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 2015  marzo 28 Sabato calendario

INGRAO VOLEVA LA LUNA I SUOI CENT’ANNI DI ERRORI E SOLITUDINE

Una delle cose che mi è sempre piaciuta nella vita - e che avrei fatto senza annoiarmi - è sedermi in un caffè e guardare il fiume di persone che scorre nella strada, chiedendomi chi sono, cercando di immaginare ciò che loro capita o che hanno in animo.
“Volevo la luna”, Pietro Ingrao
Pietro Ingrao è nato cent’anni fa, il 30 marzo 1915. A Lenola, paesino sulla cima di un colle in bassa Ciociaria, oggi provincia di Latina. Suo nonno Francesco Ingrao, mazziniano e massone, si rifugiò lì da Grotte, in Sicilia. Nel 1866, durante la terza guerra di Indipendenza, Lenola era sul confine appenninico tra il regno borbonico e lo Stato pontificio, l’ideale per i fuggiaschi. Pietro però prese il nome del nonno materno, segretario comunale. Il papà del piccolo Pietro, Renato, una sera impiegò più del solito a convincere il figlio a fare la pipì nel vasetto. Pur di risolvere la questione, gli promise qualsiasi regalo avesse chiesto. Pietro riempì il vasetto e il padre gli chiese cosa volesse. Il balcone era aperto e c’era la luna. Il bimbo disse: “Voglio la luna”. Il papà rispose che era impossibile e il figlioletto iniziò a strillare.
Poesia, la prima passione
Dopo i novant’anni, nel 2006, Pietro Ingrao ha scritto la sua autobiografia, bellissima anche per stile letterario, intitolata proprio Volevo la luna, ricordando quella richiesta impossibile di decenni e decenni prima. Un titolo che è anche la metafora della sua parabola di comunista strano e sconfitto, incline più al dubbio e al dissenso che al leninismo. L’ingraismo è stato sinonimo della sinistra critica del Pci, anticentralista, e la sua sconfitta più grave cadde nel 1969, quando gli ingraiani del manifesto furono radiati dal Pci. Lo stesso Ingrao votò a favore dell’espulsione. In seguito ritenne assurdo, vile e traditore quel voto. Lunedì l’eretico Pietro Ingrao compie un secolo e negli ultimi trent’anni ha pubblicato alcuni libri di poesie, la sua prima passione giovanile.
L’antifascismo dei Littoriali
Da Lenola, la famiglia di Renato Ingrao si trasferì dapprima a Santa Maria Capua Vetere, nel Casertano, poi risalì a Formia. Pietro scoprì Roma con l’università e lì arrivarono i Littoriali fascisti, gare di cultura tra studenti volute da Giuseppe Bottai. Il giovane Ingrao, avido lettore di Pascoli, Ungaretti e Montale nonché di Kafka e Joyce, spedì una poesia su Littoria, fondata sulle paludi pontine bonificate, e vinse i Prelittoriali di Roma. Vennero altri successi e lui assaporò “il piacere dell’applauso”, che tanto ha segnato il suo cammino politico nel secolo scorso. Quando il fascismo finì e Ingrao era all’Unità, un giornale di destra gli rinfacciò i Littoriali ma Palmiro Togliatti rincuorò il giovane cronista, consigliandogli di non dare retta agli “scocciatori reazionari”.
Pranzo nuziale, in due
Paradossalmente, i Littoriali erano l’unica occasione di incontro per quegli studenti di tutta Italia che volevano conoscersi e in molti casi parlare sottovoce di antifascismo e lotta al regime. Negli anni della Seconda guerra mondiale, Ingrao divenne un comunista del suo gruppo romano, che comprendeva Lucio Lombardo Radice, Aldo Natoli, Antonio Amendola (fratello di Giorgio), Giaime Pintor, Mario Alicata, Paolo Bufalini, Antonello Trobadori, Bruno Zevi. C’era anche Laura Lombardo Radice, sorella di Lucio, di cui Ingrao s’innamorò. Si sposarono in Campidoglio nel 1944, dopo la liberazione di Roma. Festeggiarono da soli in un ristorante romano.
