varie 28/3/2015, 28 marzo 2015
ARTICOLI SUL PILOTA SUICIDA ANDREAS LUBITZ DAI GIORNALI DI SABATO 28 MARZO 2015
CORRIERE.IT -
Sono parole che risentite ora suonano profetiche. «Un giorno farò qualcosa che cambierà completamente il sistema, e tutti conosceranno il mio nome e se lo ricorderanno»: Andreas Lubitz , il copilota del volo Airbus della Germanwings, che ha portato a schiantare sulle montagne dell’Alta Provenza con altre 149 persone a bordo, aveva pronunciato queste parole parlando con l’allora fidanzata, Maria W. una hostess di 26 anni, che si confida con la Bild. Si arrabbiava parlando di lavoro: «Troppo poco denaro, paura per il contratto, troppa pressione».
Secondo l’ex fidanzata se Lubitz ha causato una strage in cui sono morte 149 persone oltre a lui, l’ha fatto «Perché aveva compreso che proprio per i suoi problemi di salute il suo sogno di diventare un comandante della Lufthansa non si sarebbe mai realizzato». In pratica Lubitz temeva di restare per sempre un copilota della compagnia low cost di Lufthansa la Germanwings.
Maria racconta anche un altro episodio che , alla luce di quanto accaduto diventa decisamente inquietante: «A volte si svegliava la notte gridando “Stiamo precipitando”, era sempre più chiaro con il passare del tempo che lui aveva un grave problema di salute».
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DANILO TAINO ED ELENA TEBANO, CORRIERE DELLA SERA -
Il mistero della mente di Andreas Lubitz resterà per sempre tale. Ma, di sicuro, il copilota della Germanwings, che martedì ha trascinato alla morte 149 persone, dentro di sé combatteva una guerra. Forse più d’una. I pezzi della realtà in cui ha vissuto negli ultimi tempi vengono lentamente alla luce e qualcosa iniziano a raccontare. Era malato, più di quanto era stato detto fino all’altro ieri: esaurimento nervoso, depressione che nascondeva ad amici e azienda. Ma forse c’era qualcosa di più.
Secondo un’indiscrezione raccolta dal Corriere , la sua bionda e graziosa fidanzata, con la quale viveva a Düsseldorf, era incinta. Potrebbe essere questa la scossa che ha terremotato il suo incerto equilibrio? Che ha minacciato le idee di carriera, di fitness, di giovinezza, di futuro che, a 27 anni, lo sovrastavano? Ciò che ha fatto scattare, in una mente già destabilizzata, la reazione contro la vita? Secondo quotidiano Bild , Lubitz aveva avuto «una pesante crisi di coppia con la ragazza», una «pena d’amore che lo aveva segnato profondamente».
«Anni fa, con la scuola siamo andati a fare un’esercitazione di volo sulle Alpi, non lontano dal luogo dell’incidente — ci ha raccontato ieri Dieter Wagner, del club aeronautico Lcs Wsterwald di Montabaur, il paese d’origine di Lubitz —. Le Alpi francesi gli piacevano molto e quella è una zona dove si va spesso a volare con gli ultraleggeri, perché ci sono buone condizioni». Secondo il francese Metronews, un amico dei genitori del copilota ha raccontato che Lubitz già a nove anni aveva frequentato l’aeroclub di Sisteron, a qualche decina di chilometri da dove martedì ha poi schiantato l’A320. Una frequentazione durata dal 1996 al 2003, che forse ha lasciato il luogo impresso nella sua mente.
Lubitz sapeva di essere malato. E non voleva farlo sapere. Chi ha problemi fisici o psichici non può — non potrebbe — portare un aereo, ne era ben conscio. Nella perquisizione fatta dalla polizia nella sua casa di Düsseldorf, in una palazzina bianca a due piani in un quartiere residenziale, e nella casa dei genitori a Montabaur, sono stati trovati documenti medici in base ai quali si capisce che non solo l’uomo era ancora in cura — e non uscito dalle sue crisi come si era detto — ma soprattutto che non era in condizione di volare. «I documenti sequestrati — ha detto la procura — indicano l’esistenza di una malattia e di una cura prescritta dai medici. Il fatto che ci siano certificati di malattia in cui si diceva che non era in grado di lavorare, tra le altre cose ritrovati strappati, fa presumere che il deceduto nascondesse la propria malattia al datore di lavoro e ai suoi colleghi».
Quanto grave fosse la malattia, di che genere fossero i disturbi non è ancora stato precisato dagli investigatori. Si sa che qualche anno fa aveva avuto un esaurimento nervoso. E — ha detto ieri un ragazzo suo vicino di casa al quotidiano Rheinische Post — «da quel che mi risulta soffriva di depressione». Di sicuro, si può dire che non avrebbe dovuto volare e che ciò era chiaro anche già prima della tragedia, almeno ai medici. Si è anche saputo che negli scorsi due mesi e fino a una decina di giorni fa Lubitz è stato in cura presso l’ospedale universitario di Düsseldorf: la direzione dell’ospedale ha però negato che la ragione fosse una malattia depressiva.
A Düsseldorf il copilota viveva con la fidanzata, un’insegnante di scuola secondaria, al secondo piano di una palazzina bianca in Zum Hexenkotten, strada di un villaggio residenziale fuori città, vicino a un lago: tanti sentieri e prati per correre. Sulla cassetta della posta, due nomi, Lubitz e Goldbach, quello della fidanzata. Il Rheinische Post racconta che poche settimane fa, Lubitz ha ordinato due Audi, una per sé e una per la fidanzata: curioso per chi pensa di avere una vita breve davanti, ma non necessariamente contraddittorio. Si cerca di capire, di dare una ragione se non razionale almeno comprensibile a quello che è successo. Difficile, forse impossibile.
Danilo Taino ed Elena Tebano
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LUIGI RIPAMONTI, CORRIERE DELLA SERA -
Sulle condizioni psichiche di Andreas Lubitz, il copilota che ha fatto precipitare l’aereo Germanwings, si rincorrono le voci: era in burnout, no era depresso e non si è curato, ha stracciato i certificati medici. «Senza documenti possiamo fare solo ipotesi» premette Emilio Sacchetti, ordinario di Psichiatria all’università di Brescia e presidente della Società Italiana di Psichiatria.
