Marco Mele, Il Sole 24 Ore 28/3/2015, 28 marzo 2015
IN TESTA NEGLI ASCOLTI MA CRESCONO I DEBITI
Un’azienda radiotelevisiva che mantiene la leadership dell’ascolto di gruppo, con tre reti generaliste e dodici specializzate. Il suo pubblico è però sbilanciato verso le età più mature. Un’azienda che vede crescere il suo indebitamento finanziario netto a 441 milioni a fine 2013. Che ha difficoltà a raggiungere un margine positivo negli anni “pari” nei quali si svolgono i grandi eventi sportivi.
Una Rai che è fuori dal mercato della pay tv, ma che ha rinunciato, nell’agosto 2009, all’offerta di Sky, per 60 milioni annui, per consentire ai suoi abbonati di vedere i palinsesti del servizio pubblico; e a quest’ultimo di incrementare gli ascolti. Risultato? L’Agcom, oggi, impone alla Rai di presentare entro un mese una proposta di accordo a Sky, senza clausole per la salvezza dei diritti di terzi, con impegno a rinnovarlo dopo il primo anno.
Sul fronte degli ascolti, nei dati Auditel 2014 elaborati dallo Studio Frasi, Rai1 è leader nel giorno medio e in prima serata ma la distanza da Canale 5 si è ridotta, nel giorno medio, in un anno, da quasi tre a quasi due punti. Le tre reti generaliste della Rai hanno il 30,6% di ascolto, nel giorno medio, rispetto al 31,9% del 2013, al quale si aggiunge il 6,8% delle reti specializzate. In prima serata, le tre reti generaliste hanno una quota del 33,3% rispetto al 34,2% dell’anno precedente. Le reti specializzate il 5,9% rispetto al 5,6% del 2013 (in prima serata vengono superate dai canali specializzati di Mediaset, con il 6,8% di quota).
Vi è, insomma, un leggero ma costante slittamento di ascolti dai canali generalisti a quelli specializzati. Non solo della Rai: i canali di Discovery, nel 2014, hanno il 5,7% nel giorno medio e si avvicinano ai canali digitali di Rai e Mediaset. Un’azienda che ha per azionista al 99,56% il ministero dell’Economia e delle Finanze e allo 0,44% la Siae, con l’esecutivo che ha potere decisionale, tra l’altro, sulla distribuzione o meno degli utili, sull’aumento di capitale, sulle modifiche allo Statuto. Se e quando il disegno di legge approvato dal Governo diverrà legge dello Stato, la Rai potrà liberarsi dalle catene della Pubblica amministrazione, alle quali la costringono le sentenze della Cassazione e le incertezze normative.
Un’azienda che ha un patrimonio immobiliare il cui valore, secondo le perizie, oscilla intorno al miliardo di euro per 667mila metri quadrati lordi, con una superficie utile di 447mila metri quadrati. Un asset da valorizzare, per il 59% impiegato nei centri produttivi di Roma, Torino, Milano e Napoli. Questi ultimi sono, a loro volta, un asset che potrebbe portare all’azienda risorse dall’esterno (solo quello di Roma lavora al 100% della capacità produttiva), a patto di offrire costi di mercato. La Rai ha un altro patrimonio da valorizzare, previa la sua digitalizzazione integrale: le Teche, che contengono un pezzo della storia d’Italia.
La Rai investe poco più di cinquanta milioni nel cinema italiano (nel 2013 hanno finanziato 59 film, di cui 23 tra opere prime e seconde). Un investimento che deve aumentare in quantità e qualità, pur sapendo che la fiction, o meglio, la serialità, è diventata il vero contenuto pregiato, la vera killer application del nuovo scenario digitale. Uno scenario di frammentazione e personalizzazione di ascolti e consumi, di moltiplicazione dell’offerta, di nuovi schermi che si aggiungono a quello fisso nel salotto di casa, in gran parte mobili, sempre connessi alla rete.
La Rai deve cambiare il proprio rapporto con la produzione indipendente, in passato spesso ridotta ad appaltatore – complice la concentrazione duopolistica delle risorse – e privata dello sfruttamento secondario dei diritti e dell’indispensabile autonomia creativa e finanziaria.
Questo non è in contraddizione con la valorizzazione delle risorse interne all’azienda, a sua volta indispensabile: ci sono esempi positivi che vanno in entrambe le direzioni, come il nuovo portale Ray – finalmente un progetto di servizio pubblico proiettato nel futuro e “aperto” ai giovani talenti – o una produzione “vecchia” di 18 anni come “Un posto al sole”, dove lavorano fianco a fianco, in piena sintonia, i dipendenti Rai del Centro di Napoli e quelli di Freemantle, multinazionale australiana.
Alcuni punti di debolezza della Rai non dipendono, se non in parte, dall’azienda. Come l’aumento della morosità del canone negli ultimi due-tre anni, che si aggiunge ad un’evasione pari al 27% delle famiglie, senza paragoni in Europa, nonostante sia uno dei canoni più bassi e sia fermo a 113,5 euro da due anni. Dal 2010 al 2015 l’evasione ha sottratto 1,7 miliardi di euro agli introiti potenziali del servizio pubblico. Dipende dalla Rai, invece, la politica commerciale di Rai Pubblicità, l’ex Sipra. La crisi non ha risparmiato nessuno e obbliga tutti a rivedere listini e prezzi per non perdere quote di mercato, ma una politica di sconti eccessivi finisce per penalizzare il fatturato dell’azienda e i soggetti più deboli del sistema dei media.
La Rai ha visto ridurre i propri introiti di 250 milioni dal 2011 al 2013, in gran parte per la crisi della pubblicità. Con un progetto editoriale degno di questo nome, l’azienda dovrà accrescere le sue risorse, se la classe dirigente guarderà al Paese e non, nel caso Rai, ai propri interessi clientelari e familiari.
Marco Mele, Il Sole 24 Ore 28/3/2015