Vittorio Emanuele Parsi, Il Sole 24 Ore 28/3/2015, 28 marzo 2015
PERCHÉ LUFTHANSA NON È «ÜBER ALLES»
«Apriamo una breccia nella cinta di mura che attornia la città. Ognuno dà una mano a sottoporre ruote scorrevoli al cavallo, a legare al suo collo lunghe funi. La macchina fatale ha già passato le mura, piena d’armi, mentre intorno i fanciulli e le vergini cantano gli inni rituali felici di toccare per gioco le funi con le mani. E la macchina avanza, scivola minacciosa in mezzo alla città». Sono le parole, note a generazioni di studenti italiani, con cui Enea racconta a Didone la storia del Cavallo e della tragica fine della città di Troia, le cui celebrate mura, capaci di respingere per dieci anni le schiere degli Achei, nulla poterono contro l’astuzia di Ulisse. Così, le misure di sicurezza, adottate dopo l’11 settembre per proteggere la cabina di pilotaggio da un assalto proveniente dall’esterno, si sono rivelate fatalmente invalicabili per chi cercava di sventare una minaccia, questa volta proveniente dall’interno. È la dimostrazione che non esiste la sicurezza assoluta o che «nessun sistema al mondo potrà mai impedire un simile atto isolato» e che «i piloti della compagnia e della sua controllata low cost sono i migliori al mondo», come ha tenuto a precisare il presidente della Lufthansa Carsten Spohr? Sarà. Ma rivela anche che ignorare la leggenda del Cavallo di Troia può essere letale anche a migliaia di anni da quando il testo di Virgilio è stato composto.
Certo la fatalità e la pazzia consentono di scaricare sul copilota ogni responsabilità. Ma occorre precisare che in tal caso non si può parlare di “errore umano” di chi era in quel momento ai comandi, perché uccidersi provocando una strage era esattamente l’intento di Andreas Lubitz.
Come abbia potuto nascondere una situazione psichica del tutto incompatibile con una professione tanto delicata va chiarito; così come va chiarito quanto siano efficaci i sistemi di valutazione così come applicati dalla compagnia tedesca. Una cosa è certa: c’è stata una serie di errori, a cominciare da un sistema che ha evidentemente peccato disastrosamente nella valutazione delle condizioni psichiche di Lubitz che tutto era tranne che uno di quei piloti «migliori al mondo» per citare la definizione che il leader di Lufthansa ha scelto per i suoi dipendenti.
I toni, le parole, gli argomenti per gestire la comunicazione di una tragedia tanto devastante avrebbero richiesto, probabilmente, maggiore umiltà. E diventa assai poca scusante anche quella di un’azienda che fosse preda di una sindrome da ricerca della perfezione non quindi in grado di ammettere errori anche davanti all’evidenza. Errori ci sono stati, eccome; nel reclutamento, nel controllo, nella formazione.
Così come si è dimostrato ormai un errore la procedura che consente di lasciare un uomo solo al comando di un “bestione” in grado di trasportare oltre 150 persone senza alcuna “ridondanza” rispetto alla crisi repentina del fattore umano. L’ossessione del terrorismo ha blindato le cabine per impedire accessi dall’esterno, ma non può significare - all’eccesso opposto - l’impossibilità di intervento in caso di anomalie interne.
Ma come, una serie di comandi e strumenti sono duplicati sugli aerei e sulle navi proprio per far fronte a un eventuale guasto e il malfunzionamento umano è invece trattato con tanta leggerezza? Potrebbe un motore impazzito costringere a spegnersi l’altro? No. Può un pilota impazzito impedire all’altro di intervenire? Sì, e abbiamo appena visto con quali conseguenze.
Praticamente tutte le compagnie aeree (tuttavia con qualche eccezione) adottavano fino a ieri procedure simili a quelle della Lufthansa, e da oggi tutte le hanno cambiate. Se una cosa questa tragedia segnala, però, è la presenza di una falla nel sistema della sicurezza interna alla compagnia, mette in luce l’inadeguatezza della vigilanza verso l’interno (chi siede in cabina di pilotaggio) e non certo quella verso l’esterno (i passeggeri in carlinga).
Ora diventa argomento per le compagnie di assicurazioni e non è nemmeno pensabile che cominci un gioco di scarico di responsabilità che offenderebbe innanzitutto le vittime e i loro parenti oltre che il senso comune di una opinione pubblica ormai globale. Quando qualche anno fa un aereo egiziano si schiantò presumibilmente per volontà del suo comandante, tutti pensarono “come diavolo li scelgono e li controllano i piloti in Egitto?” e non solo alla fatalità o all’imprevedibilità dell’atto isolato. Se Herr Spohr si ponesse qualche interrogativo in più sulle politiche della compagnia che presiede, fornirebbe un migliore contributo ad evitare il ripetersi di simili tragedie.
Vittorio Emanuele Parsi, Il Sole 24 Ore 28/3/2015