1 Cominciamo dall’ipotesi del burnout.
« Il burnout non è considerato una malattia in senso stretto, bensì una condizione di inadeguatezza nel rispondere in modo soddisfacente allo stress, in particolare, ma non solo, da lavoro. Si declina in tre modi: esaurimento , inefficacia e cinismo . Chi ne soffre si sente svuotato, incapace di provare qualcosa a livello emotivo (esaurimento), inoltre pensa di non essere più in grado di svolgere bene il proprio lavoro (inefficacia) e non gli importa più delle conseguenze delle proprie azioni professionali (cinismo); per esempio, nel caso di un medico si può tradurre nel praticare terapie seguendo le regole, ma senza alcun reale interesse per il loro esito».
2 Come si diagnostica con precisione il burnout?
«Ci sono scale per valutarlo, la più utilizzata è il Maslach Burnout Inventory , un questionario di 22 domande. Con questo strumento, e altri meno utilizzati, si può collocare una persona sopra o sotto determinate soglie che indicano l’eventuale livello di burnout».
3 È possibile che il burnout possa condurre a un suicidio-omicidio?
«Improbabile. Cominciamo dall’omicidio: se si cerca nella letteratura scientifica una relazione fra omicidio e burnout non si trova nulla. Se invece parliamo di suicidio-omicidio la letteratura e l’esperienza ci dicono che i casi di questo genere, come quelli di madri che uccidono i figli e poi si tolgono la vita, di solito si inseriscono in un contesto salvifico-delirante (“vi porto via da questo mondo che va in rovina”). Difficile attribuire questo genere di pensiero a qualcuno che uccide 150 estranei».
4Ma si può nascondere una condizione di burnout? Vivere, come sembra nel caso del pilota, una vita apparentemente normale, senza sintomi o comportamenti che possano essere notati da familiari o colleghi?
«In genere chi soffre di burnout, oltre ai tre segnali fondamentali (esaurimento, inefficacia, cinismo) può sviluppare disturbi del sonno, problemi cognitivi, alti livelli di ansia e impazienza, assenteismo dal lavoro, tratti nevrotici della personalità. Rispetto alla popolazione generale si riscontrano più spesso ipertensione, malattie cardiovascolari, aumentata resistenza all’insulina e quindi al diabete di tipo 2».
5Una volta superato il burnout si può tornare a svolgere le proprie mansioni senza problemi?
«Sì, ma non se le proprie mansioni richiedono una elevata capacità di gestire lo stress. Insomma, non il pilota di linea di una compagnia aerea».
6Allora questa tragedia potrebbe essere stata causata da una forma di depressione, magari legata al burnout?
«Non bisogna confondere le due cose: chi soffre di burnout ha un rischio maggiore di sviluppare depressione, ma non il contrario. Chi è depresso non ha maggiori probabilità di andare in burnout. Se invece facciamo l’ipotesi di una depressione grave, tale da portare al suicidio, è difficile che nessuno se ne sia accorto. La depressione vera è una malattia difficile da celare. E nel caso sia stata diagnosticata in passato è presumibile che sia stata curata. Se invece non fosse stata curata e fosse stata davvero depressione è difficile che nessuno se ne sia accorto».
7Ma non è possibile che una depressione sia stata curata e poi sia riemersa improvvisamente?
«Dopo la scomparsa dei sintomi in genere si prosegue la terapia farmacologica per diversi mesi. Questo non basta a escludere del tutto ricadute, ma in un caso come quello descritto il comportamento non sembra essere tipico di un depresso, che probabilmente non sarebbe nemmeno riuscito ad andare a lavorare, ma piuttosto quello di un individuo in uno stato di lucida follia».
8Quindi né depressione, né burnout. Allora che ipotesi si possono fare?
«Ribadisco ancora che siamo nel campo delle speculazioni. Però sembrerebbe di essere di fronte a un caso di psicosi, forse da abuso di sostanze psicoattive, che è più facile da mascherare. Però, anche in questo caso, ci terrei a essere cauto, perché ogni volta che per un fatto di cronaca tragico viene evocata la psichiatria aumenta in modo tragico lo stigma verso la malattia mentale. Chi soffre di una qualsiasi patologia di pertinenza psichiatrica viene etichettato come un mostro pericoloso. E questo oltre a essere insensato e ingiusto non fa che aumentare i problemi».
Luigi Ripamonti
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MAURO MAGATTI, CORRIERE DELLA SERA -
L’assurdità dell’atto che ha condotto alla morte 150 vite innocenti ci sconvolge e ci coinvolge. Sappiamo benissimo che su quell’aereo si sarebbe potuto trovare chiunque di noi o dei nostri figli. Siamo dunque condannati a vivere nell’insicurezza? La nostra vita sociale dipende inestricabilmente da sistemi e apparati tecnici sempre più sofisticati, potenti e performanti. Il problema è che tali sistemi rendono accessibile a singoli individui — o piccolissimi gruppi — un enorme potere di distruzione. Così che la potenza tecnica si può sempre trasformare
nel moltiplicatore della follia. Nessun sistema di sicurezza può andare al di là del limite invalicabile costituito dall’insondabilità dell’animo umano. Di fronte a disastri come quello avvenuto sulle Alpi francesi, la prima (giusta e comprensibile) reazione è quella di rafforzare la sicurezza.
Ciò si traduce in nuove, più stringenti procedure (nello specifico, la regola dei due membri dell’equipaggio nella cabina di comando). A più lungo termine, l’obiettivo è quello di ridurre ancora — fino, se possibile, a eliminare — lo spazio di azione dell’uomo, reo di essere inaffidabile. Tutto ciò è giusto.
A condizione che non si pensi così di poter rimuovere la questione di fondo: fin tanto che ci saranno esseri umani coinvolti in quello che facciamo (cioè nell’intera nostra vita personale e collettiva), il livello di sicurezza non potrà mai essere assoluto.
In realtà, il dramma del disastro aereo della Germanwings ci dovrebbe rimandare ad altre due considerazioni. In primo luogo, la sicurezza è una costruzione umana che come tale ci coinvolge come persone e comunità.
Al di là di tutto, rimane la questione dell’educazione in un mondo altamente tecnicizzato. Se non vogliamo considerare l’uomo semplicemente un problema, le nostre società devono tornare a dedicare più cura e più risorse alla formazione dei giovani.
Non basta formare bravi tecnici, occorre, soprattutto, formare persone. Ma su questo terreno, se vogliamo essere onesti, dobbiamo ammettere che negli ultimi anni sono stati fatti dei passi indietro.
