Daniela Ovadia, Mente&Cervello 27/3/2015, 27 marzo 2015
IL GPS NEL CERVELLO
Incontrare un premio Nobel mette in agitazione anche il giornalista più consumato. Nel caso di Edvard Moser – vincitore del Nobel per la medicina nel 2014, con la moglie May-Britt Moser e con il suo mentore di gioventù John O’Keefe – l’emozione è ancora più grande anche per la sua giovane età e per il tipo di ricerche che l’hanno portato all’ambito traguardo. Ma Moser è una persona alla mano e cordiale, con la semplicità tipica dei nordici che disdegnano i segni esteriori di superiorità. Sarà anche per questo che il curriculum della coppia (aggiornato a poco prima del Nobel) è scaricabile dalla rete con tanto di numero di telefono privato.
«Ha fatto bene a dirmelo», afferma sorridendo. «Forse è il caso che avverta May-Britt e le dica di oscurare almeno il cellulare. Ma no, se non ci ha chiamato nessuno di sgradevole in questi mesi, perché dovrebbero cominciare proprio ora?».
Moser e la moglie dirigono il Kavli Institute for Systems Neuroscience e il Centre for the Biology of Memory della University of Science and Technology di Trondheim, in Norvegia, paese in cui entrambi sono nati e hanno studiato.
Avete vinto il premio Nobel per la medicina e la fisiologia con uno studio che non ha ricadute cliniche ma è prezioso solo per amore di conoscenza. Non trova che questo sia fantastico?
Certo che lo è! È curioso che lei lo sottolinei, perché è la prima cosa a cui ho pensato quando ho saputo della vittoria. Posso dire tranquillamente che non me lo sarei mai aspettato. Non lo immaginavo neppure, proprio perché, anche quando premia le ricerche di base, il comitato per il Nobel ha sempre un occhio alle ricadute per la salute umana. È possibile che un giorno le nostre ricerche servano a riparare i sistemi cognitivi alterati da patologie neurodegenerative, ma certamente questo non è il loro scopo e, al momento, non mi pare neppure una prospettiva a breve termine.
La motivazione del premio è stata ampiamente divulgata dalla stampa, ma può raccontarci con parole sue che cosa esattamente avete scoperto?
Tutto è nato dalla nostra permanenza presso il laboratorio di John O’Keefe, all’inizio della nostra carriera scientifica. È lui che ha scoperto i neuroni che, nell’ippocampo, la struttura che fa da magazzino delle nostre memorie, sono responsabili del ricordo dei luoghi. Secondo il suo modello, l’ippocampo ha una mappa cognitiva per la memoria spaziale.
Tornati nel nostro paese abbiamo continuato a registrare l’attività di questi neuroni nei ratti e per capire come funzionavano abbiamo disattivato parzialmente le aree che li contengono. È stato così che abbiamo scoperto che l’ippocampo non lavora da solo: ha bisogno di interagire con la corteccia entorinale, che è strettamente adiacente e agisce come una sorta di hub in cui si incontrano tutti i network che ci aiutano a trovare la strada quando ci muoviamo nell’ambiente. La nostra scoperta più importante è stata quella delle cellule a griglia, o grid cell, che si trovano proprio a livello della corteccia entorinale e si attivano quando l’animale si trova in una determinata posizione nello spazio. In pratica le cellule a griglia sono una mappa interiore del mondo che agisce come una sorta di GPS, permettendo di orientarci.
May-Britt e io abbiamo studiato le diverse tipologie di cellule che contribuiscono all’autolocalizzazione, abbiamo capito come l’output di queste cellule viene usato dai sistemi di memoria dell’ippocampo e come le memorie episodiche – ossia quelle degli avvenimenti
della nostra vita – vengono separate da tutte le altre, all’interno dell’ippocampo, fin dalle prime fasi del loro immagazzinamento.
È molto interessante, ma che c’è di tanto speciale in questa scoperta da meritare il Nobel? In fondo vi sono altri circuiti cerebrali che sono stati studiati approfonditamente, altre popolazioni cellulari importanti per la comprensione delle funzioni cognitive, come per esempio i neuroni specchio, anche se non sappiamo ancora tutto su di loro. Perché un premio così prestigioso alle cellule a griglia?
