Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  marzo 28 Sabato calendario

“AMOK”, UNA PAROLA PER DIRE L’IMPENSABILE

Per dirlo in italiano ci vogliono due versi di una canzone famosa: «E guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere / se poi è tanto difficile morire...». In lingua malese, invece, basta dire “Amok”. La parola si definisce, chissà quanto correttamente, come «follia rabbiosa, una specie di idrofobia umana... un accesso di monomania omicida, insensata, non paragonabile a nessuna intossicazione alcolica». Così almeno la spiegava lo scrittore austriaco Stefan Zweig, in un racconto di isteria coloniale intitolato Amoklaüfer (pubblicato nel 1922). Il termine «Amok» era già stato usato da H. G. Wells in un racconto del 1894. Negli ultimi giorni “Amok”, “Amoklaüfer” e anche il neologismo “Amokpilot” ricorrono sulla stampa tedesca per cercare di contenere l’impensabile follia del copilota del volo Barcellona-Düsseldorf almeno nei termini, per quanto precari, di una denominazione. Nominare il male certamente non lo lenisce. Va anche detto, però, che è la prima cosa da fare per cercare perlomeno di comprenderlo, e proprio nel senso delimitativo della parola «comprendere» (il capire è prima di tutto questione di capienza). È lo stesso principio per cui non c’è prognosi senza diagnosi. Raymond Queneau era convinto che il linguaggio sia nato per esprimere il dolore dell’uomo. Il bene ci lascia senza parole, perché non sentiamo il bisogno di esprimerlo. Il male ci lascia senza parole, perché ci pare necessario esprimerlo ma non sappiamo come farlo. Se per dire il male il malese è indispensabile, allora aggiungiamo al nostro vocabolario questa parola, “amok” (come inglesi e tedeschi hanno fatto per tempo). Sperando di non doverla usare più; sapendo che è una speranza debolissima, se non una mera illusione.
Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 28/3/2015