Corriere della Sera 29/3/2015, 29 marzo 2015
GLI ARTICOLI DEL CORRIERE DELLA SERA SULLA SENTENZA RELATIVA AL DELITTO MEREDITH
ROMA Cinquecentosedicimila euro. È questa la somma che gli avvocati di Raffaele Sollecito chiederanno per l’«ingiusta detenzione».
Il giorno dopo l’assoluzione disposta dalla Cassazione, Raffaele è a casa, in Puglia, e nel primo pomeriggio passeggia in riva al mare con la fidanzata Greta Menegaldo, che negli ultimi due anni gli è stata sempre vicina: «Quello che è accaduto a me non deve accadere più a nessuno — dice Raffaele — perché combattere contro una montagna di falsità è inimmaginabile dall’esterno. In questi otto anni ho combattuto senza mai arrendermi ma via via che abbattevo le accuse, altre ne nascevano... Un incubo». Venerdì ha lasciato Roma senza aspettare la sentenza: «Ma non stavo scappando, come si può anche solo pensarlo? Avevo dieci poliziotti con me e poi in questa storia ho sempre messo la faccia, non sono mai fuggito». Uno dei suoi legali, Giulia Bongiorno, l’ha paragonato a Forrest Gump: «È vero che era un ingenuo — sorride lui — ma di certo ha fatto grandi cose...». L’emozione per l’assoluzione è stata immensa: «Sono ancora disorientato, non è facile, sono stati anni duri». Ha sentito Amanda al telefono, in mattinata, ma preferisce non parlarne: adesso, per lui, c’è una nuova vita. Forse andrà all’estero a lavorare, in ogni caso da uomo libero. Sull’ipotesi del risarcimento, invece, si lavora allo studio dell’avvocato Giulia Bongiorno, dove infatti è già stato identificato «il tetto» stabilito per «i casi gravi come questo», oltre mezzo milione appunto. L’altro avvocato di Raffaele, Luca Maori, sostiene però che la richiesta sarà più alta: «Non c’è solo l’ingiusta detenzione perché ci sono ben altri danni, qui c’è la vita spezzata a Raffaele e la distruzione di un’intera famiglia dal punto di vista morale, materiale e d’immagine. Sarà una cifra a molti zeri».
La sentenza che a Raffaele ha «restituito la vita», ha lasciato «sotto choc» la famiglia Kercher. La sorella di Mez, Stephanie, al telefono con il legale Francesco Maresca spiega, almeno in parte, cos’hanno rappresentato gli ultimi otto anni: «Da un certo punto di vista il fatto che il processo si sia chiuso va bene, perché ogni udienza per noi era una ferita al cuore, ogni tappa processuale ha rappresentato per la nostra famiglia il riaprirsi di ferite dolorosissime, e in questo senso il giudizio finale, sia pure per noi con un esito devastante, rappresenta anche un punto fermo». Da Perugia, però, arriva l’incredulità di Manuela Comodi, che ha affiancato il pm Giuliano Mignini nel secondo grado: «Gli unici due indiziati rimangono Amanda e Raffaele perché sulla scena del delitto, oltre loro e Rudy, non c’è traccia di nessun altro. La Cassazione ha smentito se stessa...».
Alessandro Capponi
DAL NOSTRO INVIATO WEST SEATTLE «Il futuro? Non so ancora, adesso assorbo il presente, un momento di grande gioia». Ha parlato brevemente con i giornalisti l’altra notte Amanda sotto il portico della modesta casa della madre, Edda Mellas, nel verde di West Seattle. Oggi splende il sole e la casetta col giardino nel quale è parcheggiato un piccolo cabinato (siamo a meno di un chilometro dalle acque del Pudget Sound) è immersa nel silenzio.
Ieri erano state grida di giubilo: l’avvocato Carlo Dalla Vedova aveva appena comunicato ad Amanda la decisione della Cassazione. Poi gli amici hanno festeggiato coi fuochi d’artificio da Salty’s, un ristorante sul mare che è sempre stato il ritrovo dei suoi «supporter», fin dall’organizzazione della «colletta» del 2009 per pagare le spese legali.
