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 2015  marzo 28 Sabato calendario

SETTANT’ANNI DI LOTTIZZAZIONE LE QUATTRO FASI DELLA VECCHIA RAI

Anche in tempi di guerra, i partiti ci misero lo zampino. Erano gli ultimi giorni di aprile del 1945, le truppe naziste occupavano ancora le principali città del Nord, ma nel resto d’Italia operava già una nuova azienda chiamata Rai, nata pochi mesi prima sulle fondamenta dell’Eiar fascista. È in quei giorni che i partiti politici «nominarono» il primo presidente della nuova azienda: era Arturo Carlo Jemolo, uno dei pochi docenti universitari che non aveva firmato il giuramento di fedeltà imposto dal fascismo, giurista e storico di grande spessore, un cattolico liberale vicino al partito d’Azione. Era il 20 aprile 1945. Iniziò così, con una «lottizzazione» virtuosissima, la storia politica della Rai.
Ieri pomeriggio, con l’annuncio della nuova governance da parte del presidente del Consiglio, è simbolicamente calato il sipario su quella Rai lì, la «vecchia» Rai, quella dei partiti, quella controversa e introversa degli ultimi anni. Eppure, il patrimonio di audience lasciato in «eredità» alla «nuova» Rai è molto corposo, attorno al 40%, superiore a quello delle principali emittenti pubbliche europee. E dunque, se la Rai, a dispetto di tutto, è ancora in piedi è anche per una ragione spesso sottovalutata: dopo Jemolo, per almeno cinquanta anni i partiti, tutti i principali partiti, hanno continuato a mandare in Rai i loro migliori uomini.
La prima Rai, quella «azionista» che ha la testa e poi soltanto l’amministrazione a Torino e che fino al 1954 trasmette unicamente via radio è un’azienda guidata da dirigenti di cultura laica, perché la Dc, che aveva stravinto le elezioni del 1948 e monopolizzava il Paese, «fino al 1955 se ne occupò un po’ distrattamente», come ha raccontato Ettore Bernabei, il mitico direttore generale democristiano dal 1961 al 1974. E proprio Bernabei nel suo «L’uomo di fiducia», ha raccontato così Marcello Bernardi, il personaggio più potente di quella Rai torinese, risparmiosa, attenta ai bilanci: «Alto, bell’uomo, vestito quasi sempre di blu, camicie sempre celesti, molto raffinato, amante delle belle donne, pieno di intuito frequentatore del circolo del Whist». Ma quando la Dc capisce che la neonata televisione è destinata a pesare, sceglie sempre gli uomini giusti: nel 1955 Amintore Fanfani nomina amministratore delegato Filiberto Guala, un ex direttore dell’Ina-casa che prende un’iniziativa spiazzante dati i tempi: per svecchiare i quadri dell’azienda, indice un concorso vero, per meriti. E lo vincono giovani valentissimi. Si chiamano Umberto Eco, Furio Colombo, Fabiano Fabiani, Angelo Guglielmi, Gianni Vattimo. Di quella Rai, Eco ha raccontato la prova di ammissione: «Mi trovo in uno studio buio con una sola piccola luce, e voci misteriose che venivano dall’alto (una era quella di Vittorio Veltroni, il padre di Walter, che allora dirigeva il telegiornale). Mi chiesero come avrei organizzato una trasmissione televisiva di poesia... Credo che nessuno avesse mai tentato alla tivù trasmissioni di poesia, e quelli là in alto furono abbacinati dalla mia idea...». E, col centrosinistra, la Dc sceglie Ettore Bernabei, «un tiranno illuminato», come lo definirà Andrea Barbato. Sotto la sua guida, la Rai diventa uno dei propulsori della modernizzazione del Paese, valorizza l’informazione, fino a quel momento trascuratissima, anche grazie alla collaborazione di giornalisti non democristiani come Giorgio Bocca, Vittorio Gorresio, Enzo Forcella, Maurizio Ferrara. E il leader del Psi. Pietro Nenni, appena entrato nella stanza dei bottoni, chiede a Fanfani la guida del telegiornale unico e indica Enzo Biagi. E i socialisti, passati alla storia come lottizzatori, in Rai negli anni successivi puntano su presidenti del calibro di Paolo Grassi e Sergio Zavoli, direttori di testata come Barbato e Forcella. E, quando tocca a loro, anche i comunisti mandano il meglio. Nel 1986 gli offrono la direzione del Tg3 e di RaiTre. Decide Walter Veltroni e compie il capolavoro che gli aprirà la strada alla ascesa successiva: al Tg3 indica Alessandro Curzi, anima tradizionalista del Pci, alla Rete Angelo Guglielmi. Partono programmi nuovi, è boom di ascolti. E l’ultima Dc? Come ha scritto Giuseppe Gnagnarella nel suo «Storia politica della Rai», nel 1984, Biagio Agnes, l’ultimo direttore generale di peso, per difendere la Rai dall’assalto dei privati «arriva a cacciare dalla sua stanza al settimo piano di viale Mazzini, il padrone di Fininvest: Silvio Berlusconi».
Fabio Martini, La Stampa 28/3/2015