In soffitta, Lenin e Gramsci
Ingrao fu un comunista clandestino tra Milano e la Sila. Visse lunghi mesi di solitudine con l’ansia dell’“agire collettivo”. Si nascose anche in una casa di Spezzano Grande, in Calabria, e in soffitta trovò libri e giornali. Fu così che scoprì Gramsci e Lenin. Il 25 luglio del ‘43 era di nuovo a Milano. L’annuncio della caduta di Benito Mussolini lo colse di notte, in un appartamento di corso di Porta Nuova, che divideva con altre quattro persone. Il pomeriggio successivo, al termine di una manifestazione, salì anche lui su un camioncino preso da Elio Vittorini, lo scrittore. Fu il suo primo comizio comunista. “Qui mi aiutò la calma che mi prendeva dinanzi alla prova e ritrovavo quella freddezza che scavalcava ogni ansia”.
Il primo comizio
A casa di Vittorini, Gino alias Celeste Negarville, della nuova direzione del Pci, gli fece i complimenti: “So che hai fatto un grande comizio a Porta Nuova”. Ci fu un’irruzione dei carabinieri, che portarono via Vittorini e Giansiro Ferrata, per la storia del camioncino. Negarville e Ingrao rimasero a preparare il primo numero dell’Unità ritornata alla luce del sole. Dopo l’8 settembre, con la Resistenza, Ingrao, che ebbe il nome di battaglia di “Guido”, manifestò la voglia di salire in montagna a combattere, ma gli fu risposto che lui e Gillo Pontecorvo erano necessari all’Unità.
A piedi dal Migliore
Nel 1956, Ingrao aveva 41 anni ed era direttore dell’Unità dal 1947. Il 4 novembre l’invasione sovietica di Budapest stroncò il nuovo corso socialista di Imre Nagy. “Mentre si dispiegava quell’urto sanguinoso, io vissi l’errore più grave della mia vita politica. Scrissi un editoriale per l’Unità che condannava la rivolta ungherese e aveva un titolo roboante: Da una parte della barricata a difesa del socialismo”. Quella mattina, Ingrao disse alla moglie Laura che non sarebbe tornato a casa per pranzare e iniziò a girovagare a piedi per Roma. Era domenica e il giornale non usciva il lunedì. Verso sera, arrivò a Montesacro, dove abitava Palmiro Togliatti. Ingrao gli confidò l’angoscia. Il Migliore gli rispose: “Oggi io invece ho bevuto un bicchiere di vino in più”. Il suo distacco dalle liturgie ancora staliniste cominciò quella sera, nonostante tutto.
“Non sono rimasto convinto”
L’ingraismo che s’interrogava criticamente sull’unanimismo e sul soggetto rivoluzionario come “costruzione del molteplice” divenne frazione nello storico XI congresso del Pci all’Eur di Roma. Il centro togliattiano aveva alla sua destra Giorgio Amendola (padre politico di Giorgio Napolitano) e a sinistra Pietro Ingrao. Togliatti era morto due anni prima e Luigi Longo era segretario. Ingrao preparò il suo discorso del diritto al dissenso a casa sua, insieme con Lucio Magri. Il successo di un intervento si misura sempre dal silenzio della platea (o della folla) durante le pause. Ingrao era uno specialista di questi vuoti, per toccare quasi fisicamente l’attenzione degli ascoltatori. All’Eur parlò alla fine di una lunga mattinata. Una sua frase diventò più famosa di tutte: “Non sarei sincero se dicessi a voi che sono rimasto convinto”. Terminò e alla presidenza tutti rimasero immobili, mettendo bene in mostra le mani ferme sulle ginocchia. Al contrario, in platea, l’applauso fu fragoroso. “Non mi turbai: vivevo l’emozione di quel consenso del popolo comunista. Furono per me minuti indimenticabili”. Nel decennio successivo, nel 1976, i destini di Amendola e Ingrao si risolsero su un altro piano. All’inizio di luglio, Enrico Berlinguer, segretario del Pci dal 1972, chiese a Ingrao per telefono di fare il presidente della Camera: “Avevamo pensato ad Amendola, ma lui ha rifiutato: non gli va”. Ingrao rispose di sì. Quarant’anni dopo è ancora lì a casa, ad aspettare la luna, quando cala la sera.
Fabrizio d’Esposito, il Fatto Quotidiano 28/3/2015