La seconda considerazione riguarda la trascuratezza umana che caratterizza ormai gran parte dei luoghi di lavoro, dove a contare sono sempre più esclusivamente procedure, protocolli, tecnologie, performance. E dove la conoscenza delle persone — del loro carattere, della loro vita — è quasi rimossa.
Ad esempio, al di là dei certificati medici mai arrivati, rimane incredibile che nessuno si sia accorto della depressione del giovane pilota.
In conclusione, per quanto la nostra vita sociale sia sempre più mediata da sofisticati apparati tecnici, la variabile umana non può essere (per fortuna) cancellata. Invece di rimuoverla, forse dovremmo tornare a prendercene maggiormente cura.
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ANDREA TARQUINI, LA REPUBBLICA -
UN VENTICELLO freddo soffia sul tricolore tedesco che qualcuno ieri ha appeso a mezz’asta su un divieto di sosta, qui nella viuzza della villetta dove viveva Andreas Lubitz. E quando arriva lo scoop di Bild, rilanciato da siti, radio e sussurri, tutti — i vicini dei Lubitz, i passanti e i curiosi — rabbrividiscono. C’era un certificato di malattia per assenza irrinunciabile dal lavoro dal 16 al 29 marzo, stracciato in mille pezzi come tanti altri documenti medici, nel cestino accanto alla scrivania del cupo giovane renano, “lo sposo della morte”. E nelle tante casse di documenti, dischetti di computer e materiale d’inchiesta portate via dagli inquirenti, c’erano anche altre prove della sua malattia psichica, depressione profonda e acuta. Ma alla compagnia aerea, ai colleghi, forse anche ai genitori, Andreas aveva sempre mentito. E quindi, martedì scorso non avrebbe dovuto essere nella cabina di pilotaggio dell’A320, che ha mandato a schiantare su quelle Alpi francesi che tanto amava.
Day after di uno shock dopo l’altro, qui “Am Spiessweiher”, la breve viuzza che per qualche giorno rischia di strappare al Kurfürstendamm di Berlino il titolo di strada tedesca più famosa nel mondo. «Siamo tutti traumatizzati, e vi preghiamo, capiamo che state lavorando, ma lasciateci anche soffrire tranquilli e soli», ci mormorano i vicini, mentre un’elegante signora scende dalla nera Bmw 5, corre in casa e porta su un vassoio colmo di tazzoni di caffè americano ai giovani poliziotti che presidiano il luogo infreddoliti e stanchi. Andreas aveva mentito a tutti, aveva certificati di malattia scritti da diversi medici, e quindi il suo stato di salute era più grave che mai. Ma celava sempre la realtà a tutti, fanno sapere gli inquirenti della scientifica di Düsseldorf, dopo aver passato quella che sarà la prima notte di lavoro sulle prove raccolte e sequestrate. «Per esaminare le memorie dei computer ci vorrà più tempo », informa la Procura, e aggiunge: «Non c’era nessuna lettera d’addio, né alcun documento che desse indicazioni di fede politica estremista. Ma tante, tante prove di una malattia acuta, e continue terapie tuttora in corso». Aggiungono fonti dei servizi: «Non stiamo parlando di disturbi temporanei, no, quel ragazzo soffriva di turbe e mali psichici di lunga durata, non sono cose che si curano da un giorno all’altro ». Terapie recenti durate almeno un anno e mezzo. «Ma non è mai stato ricoverato da noi, quanto scrivono i media è falso», replica la clinica universitaria di Düsseldorf aggiungendo però una mezza ammissione: «Lo abbiamo visitato due volte, per indagini diagnostiche, a febbraio, e poi il 10 marzo scorso». Per quali sintomi e quali malattie i medici non lo dicono: non possono dirlo. L’obbligo del silenzio del medico qui è rigorosissimo. «Adesso comunque, abbiamo consegnato le cartelle cliniche del signor Lubitz alla Procura», aggiungo- no.
Andreas non avrebbe dovuto volare, quel martedì maledetto. Avrebbe dovuto restare a terra, appunto, dal 16 scorso fino a domani almeno. Ma quella diagnosi, lui se l’è tenuta per sé, come aveva sempre fatto con tutte le altre. Forse già pensava cosa fare quella mattina in volo, proprio sulle Alpi di cui era innamorato e appassionato da anni, fin da quando ci volava da pilota al debutto cercando il vento con l’aliante. «Noi di Germanwings non abbiamo ricevuto alcun certificato di malattia da parte sua», scrive la casa madre Lufthansa in un tweet. Terribile ma possibile. Anzi, legale: l’obbligo di informare il datore di lavoro di una malattia, anche per chi svolge lavori che comportano responsabilità per la vita altrui, qui ricade solo sul paziente, non sul suo medico.
«Aveva problemi psicologici, noi sul lavoro lo sapevamo», hanno confessato a Bild, chiedendo di restare anonimi, diversi dipendenti del gruppo Lufthansa. Già durante l’addestramento per il brevetto di pilotaggio, era stato dichiarato più volte «temporaneamente non idoneo al volo ».
La scuola di volo negli Usa, dove tutti i piloti della compagnia di bandiera tedesca imparano a volare anche se sono reduci dalla Luftwaffe, aveva applicato le regole della Federal Aviation Administration americana e lo aveva dichiarato non idoneo tout court . Ma ogni segnale di preallarme è stato inutile: agghiacciante eppure reale, alla compagnia aerea nessuno si era accorto che quel giovane pilota appassionato del volo fin da bimbo era una ticky time bomb, una pericolosa, ticchettante bomba a tempo. «Avrebbe dovuto lui di persona venire da noi, dai suoi superiori, e liberare i suoi medici curanti dall’obbligo del silenzio », si difendono quelli di Germanwings. Non ha mai voluto farlo. «Si capisce — spiega lo psicologo Fredi Lang — probabilmente, sia nelle fasi depressive acute sia in altri momenti, era terrorizzato dall’idea del pericolo di perdere per sempre il lavoro della sua vita».