Innanzitutto perché la scoperta dei neuroni a griglia e del modo con cui controllano la dinamica delle popolazioni cellulari nell’ippocampo ha portato a una revisione delle teorie su come il cervello di un individuo calcola la propria posizione. La capacità di elaborare mappe spaziali è diventata una delle prime funzioni cognitive non dipendenti da afferenze sensitive a essere caratterizzata a livello meccanicistico in un preciso network di neuroni.
Le cellule a griglia sono speciali perché il modo con cui si attivano segue una struttura spaziale simile a quella dei cristalli e soprattutto perché questi neuroni non scaricano in risposta a un input sensoriale: l’intero processo nasce e si sviluppa quasi esclusivamente all’interno del cervello. Con la scoperta delle cellule di posizione di O’Keefe e delle cellule a griglia, più altre tipologie di cellule localizzate spazialmente analizzate in diversi laboratori nel mondo, è stato possibile studiare il sistema computazionale alla base dell’orientamento spaziale indipendentemente dagli stimoli in entrata e persino dall’output motorio. Quindi è la prima volta che abbiamo un modello computazionale puro di una funzione cognitiva. E secondo noi è un modello valido anche per altre funzioni di memoria, una sorta di prototipo, ma su questa teoria stiamo ancora lavorando.
Tornando al Nobel, non si può negare che il fatto che siate una coppia nella vita così come nel lavoro abbia colpito le persone. Era dai tempi dei coniugi Curie che non accadeva un fatto simile. Come avete fatto a portare avanti un percorso parallelo dal liceo fino a questo momento?
Da qualche mese non fanno altro che farci questa domanda, specie nei paesi mediterranei, ma sinceramente non capisco che cosa ci sia di così strano. Sono tante le coppie che lavorano insieme, perché dovrebbe essere diverso nella scienza?
In Italia, per esempio, non potreste avere una posizione di capo di laboratorio nella stessa università. C’è una legge che lo impedisce, per evitare i favoritismi.
Mi sta dando molte informazioni pratiche importanti stasera (ride). Vuol dire che se restiamo senza lavoro non applicheremo in Italia! Comunque, a parte gli scherzi, la nostra storia si è sempre sviluppata in parallelo. Abbiamo abitato entrambi in un’isola del nord della Norvegia, abbiamo frequentato lo stesso liceo, ma ci conoscevamo solo di vista. Ci siamo reincontrati all’università, ci siamo sposati prima di laurearci e prima della fine del dottorato avevamo anche due figli in comune. Anzi, tre... Perché la nostra ricerca è come un figlio, è un progetto comune che nessuno di noi due avrebbe potuto portare a termine senza l’altro. Dopo il dottorato siamo partiti, bagagli alla mano e con due bambini piccoli, alla volta della Scozia, ma siamo tornati perché l’Università di Trondheim ci ha offerto una posizione interessante.
Non capisco perché una tale comunanza di intenti, che può portare a grandi risultati nella scienza, debba essere bloccata dalla burocrazia. Per evitare i favoritismi basta usare strumenti obiettivi di valutazione meritocratica. Che cosa fanno due persone quando lasciano il laboratorio dovrebbe essere affar loro, non dell’università presso cui lavorano.
Sua moglie, in un’intervista rilasciata poco dopo il Nobel, ha detto che una delle cose che vi ha unito è il comune retroterra culturale. E anche la sua capacità di compiere gesti particolarmente romantici.
Ah, già, la storia dell’ombrello (ride). Ormai l’ha raccontata a tutti. Quando cercavo di conquistarla le regalai un ombrello chiuso. L’avevo riempito di foglietti con poemi su di lei. Quando l’ha aperto, tutti i foglietti le sono piovuti addosso. Ero giovane, avevo idee brillanti (ride).
Quanto al retroterra culturale, è vero. Siamo nati e cresciuti in quella che in Norvegia si chiama la «cintura della Bibbia». È una lascia di isole piuttosto piccole, nel Nord del paese, caratterizzate da una forte religiosità, una vita molto semplice e la persistenza di credenze magiche, come quella negli spiriti. May-Britt, in particolare, è nata in un ambiente rurale dove erano vietati l’alcool, i giochi d’azzardo e il ballo. Non è certo un mondo che sprona a intraprendere una carriera scientifica, ma le nostre famiglie erano un po’ speciali, e volevano per noi qualcosa di diverso. Per questo ci siamo ritrovati all’università, a studiare psicologia, ma con una forte propensione verso le neuroscienze e in particolare la neurofisiologia.