Per la Knox è l’alba di una nuova vita. Il macigno della possibile estradizione e del ritorno in carcere è svanito per sempre e lei sembra incredula, oltre che sollevata. «È stato un viaggio durissimo per lei, le ha lasciato profonde cicatrici» dice Karen Pruett, una delle persone che a suo tempo organizzò il «fund raising» per aiutarla. Da oggi Amanda può dedicarsi anima e corpo alla sua passione, la scrittura creativa. Da qualche mese collabora col West Seattle Herald , un piccolo giornale per il quale scrive articoli che spaziano dal teatro alla natura selvaggia: un giorno la dotta critica di un «Messiah» di Hendel rappresentato in chiave post-moderna, il giorno dopo corre in difesa dei coyote che ai primi freddi scendono in città: «Non è un’invasione, ci aiutano: mangiano i roditori e non attaccano l’uomo. Ma state attenti col cibo: per quello diventano aggressivi».
Poi c’è da organizzare il matrimonio. Nella movimentata vita sentimentale di Amanda si sono succeduti negli ultimi anni tre fidanzati: David Johnsrud che stava con lei prima che venisse in Italia e le è rimasto vicino durante la detenzione nonostante la sua storia con Sollecito. Poi James Terrano. Ma dall’anno scorso il suo cuore batte solo per Colin Sutherland. Il giovane musicista (27 anni come Amanda), soprannominato «Thunderstrike» suona la chitarra basso in un gruppo rock, «The Johnny Pumps», la cui musica viene definita «impure metal», con un sottofondo punk. Amanda lo ha raggiunto a New York, dove lui vive e suona.
Per un po’ è stata con lui a Brooklyn. Ma ora pare che Colin, che ieri era al suo fianco, si sia trasferito a Seattle. E papà Curt qualche giorno fa ha confermato che presto i due si sposeranno, probabilmente in estate. E che, punk o non punk, Colin è già stato protagonista di una tradizionalissima festa familiare, il 3 febbraio scorso, per ufficializzare il fidanzamento.
Chi la conosce, dice che Amanda in questi anni ha cercato in tutti i modi di mostrare forza e di riacquistare la sua serenità, ma l’ombra di Meredith e la pressione della vicenda giudiziaria hanno continuato a scandire la sua vita. Che lei ha cercato di cambiare più volte. Prima ha ripreso gli studi di linguistica e scrittura interrotti durante la detenzione. E nove mesi fa si è finalmente laureata alla Washington State University. Poi ha lasciato la casa dei genitori per andare a vivere con l’amica del cuore, Madison Paxton, in un miniappartamento di Maynard Avenue, nel cuore della vecchia Chinatown, un quartiere che a Seattle ha un sapore alternativo, oltre che etnico. Quindi un altro trasloco, il trasferimento a New York, dove è stata più volte ripresa mentre abbracciava e baciava con passione Colin, incurante di chi stava a guardare. Momenti di spensieratezza sul grande pontile di legno di Coney Island: la passeggiata sull’oceano dei residenti di Brighton Beach, sulla punta di Brooklyn. Poi il ritorno a Seattle. Inatteso come l’annuncio del fidanzamento. Chi è oggi, davvero, Amanda? Capelli corti, ingrassata, occhiali fuori moda, dimostra ben più dei suoi 27 anni. Certamente non è più la «bella con lo sguardo assassino» che ha alimentato per anni le cronache. È cambiata lei? È stata la strategia imposta dalla Gagerty Marriott, l’agenzia specializzata in «crisis management» assunta dai Knox per gestire l’immagine di Amanda e i rapporti con i media in questi anni terribili e, per lei, ancora pieni di insidie?
Di certo dopo il libro (che le ha fruttato 4 milioni di dollari) e il film sulla sua vicenda, Amanda, pur non nascondendosi, ha evitato i riflettori (Donald Trump le aveva pronosticato una carriera televisiva, tra un «reality» e l’altro). Ma c’è qualcosa che non quadra in questo ritorno alla normalità. Come David, il primo fidanzato che era stato suo compagno di scuola, e come James, il secondo, conosciuto all’università di Seattle prima di andare a studiare a Perugia, anche Colin viene dal passato di Amanda. Un passato ancor più remoto: erano amici d’infanzia. Sembra quasi che Amanda non riesca a costruire relazioni nuove, a fidarsi di altri. Ieri dicevo: «Meredith era mia amica. Meritava moltissimo dalla vita. Io sono quella fortunata». Il colpo di spugna della Cassazione ha spazzato via molte nuvole. Ma non, forse, gli incubi di quella notte di otto anni fa.