Una vita di menzogne, un animo apparentemente vitale e gioioso da sere in discoteca come amici, vicini, ex compagni dell’aeroclub lo ricordano, «magari timido ma tranquillo e ben integrato con noi», ma in realtà chiuso su se stesso come un riccio. Forse problemi amorosi, un rapporto con una ragazza finito, insisteva anche ieri qualcuno. Ieri sera una televisione francese ha affermato che la fidanzata di Lubitz avrebbe in effetti confermato agli investigatori che l’uomo soffriva di «una grave depressione ». L’emittente però non cita fonti per questa informazione, ma aggiunge che la giovane sarebbe stata interrogata dagli investigatori tedeschi. Sono tanti gli elementi ancora da vagliare a fondo. In Germania e in Francia. «Le spiegazioni non ci bastano, vogliamo vederci chiaro di persona », fanno sapere gli inquirenti francesi che gestiscono l’insieme dell’inchiesta sulla catastrofe dell’A320 tedesco.
Il generale Jean Pierre Michel, numero uno della Direction de la Gendarmerie nationale, è giunto a Düsseldorf con il suo team, e da alcune ore è al lavoro senza sosta con i colleghi tedeschi: su quelle carte gettate nel cestino, quei certificati di malattia stracciati e nascosti, sui dischetti del computer dello “sposo della morte”. «Quando si è malati a tal punto », suggeriscono gli specialisti della polizia tedesca, «se vuoi suicidarti finisci per essere indifferente alla morte di altre persone. Come i passeggeri, o peggio: li invidi, perché li vedi normali e felici, come non ti senti più tu che non vuoi più vivere».
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MASSIMO RECALCATI, LA REPUBBLICA -
Andreas Lubitz, il giovane copilota del volo Germanwings che si è schiantato con il suo aereo sulle cime alpine dell’Alta Provenza, ha deciso di sopprimere la propria vita. Non lo ha fatto nel chiuso della propria camera. Ha programmato di farlo sul suo posto di lavoro. Ha voluto farlo nel cielo. Quante volte ci avrà pensato prima? Quante altre volte avrà sfiorato l’abisso della morte? E, soprattutto, per quale ragione darsi la morte, per quale ragione decidere di togliersi la vita? Non possiamo rispondere a queste domande. Non è possibile fare nessuna psicopatologia del copilota del volo di linea della Germanwings 4U9525, Barcellona- Düsseldorf.
Non si può però trascurare l’orrore di questo atto. Perché nella sua scelta di darsi la morte questo giovane non ha tenuto in conto che avrebbe portato con sé altre vite umane. Non ha considerato che il proprio atto suicidario lo eleggeva a boia, a giustiziere di fatto. Altre vite oltre la sua sono morte con lui. Vite che non volevano morire, vite che volevano vivere, che erano, alcune tra loro, appena venute alla luce del mondo.
Non si tratta di demonizzare l’atto suicidario in sé, che resta un atto profondamente umano. Per questo Lacan aveva fatto del gesto suicida di Empedocle che si getta nel cratere infuocato dell’Etna il paradigma della differenza tra vita umana e vita animale. La vita umana, diversamente da quella animale che è assorbita integralmente dall’istinto e dalla sue leggi necessarie, ha sempre il potere di dire di “no!” alla vita, di scegliere di vivere o di morire.
L’atto suicida del copilota An- dreas Lubitz appartiene, rispetto a quello di Empedocle, ad un altro universo. Non segnala affatto l’elevazione simbolica della vita umana al di là di quella animale, ma la sua alienazione nelle spirali mortifere del narcisismo. Non è vero che non ha tenuto in conto che stava dando la morte ad altre vite. Egli si uccide decidendo di uccidere altre vite perché ritiene che tutto il mondo si esaurisca nel proprio Ego. Il sentimento dell’alterità gli è totalmente assente. La sua depressione rivela qui il suo fondamento narcisistico. Se io non sono nulla nel mondo anche il mondo deve essere nulla.
Accade anche in quei delitti dove chi si suicida è stato un attimo prima l’assassino brutale delle sue vittime, non a caso, solitamente, suoi familiari o suoi cari: se mi lasci mostrandomi che non ho più alcun valore io distruggo la tua è la mia vita. Per questa ragione il suicidio del copilota va distinto da quello, altrettanto esecrabile, dei kamikaze terroristi. In questi casi l’Ego non trionfa ma sembra sottomettersi — sino all’estrema ratio del sacrificio individuale — al potere ipnotico della Causa. Il terrorista suicida rinuncia alla propria vita per fare la volontà impersonale della Causa. In primo piano c’è un fanatismo collettivo; lo sterminio degli innocenti avviene per realizzare i disegni superiori della volontà di Maometto, del popolo, della Storia o della Razza.
È l’identificazione cieca alla Causa che toglie ogni dubbio all’azione del terrorista rendendolo paradossalmente, anziché carnefice, martire. Nel caso invece di Lubitz non c’è nessuna Causa in gioco, se non quella irrinunciabile del proprio Ego. Per questa ragione è un suicidio tragicamente in linea con la cifra fondamentale del nostro tempo: la sola Causa che conta in Occidente rischia di essere quella dell’affermazione solitaria del proprio Ego. L’Altro non esiste, è un’ombra debole, solo una parvenza. Sapeva il giovane copilota che la sua immagine sarebbe rimbalzata su tutti i media. Sapeva che il suo ego sarebbe stato protagonista. Coloro che ha trascinato con sé nel baratro della morte erano le comparse necessarie a fargli da sfondo. Il suo odio per la vita non poteva fare superstiti. Non c’è niente di più folle del narcisismo dell’ego.
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TONIA MASTROBUONI, LA STAMPA -
Nessun accenno, nel comunicato degli inquirenti di Duesseldorf che stanno indagando su di lui e che hanno perquisito il suo appartamento e quello dei genitori a Montabaur, a problemi psichici. Ma gli indizi sul fatto che Andreas Lubitz soffrisse di depressione si moltiplicano di ora in ora. Secondo la procura, era in congedo per malattia e aveva deciso di lavorare lo stesso, strappando i certificati. «Spiegel» online sostiene che i medici gli avessero addirittura prescritto un periodo di astensione dal lavoro che andava dal 16 al 29 marzo.
La procura del capoluogo del Nordreno-Westfalia, tuttavia, ha anche specificato che il pilota ventisettenne non aveva lasciato indizi che facessero pensare «a motivazioni politico-religiose». Quel che è certo è che avesse deciso «di nascondere la malattia ai suoi datori di lavoro e ai suoi colleghi».
Salute instabile
Ieri mattina un quotidiano, poi smentito, ha dato notizia specifica che Lubitz fosse in cura all’Uniklinikum di Duesseldorf per depressione. Tuttavia l’ospedale ha ammesso che il pilota Germanwings era stato visitato a febbraio e a marzo (l’ultima visita risale al 10 di questo mese) per degli «accertamenti diagnostici». E la «Suddeutsche Zeitung» sostiene che fossero diversi i medici ai quali si rivolgeva il pilota.
