Fabrizio D’Amico, la Repubblica 29/3/2015, 29 marzo 2015
NAZIONALE - 29 marzo 2015 CERCA 50/51 di 64 R2 CULT-Cultura Henry Moore Il viaggio dello scultore che si muoveva leggero tra astratto e figurativo FABRIZIO D’AMICO BERNA INMOLTIs catti fotografici dei primi anni Cinquanta che riprendono lo studio della sua nuova dimora, nel villaggio di Perry Green, nella campagna inglese, dove si trasferì per fuggire i bombardamenti su Londra, Henry Moore è al tavolo di lavoro, circondato da innumerevoli piccole sculture: sistemate, senza un ordine cronologico, sui pancali e i mobili che lo attorniano
NAZIONALE - 29 marzo 2015 CERCA 50/51 di 64 R2 CULT-Cultura Henry Moore Il viaggio dello scultore che si muoveva leggero tra astratto e figurativo FABRIZIO D’AMICO BERNA INMOLTIs catti fotografici dei primi anni Cinquanta che riprendono lo studio della sua nuova dimora, nel villaggio di Perry Green, nella campagna inglese, dove si trasferì per fuggire i bombardamenti su Londra, Henry Moore è al tavolo di lavoro, circondato da innumerevoli piccole sculture: sistemate, senza un ordine cronologico, sui pancali e i mobili che lo attorniano. Sono bozzetti di opere maggiori che gli erano state commissionate, o piccole sculture, autonome o in attesa di venir tradotte in una dimensione maggiore. In legno d’olmo, di faggio o di noce; in cemento o in alabastro; in gesso, pietra, o bronzo. “Figurative” o “astratte”, indifferentemente. Quelle fotografie dicono tanto della vita e del lavoro del più celebre scultore inglese dello scorso secolo: dicono del suo non fare gerarchia alcuna fra i due linguaggi apparentemente antitetici e inconciliabili che adottò, alternandoli nel tempo, con un sovrano distacco da quel vincolo contenutista che sembrava allora imposto a ogni animo politicamente impegnato; ma anche dall’opposto, e appena più velato, diktat occidentale – e dei paesi anglofoni in particolare – per un’immagine non realista. Dicono, ancora, della sua curiosità per materiali diversi, e del suo piegarsi – di volta in volta – ad ascoltarne le esigenze, e l’individuale vocazione, a farsi liscia o scabra, ad essere tenera o resistente. Dicono infine del suo bisogno (che gli restò sempre, anche quando la pressione e l’urgenza delle più vaste commissioni che gli venivano da tutto il mondo lo spinse a cercare degli aiuti per la sua scultura) di partire, nell’elaborare una nuova forma, dalla piccola dimensione; e del manipolare, toccare, ascoltare il materiale che aveva prescelto. C’è un foglio, nella bella mostra che oggi (e fino al 25 maggio; a cura di Fabienne Eggelhöfer) promuove il Centro Paul Klee di Berna – quest’onda lunga che si avviluppa più volte e infine si posa sulla campagna svizzera, immaginata da Renzo Piano dieci anni or sono – che si può porre a spartiacque nell’operosità di Moore: proveniente anch’esso dalle raccolte della Tate (che assieme a quelle del British Council fanno l’ossatura della mostra odierna), esso è parte degli Shelter Drawings cui lo scultore pose mano nelle gallerie dell’underground di Londra nel 1941, raffigurandovi i rifugiati che nei meandri della Tube trovavano riparo dai bombardamenti tedeschi. È forse il più famoso fra quei fogli – oggi esposto assieme ad altri della medesima serie – e rappresenta la sconfinata teoria dei corpi stremati a terra, ordinatamente allungati a destra e a sinistra lungo le pareti in prospettiva del rifugio di fortuna, avvolti in teli bianchi e grigi, quasi fossero sudari. L’ocra, il bianco e il nero scrivono l’acquarello, che è così desolato e aulico, come raccolto a ripensare un momento di vita disperata, e insieme gravido di antiche, plurisecolari memorie. La serie degli Shelter Drawings diede a Moore una notorietà imparagonabile a quella che gli aveva sino ad allora procurato la sua attività scultorea, e ne preannuncia la fama mondiale che lo circonderà nel dopoguerra. Moore è adesso il campione d’una scultura organica talvolta asciugata fino a sfiorare l’astratto (in certe Figure sdraiate concepite dagli anni Sessanta in avanti, soprattutto; o in altre sculture che nominò a due o tre pezzi ), ma sempre prossima alla figura umana – in particolare protagonista delle Madri con il bambino , suo tema amatissimo, e in ogni stagione rivisitato. Entra nell’immediato dopoguerra nella scuderia di Curt Valentine (il mercante che fece parimenti la prima fortuna internazionale di Marino Marini) e della Bucholz Gallery di New York, ove Moore allestisce al Museum of Modern Art, nel ‘46, la sua prima retrospettiva importante, che ribadirà tra l’altro a Venezia nel ‘48, quando otterrà il gran premio internazionale per la scultura alla prima Biennale del dopoguerra. Ha adesso cinquant’anni; e possono sembrargli lontani i suoi esordi, negli anni Venti, quando s’affacciava alla scultura con alcune Maschere in pietra fortemente tributarie dell’arte primitiva, africana e precolombiana, che l’aveva affascinato nelle collezioni del Victoria and Albert e del British Museum; o anche quei passi ulteriori, mossi nel successivo decennio, quando maturò quel bisogno di tenere unita la lezione costruttivista e quella surrealista, ferocemente l’una contro l’altra armate. Fu nel corso di questi anni Trenta, però, che Moore, sovente esponendo con i primi seguaci di Breton (a fianco dei quali partecipò tra l’altro alla grande mostra londinese del ‘36, The International Surrealist Exhibition ) non solo e non tanto toccò il vertice della sua esperienza non-figurativa (con le sculture di fili, e le fusioni in piombo di fine decennio), ma elaborò quell’insofferenza per ogni nominalismo e ogni preordinata barriera fra astratto e reale che lo accompagnò poi sempre, fino alla morte occorsa nel 1986. © RIPRODUZIONE RISERVATA Per lui non esisteva una gerarchia tra due linguaggi apparentemente opposti. Li alternò nel tempo sperimentando più materiali e forme molto diverse LE FOTO Da sinistra, in senso orario, Henry Moore: Working Model for Three Way Piece No. 1: Points ( 1964); Helmet Head No. 1 ( 1950- 1960); Henry Moore con Figura reclinata ( 1929)