Massimo Gaggi
Un nuovo processo non avrebbe potuto accertare la verità sul delitto di Meredith Kercher. Il «complesso probatorio era talmente contraddittorio» da rendere impossibile il superamento dei dubbi e delle incongruità. Per questo, dopo otto ore di discussione, i giudici della quinta sezione della corte di Cassazione, sono stati tutti d’accordo sull’annullamento della condanna a 28 anni e sei mesi per Amanda Knox e a 25 anni per Raffaele «senza rinvio».
«Assurdo», questa la linea condivisa, sarebbe stato «disporre un nuovo dibattimento potendo contare su indizi così labili». Il collegio presieduto da Gennaro Marasca ha anche ritenuto «non vincolante» la precedente sentenza della Cassazione che nel marzo di due anni fa aveva ordinato un nuovo giudizio, nella convinzione che la propria pronuncia dovesse valutare esclusivamente il verdetto raggiunto in appello a Firenze il 30 gennaio di un anno fa, quello per cui Amanda e Raffaele erano stati giudicati colpevoli di omicidio. Si chiude dunque per sempre la possibilità di scoprire che cosa accadde davvero nella villetta di via della Pergola il primo novembre del 2007. L’unico responsabile rimane Rudy Guede, condannato a sedici anni di carcere e — dopo averne scontati quasi la metà — già pronto a chiedere permessi per il lavoro esterno.
Otto lunghi anni non sono stati sufficienti a fare luce sui lati oscuri di una storia che rimane tuttora segnata da troppi misteri. E sono almeno quattro gli interrogativi rimasti insoluti, ai quali sembra ormai impossibile trovare delle risposte convincenti.
La stanza
La sera di quel giovedì Meredith torna a casa e con lei c’è sicuramente Rudy. Ma che cosa accade dopo? Secondo la sentenza di condanna dell’ivoriano, ci sono almeno due «concorrenti».
I giudici della Cassazione il 26 dicembre del 2013 chiedono alla Corte d’assise d’appello di Firenze di individuarli e scrivono: «Bisogna porre rimedio, nella più ampia facoltà di valutazione, agli aspetti di criticità argomentativa operando un esame globale e unitario degli indizi», specificando poi la necessità di «sommare e integrare ogni indizio con gli altri». Poi aggiungono: «L’esito di tale valutazione osmotica sarà decisiva non solo a dimostrare la presenza dei due imputati sul luogo del delitto, ma eventualmente delineare la posizione soggettiva dei concorrenti del Guede».
Un obiettivo che evidentemente non è stato raggiunto. La perizia medico legale ha accertato che Meredith ha subito molestie sessuale ed è morta, dopo essere stata ferita con alcune coltellate, per un fendente sferrato alla gola. Nessuno, a questo punto, può dire se Rudy Guede abbia fatto tutto da solo o se invece qualcuno l’abbia aiutato a immobilizzare la ragazza inglese e le abbia poi inferto il colpo fatale .
L’arma
È certamente uno degli aspetti più controversi. L’arma del delitto viene individuata dai pubblici ministeri in un coltello sequestrato nella cucina a casa di Raffaele Sollecito. Le indagini genetiche trovano tracce del Dna di Amanda sulla lama e questo convince l’accusa che la giovane americana l’abbia usato per uccidere la sua coinquilina. Motivando la sentenza di condanna i giudici fiorentini scrivono però che «la vittima fu colpita con due coltelli». Secondo loro «l’arma che produsse la ferita sulla parte sinistra del collo e provocò la morte era impugnata da Amanda e si tratta del coltello sequestrato a casa di Raffaele», mentre le ferite sulla parte destra furono provocate da un «coltello più piccolo impugnato da Raffaele», ma nulla dicono sull’origine dell’arma, su dove fosse stata presa e, soprattutto, dove sia finita.
Il movente
I primi a parlare di «gioco erotico degenerato» come movente del delitto furono i pubblici ministeri, confortati dai diversi giudici che avevano confermato le tesi dell’accusa. L’ipotesi nata dalla certezza che Rudy avesse avuto un rapporto sessuale con Meredith — come dimostrato dall’autopsia — non era però supportata da ulteriori elementi e questo ha portato i giudici di Firenze a disegnare un diverso scenario.
Nella sentenza di condanna emessa un anno fa si parlava di «progressiva aggressività» innescata da una lite, sfociata in una violenza sessuale e conclusa con l’omicidio, perché la vittima, che era stata «umiliata e prevaricata», alla fine «doveva essere messa in condizione di non denunciare». Una ricostruzione che la Cassazione ha giudicato ora — evidentemente — non sostenuta da alcuna prova.