Quello che anche l’amministratore delegato di Lufthansa ha ammesso è che sei anni fa Lubitz interruppe la sua formazione, anche se non ha specificato perché. Secondo numerose fonti, sembra sia stato sei mesi in terapia psichiatrica prima di completare la sua formazione da pilota. L’episodio è rimasto agli atti, nella documentazione del dipartimento del traffico aereo tedesco, con il codice «Sic», che indica la necessità che l’interessato sia sottoposto a «controlli medici regolari». Un altro particolare emerso ieri è che alcuni colleghi, a causa di un periodo di undici mesi in cui aveva lavorato da steward, lo avessero soprannominato «Andy pomodoro».
Il recupero dei rottami
Intanto, mentre moltissime compagnie aeree si stanno adeguando alla regola di prevedere due persone nella cabina di pilotaggio, in Francia continua il faticoso lavoro di recupero dei resti dell’aereo e la ricerca della seconda scatola nera, quella con i dati di volo, di cui è stato trovato solo l’involucro. La gendarmeria francese, che sta lavorando al ritrovamento dei cadaveri dei passeggeri dell’Airbus A320 nella zona del disastro, ha fatto sapere di aver rinvenuto finora tra i 400 e i 600 resti umani. «Purtroppo non abbiamo trovato alcun corpo intatto», ha dichiarato il colonnello Patrick Touron. Inquirenti e tecnici specialisti stanno setacciando l’area impervia dell’incidente a caccia di ogni dettaglio. Per aiutare l’identificazione, i familiari delle vittime hanno fornito oggetti come gli spazzolini da denti per consentire l’estrazione del Dna dei loro cari.
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TONIA MASTROBUONI, LA STAMPA -
È a metà strada tra Colonia e Francoforte ed è nota per essere una stazione dei treni dell’alta velocità, per il suo castello pseudomedievale giallissimo e perché fa un freddo polare. In questa enclave di ghiaccio della Renania, a Montabaur, la principale fonte di pettegolezzi è stata per anni Ralph Dommermuth, patron del colosso internet «1&1». Un miliardario geniale che si è fatto costruire un villlone da 30 milioni di euro su una collina e voleva riempire il suo laghetto artificiale con l’acqua potabile. Anche se è il principale datore di lavoro di questo paesino di dodicimila anime, il panettiere ci tiene a farmi vedere la foto su Google Maps, non senza un pizzico di malizia. «Vede». Con pollice e indice allarga la foto sull’Ipad: «Qui voleva piantare delle palme. Ma quando sono arrivate, le ha rimandate indietro, dice che erano storte». Quando cito Andreas Lubitz, si ritrae di scatto, come punto da una tarantola. «Non ho nulla da dire. Non lo conoscevo. Ma lei è una giornalista?».
«Ragazzo timido»
Un destino cui gli abitanti di Montabaur faticano ad adeguarsi. Precipitati da un giorno all’altro dai pettegolezzi sul miliardario locale all’inspiegabile atrocità di un omicida. Anche ora che cominciano ad emergere dettagli sulla vita privata di Lubitz, è enorme il mistero sui motivi del suo gesto folle. Un insegnante del liceo Mons-Tabor lo conosceva. Lui non vuol essere citato. «Cosa vuole che le dica? Era uno senza caratteristiche particolari. Un po’ timido», sostiene. In serata, il settimanale Focus sostiene che Lubitz avesse comprato di recente due Audi, una per sé, una per la sua fidanzata. Nessuna conferma su eventuali screzi o separazioni tra i due. Anzi, stavano insieme da sette anni, l’anno prossimo si sarebbero sposati. Tuttavia, secondo alcune fonti di stampa i due stavano attraversando «una pesante crisi di coppia».
Il pilota Germanwings che ha provocato la più grave strage dei cieli della storia tedesca era un ragazzo come mille altri, gli piaceva la musica elettronica, su Facebook era fan di un gruppo satirico dal titolo «Cosa fanno gli uomini quando sono da soli» che mostra video in cui uomini si rendono ridicoli cadendo nelle buche o altro. Da quando aveva quattordici anni prendeva lezioni di volo e coltivava il sogno di diventare pilota. Le sue stanze erano tappezzate di fotografie di aerei. L’altro grande amore di Lubitz era la corsa, passione che condivideva con il padre.
Nessuna lettera d’addio
Ieri, nella tarda mattinata, da Duesseldorf è arrivata la notizia del giorno, il comunicato degli inquirenti che smentisce le notizie su presunte lettere d’addio e precisa che «non ci sono appigli per pensare a un motivo religioso o politico» per il suo gesto. Soprattutto, durante la perquisizione hanno trovato certificati medici strappati. «Presumiamo - si legge nella nota - che abbia nascosto la sua malattia ai datori di lavoro e ai colleghi». Un dettaglio che non fa altro che aggiungere mistero a mistero. La nota non parla nello specifico di problemi psichiatrici, ma diverse fonti concordano che Lubitz soffrisse, da anni, di depressione.
Montabaur assediata
Per cercare di capire qualcosa in più, vale la pena cercare i luoghi della sua infanzia. Il tassista mi avverte subito che conviene che lo affitti per tutto il giorno perché non ne troverò mai più un altro. Il paese è un unico, gigantesco assedio di giornalisti. A casa dei genitori, a sbarrarci la strada non sono soltanto sette poliziotti. Arrivata nella stradina tranquilla di casette a schiera dove vivono i Lubitz, conto dodici pullmini di troupe televisive e decine di cronisti con microfoni e taccuini in mano. Peraltro, le serrande bianche della casa al civico 8 sono tutte abbassate, il giardino curatissimo è l’unico angolo sgombro. Il padre e la madre neanche ci sono, sono a Marsiglia, per parlare con gli inquirenti. E da Le Vernet rimbalza la notizia che avrebbero anche incontrato i genitori delle vittime. La moglie del sindaco ha poi raccontato «non ho visto rabbia nei loro confronti, ma solo comprensione».