Che cosa vi ha spinto a intraprendere la strada della ricerca?
Eravamo curiosi. E volevamo specializzarci in neurofisiologia. Così appena prima della laurea chiedemmo un colloquio con il professore con cui poi avremmo fatto il dottorato. Ci sedemmo nel suo studio, e all’inizio non sembrava molto convinto di noi. Ci disse che non aveva posto. Ma insistemmo talmente tanto, parlando per ore... Di fatto lo sequestrammo nel suo studio per un intero pomeriggio. May-Britt dice che eravamo talmente ignoranti di come si svolgono normalmente le cose nell’ambito accademico e di come si ottengono posizioni di questo tipo da sfiorare la maleducazione.
D’altronde eravamo i primi laureati delle nostre famiglie, e nella nostra cittadina d’origine i dottorandi di ricerca erano una specie
sconosciuta. Se penso a come seleziono oggi i miei studenti, a come conduco i colloqui, non posso che darle ragione. Ma ce l’abbiamo fatta. Qualcosa nel nostro entusiasmo deve averlo colpito.
È per proseguire i vostri studi in neurofisiologia che siete andati in Scozia, da O’Keefe. Che cosa volevate imparare?
Essenzialmente il nostro obiettivo era apprendere la tecnica di registrazione dei singoli neuroni che aveva permesso a O’Keefe di trovare le cellule di posizione. Però, nel poco tempo che abbiamo trascorso con lui, abbiamo anche capito come separare, almeno in parte, le nostre strade per renderle complementari. May-Britt ama la vita di laboratorio: è lei che disegna gli esperimenti con gli animali e che ha una mano speciale nella registrazione con gli elettrodi, io ormai mi occupo solo di modelli computazionali e di analisi dei dati. Ma pensiamo insieme, e questa è la nostra forza: possiamo vedere l’evoluzione
del nostro esperimento dalla cellula al modello matematico. E infatti quando l’Università di Trondheim ci ha richiamati abbiamo contrattato le condizioni: non ci interessava un solo posto di lavoro, ne volevamo due. E volevamo anche la strumentazione necessaria al proseguimento delle nostre ricerche. Hanno detto di sì. E nel 2005 è uscito su «Nature» il lavoro che ci ha portato al Nobel.
Quale futuro si immagina dopo un riconoscimento di questo tipo?
Spero di poter continuare a fare ricerca ad alto livello, siamo troppo giovani per diventare dei conferenzieri. Oggi sappiamo che a un estremo del processo cognitivo ci sono le cellule di posizione, all’altro le cellule a griglia e in mezzo molte cose che vanno ancora comprese a fondo. È un lavoro che richiede ancora dieci o vent’anni e che speriamo di riuscire a portare a termine. Abbiamo due figli ancora giovani, di 19 e 23 anni, che hanno bisogno del nostro sostegno. Abbiamo i nostri dottorandi e post-doc da educare. Speriamo di potere offrire ai migliori di loro una prospettiva nel mondo della ricerca. Insomma, abbiamo tante cose da fare.
Sul finire dell’intervista non riesco a evitare di dire a Moser che ho molto apprezzato il vestito che sua moglie si è fatta fare per la cerimonia del Nobel: un abito lungo blu notte con un ricamo di cristalli che riprendeva la forma dei neuroni da lei studiati. Un vestito che è allo stesso tempo un richiamo alla propria carriera scientifica, un gioco ironico e una rivendicazione di femminilità. «È vero, era proprio bella!», esclama il ricercatore stringendomi la mano.
Colpita dal suo entusiasmo, mi dimentico di fargli l’ultima domanda: da nessuna parte ho trovato un cognome da nubile di sua moglie. O nella loro isola d’origine Moser è un cognome molto comune, oppure ci sono sodalizi talmente forti da rendere inutile specificare che si è nati in un’altra famiglia.