Il memoriale
Afferma Amanda nel memoriale scritto in questura, cinque giorni dopo il delitto, e poi ritrattato: «Io e Patrick Lumumba (arrestato, ma poi scarcerato e prosciolto ndr ) ci siamo incontrati intorno alle ore 21 e siamo andati a casa mia. Non ricordo precisamente se la mia amica Meredith fosse già in casa o se è giunta dopo, quello che posso dire è che Patrick e Meredith si sono appartati nella camera di Meredith, mentre io mi pare che sono rimasta nella cucina. Non riesco a ricordare quanto tempo siano rimasti insieme nella camera ma posso solo dire che a un certo punto ho sentito delle grida di Meredith e io, spaventata, mi sono tappata le orecchie. Poi non ricordo più nulla, ho una grande confusione nella testa. Non ricordo se Meredith gridava e se sentii anche dei tonfi perché ero sconvolta, ma immaginavo cosa potesse essere successo. Non sono sicura se fosse presente anche Raffaele quella sera, ma ricordo bene di essermi svegliata a casa del mio ragazzo, nel suo letto, e che sono tornata al mattino nella mia abitazione dove ho trovato la porta dell’appartamento aperta».
Amanda descrive il delitto, ma al posto di Rudy pone sulla scena del delitto Lumumba, anche lui giovane, ugandese, quindi di colore. Come mai? Possibile fosse soltanto una coincidenza? Certamente è questo l’interrogativo al quale nessuno è mai riuscito a dare una risposta convincente.
Fiorenza Sarzanini
fsarzanini@corriere.it
«Q uesto processo mi ha cambiato». Gli otto anni delle udienze Kercher sono in una grande stanza dell’ufficio nel cuore di Roma di Giulia Bongiorno, lo stesso che fu di Giulio Andreotti — «sì era del Presidente, i mobili sono nuovi ma li ho disposti proprio come prima» — e ci sono decine di fascicoli, centinaia di foglietti di diversi colori, migliaia di carte: «È il metodo arcobaleno, i diverso colori indicano la gradualità degli indizi...con così tante carte è fondamentale e io, tranne che pensare a mio figlio, nell’ultimo anno non ho fatto altro». Ex presidente della Commissione giustizia (finiana, Pdl), nel cda della Juventus, un figlio di quattro anni e una carriera decollata a ventotto anni con i processi Andreotti. Dal 2004 — «assolto», gridò alla lettura della sentenza — a venerdì notte, Giulia Bongiorno nei grandi processi non solo c’è, ma solitamente vince: da Bruno Romano nel caso Marta Russo al «banchiere di Dio» Pacini Battaglia fino, appunto, a Raffaele Sollecito. Una vita trascorsa nelle aule di tribunale eppure, dice, è stato quest’ultimo a cambiarla: «È accaduto un episodio che mi ha dato i brividi: se me l’avessero detto qualche anno fa non ci avrei creduto. Perché ho sempre pensato che alla fine prevalesse la giustizia, che le investigazioni fossero fatte a regola d’arte. Ma questa volta accanto ai tabulati telefonici abbiamo trovato epiteti, volgarità e insulti rivolti dagli operatori di polizia ai familiari di Raffaele, e ho capito che ci poteva essere animosità. Io mi sono sempre fidata degli investigatori ma quello che è successo ha cambiato molto in me, come capire per la prima volta che non tutto è come dovrebbe essere...». Tra gli indizi contro i quali ha dovuto lottare mette anche «Le immagini di Raffaele e Amanda che si baciano davanti alla casa: micidiali». In tutti questi anni si è discusso a lungo di processo mediatico: «I media hanno inciso molto in questo processo, ci sono stati testimoni arrivati a processo dopo aver visto la tv... Ma io credo che l’immagine che l’opinione pubblica aveva dell’“orco” Raffaele sia migliorata col passare del tempo. Ma sia chiaro: il processo l’abbiamo vinto in aula». Ecco: per anni, questa, è parsa la storia di una condanna inevitabile. «Ma c’è un momento preciso nel quale la storia cambia ed è quando arriva la perizia sulle prove scientifiche del secondo grado, perché in quel Dna si poteva riconoscere anche il profilo del presidente della Corte...». Nega qualunque ipotesi di denuncia verso i magistrati che hanno giudicato colpevoli Amanda e Raffaele: «La responsabilità civile dei magistrati è uno strumento utile ma va usato con cautela, altrimenti la conseguenza è che nessuno giudice annullerà più le sentenze».
Al. Cap.