La rabbia dei vicini
A un certo punto si sente un grido. Una vicina dei Lubitz ha spalancato la porta di casa. Indossa pantofole con un gigantesco pompon rosa. Urla a squarciagola: «Andatevene, basta!». Sono episodi frequenti, in queste ore. Il proprietario di un bistrot poco lontano da lì, si stringe nelle spalle: «Che vi aspettate? Ci avete trasformati nel paesino degli orrori. Qui siamo molto credenti e siamo persone perbene. Non c’è niente! I suoi genitori che colpa hanno? Ci pensate mai che hanno perso un figlio? Sono brave persone».
Il nervosismo è tangibile ovunque, anche davanti alla chiesa dove la madre suona l’organo e cura il coro. Gli sguardi dei fedeli che escono sul sagrato, sono torvi, le bocche cucite. Una signora anziana, Luise, ammette di essere «sconvolta» e che «questi sono i giorni più brutti, per la nostra comunità. Ci chiediamo tutti perché abbia ucciso tutte quelle persone». Mentre il tassista mi riaccompagna alla stazione, anche lui racconta che tutti, nel paese, sono afflitti da una domanda sola: «Se si voleva suicidare, perché non è andato nel bosco e si è impiccato? Perché ha trascinato altre 149 persone e noi tutti in un incubo da cui non usciremo mai?».
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ROBERTA MIRAGLIA, IL SOLE 24 ORE –
Si sottoponeva regolarmente a cure mediche, Andreas Lubitz, il copilota ventisettenne di Germanwings che secondo gli investigatori ha deliberatamente fatto schiantare l’Airbus sulle Alpi francesi. Ma lo nascondeva all’azienda.
Anche quel tragico martedì non avrebbe dovuto essere in servizio: la polizia ha trovato nel suo appartamento un certifcato medico per l’astensione dal lavoro che il giovane però non ha consegnato alla società, prendendo posto nella cabina dell’A320 diretto da Barcellona a Dusseldorf. E mettendo fine alla sua vita e a quella di altre 149 persone dopo otto minuti di discesa dolce tra le montagne, comportamento abbastanza anomalo in un suicidio. Uno dei tanti misteri della strage sulla montagna.
Altre volte, secondo le notizie che filtrano dalla procura di Dusseldorf, Lubitz aveva ignorato i certificati del dottore. Nessuno dice con chiarezza se i problemi sanitari di oggi fossero ancora quelli del 2009, quando si manifestò un grave episodio depressivo che lo costrinse a interrompere la scuola di volo.
Alcuni inquirenti, citati da agenzie di stampa internazionali, parlano di un disturbo mentale senza specificare altro. Il Wall Street Journal avrebbe invece avuto conferma che il paziente Lubitz era in cura da uno psichiatra che gli aveva prescritto di non andare a lavorare per vari giorni, compreso il 24 marzo, giorno del disastro.
Una circostanza che apre tanti interrogativi: se il medico che lo aveva in cura temeva che il pilota potesse mettere a rischio la vita dei passeggeri avrebbe o no dovuto venire meno al segreto professionale e avvisare l’azienda?
Il giorno dopo la scioccante verità rivelata dalla scatola nera, con la voce del comandante fuori dalla cabina che bussa alla porta per farsi aprire dal collega chiuso dentro, emergono particolari che moltiplicano gli interrogativi su una serie di fatali omissioni e lacune nei controlli sui comportamenti di professionisti a cui ogni giorno viene affidata la vita di migliaia di persone. Una catena inquietante di sottovalutazioni e disattenzioni che ha distrutto per sempre l’esistenza dei 149 passeggeri e delle loro disperate famiglie.
Perché non hanno funzionato i controlli psico-attitudinali effettuati da una delle principali compagnie aeree al mondo? Possibile che a Lufhtansa nessuno si fosse accorto che il giovane aveva sofferto, forse soffriva ancora, di disturbi mentali?
Sei anni fa Lubitz, appena ammesso alla scuola di volo della compagnia di bandiera tedesca, a Phoneix in Arizona, interruppe l’addestramento per un anno e mezzo. Secondo alcune testimonianze raccolte dai media tedeschi il ragazzo, poco più che ventenne, soffriva di depressione e attacchi di panico. I suoi istruttori, e dunque Lufhtansa, conoscevano il motivo dell’assenza? Il quotidiano Bild ha avuto accesso a parte dei documenti. Dai quali emergerebbe una circostanza che, se confermata, aggiungerà benzina al fuoco delle polemiche del dopo disastro. Nel 2009 gli addestratori avrebbero definito il giovane “inadatto a volare”. Ma in seguito, come ha sottolineato la compagnia aerea, Andreas aveva superato tutte le prove.
Il copilota continuava a curarsi, del resto, come confermano i tanti certificati di malattia trovati nelle due case in cui faceva la spola: l’elegante villa dei genitori a Montabaur e l’appartamento in una palazzina residenziale a Dusseldorf.
Era stato in clinica, anche di recente. L’ultima visita risale al 10 marzo presso l’Ospedale universitario di Dusseldorf che per rispettare la privacy non ha divulgato, naturalmente, la ragione dei controlli.
Un comunicato diramato ieri si limita a confermare le indiscrezioni: Lubitz aveva iniziato un periodo di cura a febbraio 2015 e l’ultima visita era stata effettuata il 10 marzo per «chiarimenti diagnostici» ma, ha aggiunto la clinica universitaria, «le notizie secondo cui fosse in cura per depressione sono inesatte». Anzi, altre indiscrezioni raccolte ieri accennano a problemi fisici, non psicologici. Andreas, stando alle ultime ricostruzioni, in effetti non curava la depressione in ospedale ma in un altro centro.
Per l’autorità federale tedesca del trasporto, infine, il pilota aveva bisogno di «particolari controlli medici da effettuare con regolarità», come ha scritto Bild.
Molto mistero circonda ancora quest’uomo cresciuto nella provincia tedesca, amante degli aerei fin da bambino al punto da essere definito «fanatico» da alcuni vecchi amici: aveva la stanza tappezzata di immagini di velivoli, vecchi e nuovi, il marchio Lufthansa e strumenti per il volo erano disseminati ovunque.
Gli inquirenti si starebbero concentrando su un possibile movente, tutto da verificare, per il folle atto: Lubitz era in crisi con la fidanzata che avvrebbe dovuto sposare l’anno prossimo. Ma forse era nel panico perché a luglio avrebbe dovuto sottoporsi all’annuale screening per rinnovare la licenza a volare e temeva di non passarlo.
