, ma quello australiano ha il semiasse maggiore di 84 metri e quello minore di 71, mentre nel terreno neozelandese le misure sono rispettivamente 65 e 55 metri e quindi i fuoricampo risultano più facili.
CHI E’ LA SHARAPOVA? Uno dei più grandi drammaturghi del XX secolo, George Bernard Shaw, probabilmente ne trarrebbe argomenti per rinforzare uno dei suoi aforismi più celebri: «Per giocare a cricket, non occorre essere stupidi. Ma se si è stupidi, viene meglio». Era una stilettata al conformismo di una mentalità ancora imperialistica, ovvio, ma oggi neppure lui potrebbe ignorare che la finale di stanotte porterà davanti ai televisori un paio di miliardi di persone. Il cricket è la disciplina più amata in India, dove il trionfo iridato del 2011 venne cavalcato anche dalla politica come emblema dell’impetuosa crescita del paese pure sulla scena socioeconomica planetaria, così come la sconfitta in semifinale di ieri notte (si giocava a Melbourne ma pareva di stare a New Delhi) è stata vissuta alla stregua di un colpo alle ambizioni di leadership continentale. Per la felicità del nemico storico, il confinante Pakistan, altra nazione malata dello sport con la mazza, tanto da sollevare un caso quasi internazionale per una foto innocente. E’ accaduto appunto prima del Mondiale 2015, quando Roger Federer (che, per inciso, avendo madre sudafricana, ha sempre confessato che da piccolo si immaginava un giorno giocatore di cricket professionista) si è fatto immortalare con la maglia dell’India, suscitando le ire pachistane fino a manifestazioni di piazza che chiedevano l’abiura del tifo per il più forte tennista di tutti i tempi. Roger, peraltro, tra le amicizie può vantare anche quella con Sachin Tendulkar, indiano, considerato uno dei più grandi battitori di sempre e ospite abituale del Royal Box di Wimbledon durante il torneo. Nel giugno scorso apparve nelle regali tribune nel corso di un match della Sharapova e a fine partita la russa ebbe la sventura di rispondere «Non lo conosco» a chi le aveva chiesto se fosse onorata di avere un tifoso simile. Apriti cielo. In India si scatenò la tempesta perfetta, con l’epilogo di un hashtag che fece in poche ore il giro del mondo: «Who is Maria Sharapova?». Del resto, i numeri su Twitter sono impietosi per la bella Masha e per chi pensa che il divismo abbia il suo zenith in una stella bionda con le gambe lunghe lunghe che è nata in Ucraina e vive in Florida: la Sharapova ha tre milioni di follower, Tendulkar quaranta milioni. Cose da cricket. Di uno sport dove esistono ancora le Indie Occidentali come ai tempi delle colonie e nessuno, ai Caraibi, si è mai sognato di chiedere un cambio di nome.