Roberto Toscano, La Stampa 28/3/2015, 28 marzo 2015
LO YEMEN E LA GUERRA DI RELIGIONE
Se qualcuno pensava che il caos medio-orientale avesse raggiunto il suo massimo – dall’Iraq alla Siria alla Libia – dovrà ricredersi, e aggiungere invece un altro elemento di spicco alla cartografia di un conflitto che ormai ha preso le dimensioni di un confronto che coinvolge l’intera regione.
Si tratta dello Yemen, un Paese che da tempo risultava immerso in una spirale interna di destabilizzazione, ma che oggi è diventato un terreno di scontro globale che vede la partecipazione di forze armate di vari Paesi. E’ stata l’Arabia Saudita a lanciare un attacco in grande stile in quella che è stata battezzata «Operation Decisive Storm», e che vede la partecipazione di 150.000 soldati, 100 aerei da combattimento e alcune unità navali.
Ma si sono mossi anche alcune decine di cacciabombardieri di Bahrein, Qatar, Kuwait, Giordania e Sudan. Nello stesso tempo, anche l’Egitto ha annunciato una sua partecipazione all’operazione con unità aeree e navali, e anche, «se si rendesse necessario», con truppe di terra.
Quello che si vedeva arrivare si sta dispiegando senza limiti e senza esclusione di colpi: una contrapposizione fra sunniti e sciiti che fa ricordare il lungo periodo di guerre di religione nell’Europa spaccata fra cattolici e protestanti. Non serve molto sostenere che la contrapposizione ha un’etichetta religiosa piuttosto che un contenuto religioso. Lo scontro avviene infatti sulla base di concreti interessi contrapposti, e consiste in una sorta di internazionalizzazione di irrisolti problemi di natura interna. Siamo infatti di fronte a regimi di segno diverso, ma tutti fondati sulla repressione gestita da spietate polizie politiche (il Mukhabarat), immersi nella più sfacciata corruzione, nel nepotismo, nell’appropriazione delle risorse del Paese in sistemi che sono a ragione definiti come «estrattivi». In questo contesto di inesistente legittimazione politica i perdenti, gli esclusi dal potere e dalle risorse economiche, trovano – dopo la fine dei riferimenti ideologici che prevalevano nella fase precedente (nazionalismo arabo e socialismo arabo, entrambi riferiti a un contesto di Guerra Fredda) - un rimpiazzo da parte di identità tribali ma soprattutto religiose. L’Islam politico, nelle sue declinazioni che vanno dal movimento dei Fratelli Musulmani allo Wahabismo di ispirazione saudita, ma che si definisce soprattutto lungo la bipartizione sunnismo (maggioritario) e sciismo (minoritario).
Va ricordato che lo sciismo nacque subito dopo la morte del Profeta da uno scontro sul tema della sua successione (per elezione tribale per i sunniti, per discendenza familiare secondo gli sciiti), e che per secoli questi ultimi furono, nell’Islam, i minoritari, i settari dissidenti, e anche gli oppressi e spesso i perseguitati da parte dei sunniti. La rottura di questo schema avvenne nel 1979 con la rivoluzione iraniana - per i sunniti un vero e proprio scandalo inaccettabile, non solo per motivi di settarismo religioso, ma perché lo sciismo andava al potere in un Paese considerato storicamente dagli arabi come una minaccia, un Paese erede di una Persia dalle incontenibili pretese di egemonia regionale. Per capire la profondità di questa storica ostilità basti ricordare che ancora oggi gli iraniani vengono chiamati dagli arabi «Safavi», con riferimento alla dinastia safavide che nel ’500 proclamò la religione sciita come religione dello Stato.