Sono soltanto ipotesi, per il momento. Presto si saprà di più mentre Lufthansa dice che potrebbe rivedere le procedure di controllo dei piloti e le compagnie aeree aggiornano le procedure adottate dopo l’11 settembre al fine di proteggere meglio equipaggio e passeggeri. L’Easa, agenzia Ue per la sicurezza aerea, ha pubblicato una raccomandazione temporanea che prevede la presenza di non meno di due membri dell’equipaggio nella cabina durante il volo.
Alcuni vettori hanno annunciato la decisione di essersi adeguati a questo standard tra giovedì e ieri, altri già prima della strage osservavano la regola. Anche Lufthansa e Germanwings non lasceranno d’ora in poi un solo uomo in cabina di pilotaggio.
Roberta Miraglia
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VITTORIO EMANUELE PARSI, IL SOLE 24 ORE -
«Apriamo una breccia nella cinta di mura che attornia la città. Ognuno dà una mano a sottoporre ruote scorrevoli al cavallo, a legare al suo collo lunghe funi. La macchina fatale ha già passato le mura, piena d’armi, mentre intorno i fanciulli e le vergini cantano gli inni rituali felici di toccare per gioco le funi con le mani. E la macchina avanza, scivola minacciosa in mezzo alla città». Sono le parole, note a generazioni di studenti italiani, con cui Enea racconta a Didone la storia del Cavallo e della tragica fine della città di Troia, le cui celebrate mura, capaci di respingere per dieci anni le schiere degli Achei, nulla poterono contro l’astuzia di Ulisse. Così, le misure di sicurezza, adottate dopo l’11 settembre per proteggere la cabina di pilotaggio da un assalto proveniente dall’esterno, si sono rivelate fatalmente invalicabili per chi cercava di sventare una minaccia, questa volta proveniente dall’interno. È la dimostrazione che non esiste la sicurezza assoluta o che «nessun sistema al mondo potrà mai impedire un simile atto isolato» e che «i piloti della compagnia e della sua controllata low cost sono i migliori al mondo», come ha tenuto a precisare il presidente della Lufthansa Carsten Spohr? Sarà. Ma rivela anche che ignorare la leggenda del Cavallo di Troia può essere letale anche a migliaia di anni da quando il testo di Virgilio è stato composto.
Certo la fatalità e la pazzia consentono di scaricare sul copilota ogni responsabilità. Ma occorre precisare che in tal caso non si può parlare di “errore umano” di chi era in quel momento ai comandi, perché uccidersi provocando una strage era esattamente l’intento di Andreas Lubitz.
Come abbia potuto nascondere una situazione psichica del tutto incompatibile con una professione tanto delicata va chiarito; così come va chiarito quanto siano efficaci i sistemi di valutazione così come applicati dalla compagnia tedesca. Una cosa è certa: c’è stata una serie di errori, a cominciare da un sistema che ha evidentemente peccato disastrosamente nella valutazione delle condizioni psichiche di Lubitz che tutto era tranne che uno di quei piloti «migliori al mondo» per citare la definizione che il leader di Lufthansa ha scelto per i suoi dipendenti.
I toni, le parole, gli argomenti per gestire la comunicazione di una tragedia tanto devastante avrebbero richiesto, probabilmente, maggiore umiltà. E diventa assai poca scusante anche quella di un’azienda che fosse preda di una sindrome da ricerca della perfezione non quindi in grado di ammettere errori anche davanti all’evidenza. Errori ci sono stati, eccome; nel reclutamento, nel controllo, nella formazione.
Così come si è dimostrato ormai un errore la procedura che consente di lasciare un uomo solo al comando di un “bestione” in grado di trasportare oltre 150 persone senza alcuna “ridondanza” rispetto alla crisi repentina del fattore umano. L’ossessione del terrorismo ha blindato le cabine per impedire accessi dall’esterno, ma non può significare - all’eccesso opposto - l’impossibilità di intervento in caso di anomalie interne.
Ma come, una serie di comandi e strumenti sono duplicati sugli aerei e sulle navi proprio per far fronte a un eventuale guasto e il malfunzionamento umano è invece trattato con tanta leggerezza? Potrebbe un motore impazzito costringere a spegnersi l’altro? No. Può un pilota impazzito impedire all’altro di intervenire? Sì, e abbiamo appena visto con quali conseguenze.
Praticamente tutte le compagnie aeree (tuttavia con qualche eccezione) adottavano fino a ieri procedure simili a quelle della Lufthansa, e da oggi tutte le hanno cambiate. Se una cosa questa tragedia segnala, però, è la presenza di una falla nel sistema della sicurezza interna alla compagnia, mette in luce l’inadeguatezza della vigilanza verso l’interno (chi siede in cabina di pilotaggio) e non certo quella verso l’esterno (i passeggeri in carlinga).
Ora diventa argomento per le compagnie di assicurazioni e non è nemmeno pensabile che cominci un gioco di scarico di responsabilità che offenderebbe innanzitutto le vittime e i loro parenti oltre che il senso comune di una opinione pubblica ormai globale.
Quando qualche anno fa un aereo egiziano si schiantò presumibilmente per volontà del suo comandante, tutti pensarono “come diavolo li scelgono e li controllano i piloti in Egitto?” e non solo alla fatalità o all’imprevedibilità dell’atto isolato. Se Herr Spohr si ponesse qualche interrogativo in più sulle politiche della compagnia che presiede, fornirebbe un migliore contributo ad evitare il ripetersi di simili tragedie.
Vittorio Emanuele Parsi
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FRANCESCA PIERANTOZZI, IL MESSAGGERO –
«Andreas Lubitz era un fissato, voleva diventare pilota, ma era mentalmente instabile» dice al Passauer Neuen Presse un non meglio identificato «ex compagno di classe» del «copilota amok», il copilota pazzo, come ormai lo definiscono i tedeschi. Adesso che si sa che Andreas ha schiantato volontariamente l’Airbus di Germanwings e i suoi 149 passeggeri contro le Alpi, tutti quelli che lo conoscevano rivelano un «instabile», ossessionato dalla sua passione del volo, uno psicolabile. Il «ragazzo sportivo, sorridente, tranquillo» di cui avevano all’inizio parlato i colleghi del club di volo, i vicini di casa, i conoscenti, piano piano scompare.
