Diego Gabutti, ItaliaOggi 28/3/2015, 28 marzo 2015
LA POETESSA POLACCA, WISLAWA SZYMBORSKA, GRAZIE AD ADELPHI, OFFRE A TUTTI IL SUO SCRIGNO DI MEDITAZIONI E INTERPRETAZIONI MAI LAGNOSE
«Consapevolmente o meno» — scrivono Anna Bikont e Joanna Szczesna nel loro Cianfrusaglie del passato, Adelphi 2015, pp. 464, 28,00 euro, biografia soft (e per aneddoti) di Wisawa Szymborska, Premio Nobel per la letteratura nel 1996 — «lei non ha fatto altro che seguire le orme del padre, che è stato anche il suo primo mecenate. Quand’era piccola, le dava 20 centesimi a poesiola, a patto che fossero divertenti: niente confidenze, niente lamenti».
A differenza della stragrande maggioranza dei poeti, che si mettono volentieri in piazza, ostentando sentimenti privati e propositi sociali, Wisawa Szymborska non aveva lezioni da dare a nessuno, e neppure si scrutava nell’anima, ostentando la permanenza dei dolori, sospirando per la natura effimera delle gioie. Dolenti o allegre, scherzose o commoventi, le sue poesie erano sempre piene di misura, controllate, attente a non strafare, mai pompose. Erano costruite sulle immagini, piene di fatti e di storie. Nelle sue poesie le parole non celebravano se stesse ma le cose di cui parlavano. Erano oltretutto divertenti — «senza confidenze, senza lamenti», come le voleva suo padre «quand’era piccola» — tanto che Woody Allen una volta le mandò un video, da New York, in cui le diceva, con accenti da vero fan: «Cara signora Szymborska, io sono considerato un uomo spiritoso, ma il suo senso dell’umorismo sovrasta di gran lunga il mio». Era infatti anche una maestra di poesia da ridere. Scriveva «limerick», sia castigati che indecenti. In Sicilia, all’inizio del millennio, dov’era andata a ritirare uno dei tanti premi che le piovvero addosso negli ultimi vent’anni di vita, ne scrisse uno che rimava così:
Nella ridente città di Corleone/ti prendono a mazzate sul groppone./Questa brutta abitudine chi nasce/l’assimila col latte ancora in fasce,/e dunque, si può dire, è un vizio d’alimentazione.
Sorprendenti e lampeggianti, efficaci e stringate come storielle ben costruite e meglio ancora raccontate, le poesie di Wisawa Szymborska non fanno solo ridere, naturalmente. Niente confidenze, niente lamenti, ironia e distacco finchè si vuole, ma sono nondimeno poesie serie, tremendamente serie. Ce ne sono, anzi, che non si possono leggere «senza un groppo alla gola», come per esempio Il gatto in un appartamento vuoto, scritta in memoria del suo secondo marito, il poeta Kornel Filipowicz: «Morire — questo a un gatto non si fa». Un altro grande poeta polacco, Czesaw Czesaw, a sua volta Premio Nobel, disse una volta che i versi di Wisawa Szymborska sono spettacoli di magia (come se ne vedono spesso anche nei film di Woody Allen): «In ognuna delle sue poesie a un certo momento spunta a sorpresa un coniglio dal cappello». Da giovane, nella Polonia scampata al giogo hitleriano e ocupata dall’Armata rossa, Szymborska fu stalinista, e scrisse poesie in lode del terrore e contro l’imperialismo americano poi ripudiate. «Era il tempo», come ha scritto Arthur Koestler, «del movimento mondiale in difesa della pace, che sotto il vessillo della colomba di Pablo Picasso riuscì nell’impresa di convincere milioni di persone che solo il filo spinato, i campi minati e la cortina di ferro potessero assicurare la pace nel mondo». Poi l’euforia socialista calò, e lei passò a scrivere leggendarie recensioni (le trovate in edizioni Adelphi) di libri marginali, «ignoti e semignoti», dai quali si poteva dedurre, scrivono Anna Bikont e Joanna Szczesna, che «se mai sparisse dalla faccia della terra tutto ciò che è stato scritto negli anni Sessanta e Settanta, e rimanessero solo le sue Letture, impareremmo che la PRL era un paese in cui: – si stava in fila a capo chino; – l’architettura sociorealista andava a genio solo a passeri, falchetti e piccioni domestici; – un prontuario intitolato Incidenti domestici poteva terminare con istruzioni su cosa fare in caso d’attacco atomico; – nessuno aveva mai sentito parlare di broccoli, zucche, cavoli cappuccio, indivia, melanzane, carciofi, scorzonere, salsefiche e altri “formalismi avanguardistici”».
Scrisse anche, a proposito dell’utopia: «Isola dove tutto si chiarisce./Qui si ci può fondare su prove./L’unica strada è quella d’accesso./Gli arbusti si piegano sotto le risposte./Qui cresce l’albero della Giusta Ipotesi/con rami da sempre districati./ /Più ti addentri nel bosco, più si allarga la Valle dell’Evidenza./ Domina sulla valle la Certezza Incrollabile. Dalla sua cima si spazia sull’Essenza delle Cose./ /Se sorge un dubbio, il vento lo disperde».
Diego Gabutti, ItaliaOggi 28/3/2015