Ma il secondo trauma, per i sunniti - e in primo luogo per i sauditi, principali contendenti geopolitici dell’Iran - fu la sconfitta di Saddam Hussein, e la comparsa di un secondo importante Paese retto da un governo sciita. Non da oggi i sauditi appoggiano le correnti più estreme e radicali dell’Islam politico. Ad esempio, alle origini di Al Qaeda troviamo non solo il saudita Bin Laden, ma l’appoggio dei soldi e dei servizi sauditi in un rapporto rotto da Bin Laden, e non dai sauditi, quando Riad accettò, al tempo della Prima Guerra del Golfo, lo schieramento di truppe americane nel «sacro territorio» saudita. In fondo questo schema si è ripetuto anche nei confronti del jihadismo più estremo, appoggiato fino al momento in cui esso non ha cominciato a configurare una minaccia capace di mettere in forse la stabilità interna del regno saudita.
La contrapposizione sunniti-sciiti non era finora l’unica a determinare gli schieramenti e le strategie. Ad esempio l’appoggio saudita al colpo di stato in Egitto si spiega con la preoccupazione che un movimento come quello dei Fratelli Musulmani, una versione popolare e moderna dell’Islam politico (sunnita) – potesse far presa sulla stessa popolazione dell’Arabia Saudita, e nello stesso tempo costituire, anche sotto il profilo regionale, un polo alternativo, non solo ideologico. Di qui non solo l’appoggio, al suono di miliardi di dollari, al regime del generale Sisi, ma anche la dura contrapposizione con i due Paesi musulmani che avevano appoggiato l’effimero esperimento del governo dei Fratelli Musulmani: il Qatar e la Turchia.
Quella contrapposizione non è certo superata, come dimostra il fatto che in Libia i sauditi e gli egiziani appoggiano il governo di Tobruk, mentre i turchi e i qatarini appoggiano gli islamisti di Tripoli. Le guerre in Medio Oriente sono difficili da concludere soprattutto perché sono quasi sempre «proxy wars», guerre per procura. Eppure lo schieramento pan-sunnita delle forze che intervengono nello Yemen dimostra che il conflitto principale è sempre più quello fra sunniti e sciiti – in realtà declinazione religiosa di una contrapposizione molto concreta e per niente spirituale fra Iran e Arabia Saudita.
L’autorevole Foreign Policy dava ieri per scontato che gli Houthi (appartenenti al ramo «zaidita» dello sciismo) siano appoggiati dall’Iran, ma sollevava un interrogativo sull’entità di questo appoggio, e soprattutto se esso si inserisca in un disegno o in una decisione opportunistica in risposta all’evolvere della situazione. Fino a poco tempo fa, anche la maggioranza degli analisti americani propendeva per la tesi di un appoggio limitato e non strategico, come del resto si riteneva generalmente in relazione ai legami fra Teheran e maggioranza sciita del Bahrein, repressa con l’appoggio anche militare saudita dalla minoranza sunnita. Oggi però la questione risulta ormai accademica, dato che sembra che la contrapposizione violenta e generalizzata fra sunniti e sciiti, storicamente tutt’altro che costante e soprattutto intrecciata a ben altri parametri di divisione, si configuri come la tipica «profezia auto-realizzata».
Le ripercussioni saranno certamente profonde ma difficilmente prevedibili, soprattutto sulle sorti dello Stato Islamico, evidentemente non il nemico principale per i sauditi, nonostante i timori di sovversione interna. La già poco convinta partecipazione araba alla coalizione anti-Isis non sembra destinata a durare, e l’Iran resterà sempre più solo nel sostegno al governo di Baghdad.
Per gli americani, infine (e soprattutto per il presidente Obama), i dilemmi diventano ancora più complicati, soprattutto nel momento in cui un miglioramento dei rapporti con l’Iran - considerato non a torto come l’unico soggetto regionale in grado di fermare lo Stato Islamico e con cui Washington è impegnata nel cruciale negoziato nucleare - è diventato ancora più clamorosamente contraddittorio non solo con i rapporti degli Stati Uniti con Paesi come Arabia Saudita ed Egitto oltre che con il sempre più problematico Israele, ma con l’intero mondo sunnita, che sullo Yemen ha trovato una inusitata compattezza.