Ieri anche la ragazza, interrogata dai magistrati tedeschi, lo ha confermato: «Sì, era depresso». Una loro crisi potrebbe essere all’origine del gesto terribile di Andreas. Una crisi che Andreas non avrebbe potuto sopportare, o voluto accettare. Erano insieme da tempo. Entrambi sportivi, condividevano, secondo alcuni amici, la passione per la corsa. Lui aveva anche collezionato qualche buon risultato in competizioni locali. Poche settimane fa, aveva comprato due Audi in un concessionario di Düsseldorf, una per sé e una per la ragazza. Un’auto era già stata consegnata lo scorso fine settimana.
I compagni del club di volo Lsc Westerwald, dove aveva cominciato quasi ragazzino, parlano sempre meno. Non raccontano più del giovane «educato, divertente, pieno di spirito anche forse ogni tanto un po’ riservato, pieno di amici» di cui hanno parlato all’inizio. Ieri, un suo amico che lo conosceva bene, descrive «un ragazzo che aveva un solo sogno, un unico obiettivo: volare. Era la cosa che aveva sempre voluto fare, fin dalla scuola elementare». E descrive la sua camera da letto, impressionante per qualcuno che non lo conoscesse: «Interamente tappezzata di foto e disegni di aerei, quasi tutti di Lufthansa, dai vecchi modelli fino a quelli più moderni».
Eppure tanti conoscenti, soprattutto i vicini della casa dove è cresciuto, a Montabaur, 1.2500 abitanti, dove veniva ancora spesso, dai genitori e dal fratello più piccolo, non riescono a crederci: «Mai sentito la famiglia parlare di problemi psichici - ha racconta un vicino di casa, Johannes Rossbach, 23 anni - quando lo incontravo era sempre cortese e sorridente». Ma un altro abitante del quartiere, amico d’infanzia, intervistato dalla francese Europe 1, ha raccontato «della sua depressione, che era nota a molti, qui in paese. Sapevamo che anche l’anno scorso non era stato bene, ma non so perché. A un certo punto, mi pare che qualcuno delle nostre conoscenze avesse detto che non avrebbe dovuto volare, che vista la sua depressione non poteva fare il suo lavoro». Volare: una passione, un’ossessione.
Come le Alpi, proprio quelle Alpi francesi del Sud dove ha lanciato come un proiettile l’Airbus di Germanwings. La montagna era la sua grande passione e a pochi chilometri dalla scarpata dello schianto era andato qualche anno fa a volare con l’aliante in compagnia di altri appassionati, tra cui Dieter Wagner, intervistato ieri dall’Ansa. «Anni fa andammo tutti insieme proprio da quelle parti - ha raccontato - Andreas, che era amico di mia nipote e volava spesso insieme con lei, amava tremendamente le Alpi francesi. Volammo proprio a qualche chilometro da dove è precipitato l’aereo».
Qualcuno alla Westerwald ha ancora voglia di dire una cosa, di indicarla piuttosto: un biposto ultraleggero, bianco: «Su un aereo come questo, se non proprio su questo, Andreas ha imparato a volare. Questo modello ha un posto a sedere per l’insegnante. Poi si va liberi».
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FLAMINIA BUSSOTTI, IL MESSAGGERO -
Al dolore per la morte, anche il dubbio sulla salute mentale del figlio, e il fardello della “colpa” per la strage di 149 persone innocenti: i genitori di Andreas Lubitz sono vittime anche loro del peggiore disastro dell’aviazione tedesca. Su di loro il carico di un figlio perso in una tragedia immane, senza neppure il magro conforto di poterlo piangere come vittima, bensì come un carnefice criminale o, nella migliore delle ipotesi, come uno psicopatico folle. Il rimorso, forse, di non aver compreso appieno il suo dolore, quel male oscuro di cui soffriva.
LE PERQUISIZIONI
Attorno ai due genitori, i media e gli inquirenti tedeschi hanno alzato un muro di silenzio. Ieri la loro casa a Montanbaur, la cittadina a due passi da Coblenza nella Renania-Palatinato, dove viveva anche il figlio Andreas, è stata perquisita da agenti della polizia tedesca, che hanno portato via cartoni pieni di materiale e documenti e pezzi di computer. Parallelamente la polizia aveva perquisito anche l’appartamento alla periferia di Duesseldorf, dove Andreas Lubitz pure abitava alternandosi con la casa dei genitori. Le perquisizioni sono durate quattro ore.
SUL LUOGO DELLA STRAGE
La villetta a Montanbaur viene protetta da un cordone di sicurezza della polizia. I genitori vengono tenuti al riparo da ogni contatto esterno: un po’ evidentemente per proteggerli, nello loro stato di shock, da ulteriori traumi, e un altro po’ verosimilmente per non contaminare le indagini con fughe incontrollate di notizie e illazioni.
Della madre di Andreas si sa che lavorava come organista nella chiesa della locale comunità evangelica. Il padre avrebbe un impiego come ingegnere nell’industria del vetro in Svizzera. Ieri i due si sono recati sul luogo della sciagura a Le Vernet, in Francia, dove si trovavano anche i familiari dei membri dell’equipaggio morti nella sciagura e quelli dei passeggeri morti. «Non ho visto rancore», assicura Joel Balique, la moglie del sindaco di questo paesino di montagna, sulle Alpi francesi dell’Alta Provenza, sconvolto dal disastro aereo.
La donna ha stretto le mani di tutti coloro che si sono fermati davanti alla montagna dello schianto. Compresi proprio i parenti di Andreas. «La rabbia, forse, verrà dopo. Io ho visto soltanto tanta comprensione per una famiglia - ribadisce - che ha perso il proprio figlio». Nessuna distinzione nel dolore, dunque, sulla lapide posta a tempo di record davanti al massiccio dei Trois Eveches e già ricoperta di fiori, fotografie e bigliettini. «Queste persone - continua la moglie del primo cittadino - porteranno dentro la stessa angoscia di tutti coloro che sono stati colpiti da questa terribile tragedia».
LE FAMIGLIE DIVISE
Le famiglie, insieme dalla Germania all’aeroporto di Marsiglia, sono arrivate a Le Vernet separate. Da una parte quelle dei passeggeri, dall’altra quelle dell’equipaggio. I due gruppi si incrociano soltanto sul grande prato del piccolo villaggio trasformato in centro di accoglienza. «Non ho visto rabbia nei loro confronti - insiste la signora Balique - ma solo compassione». «Nessun rancore - conferma suo marito, il sindaco di Le Vernet, Francois Balique - anche se credo che per arrivare al perdono ci vorrà tempo».
Flaminia Bussotti