Anna Gojowsky; Anna Gielas, Mente&Cervello 27/3/2015, 27 marzo 2015
LINGUAGGI NON VERBALI
Sul volto degli spettatori si dipingono stupore e incredulità: Thorsten Havener ha smascherato l’assassino al primo tentativo. I partecipanti scelti tra il pubblico avevano assunto il ruolo di vittima, testimone, giardiniere o assassino in base alla carta che avevano estratto di nascosto. E nel corso del gioco hanno cercato di camuffare la propria identità: alle domande del mentalista tedesco hanno dato tutti le stesse risposte. Eppure sembrava che Havener fosse capace di leggere nei loro pensieri. Alla fine ha indovinato il ruolo di ciascuno, e tutti si sono chiesti: «Ma come fa?».
Havener, che ha studiato da interprete, ha tranquillizzato il pubblico: non è in grado di leggere il pensiero. In alcuni numeri entrano in gioco elementi da spettacolo di magia, la suggestione, un’abile conduzione del discorso e le leggi della probabilità. Ma, come spiega lui stesso, Havener è soprattutto un attento osservatore: analizza i segnali non verbali dell’interlocutore, dalla gestualità al tono di voce, dalla postura ai dettagli della mimica.
Ma davvero il linguaggio del corpo rivela i nostri pensieri e le nostre emozioni? Per i ricercatori questa domanda non è una novità. Già all’inizio del XVII secolo il filosofo inglese Francesco Bacone definiva il body language un elemento decisivo della comunicazione: «Come la bocca sussurra all’orecchio, il movimento sussurra all’occhio», scrisse nel 1605. Secondo Bacone, chi presta attenzione ai gesti e alla mimica ha un netto vantaggio: il suo consiglio quindi era di analizzare il linguaggio del corpo in modo più approfondito.
E in effetti questa teoria è stata approfondita nel corso dei secoli, ma ci è voluto parecchio tempo perché diventasse un campo scientifico a sé stante. Solo dalla metà degli anni sessanta istituzioni come la Stanford University hanno preso in esame in modo sistematico la «comunicazione non verbale», che non comprende solo i movimenti visibili del corpo come mimica, gestualità e postura: gli psicologi osservano anche, tra le altre cose, il modo in cui si parla – a voce alta o bassa – in maniera scorrevole o stentata, con un tono melodico oppure monotono.
Oggi il linguaggio del corpo è oggetto di ricerche in tutto il mondo, e le nuove conoscenze mettono in dubbio gran parte di ciò che credevamo di sapere sull’argomento. «Mente&Cervello» risponde a nove grandi domande sulla comunicazione non verbale in base allo stato attuale della ricerca.
1. Come è nato il linguaggio del corpo?
Su questo punto esistono opinioni diverse. Già il naturalista britannico Charles Darwin, nel suo trattato L’espressione dei sentimenti nell’uomo e negli animali, scriveva: «Perché le nostre espressioni emotive assumono forme particolari? Perché arricciamo il naso se siamo disgustati e spalanchiamo gli occhi se siamo colti dalla paura?». Il padre della teoria dell’evoluzione arrivò alla conclusione che le principali espressioni emotive – così come la capacità di riconoscerle siano innate.
Darwin osservò infatti l’espressione della sorpresa – sopracciglia alzate, occhi sbarrati e bocca aperta – in varie culture, nei bambini ciechi e sordi dalla nascita e perfino in alcuni animali. Secondo il naturalista la mimica svolge una funzione non solo comunicativa, ma anche biologica: quando siamo sorpresi «spalanchiamo gli occhi per ampliare il campo visivo». Quindi la mimica potrebbe avere aiutato i nostri antenati a riconoscere e valutare i pericoli imminenti.
Secondo uno studio di Adam Anderson e del suo team alla Cornell University, pubblicato nel 2014, si può ritenere che alcune espressioni del volto negli esseri umani rappresentassero un tempo proprio l’adattamento più opportuno alle situazioni di pericolo. Anderson ha analizzato il modo in cui la capacità visiva cambia con la mimica. Quando nel test i soggetti spalancavano gli occhi per la paura, grazie alla maggiore incidenza della luce percepivano più facilmente alcuni minuscoli punti luminosi. Se invece per il disgusto arricciavano il naso e strizzavano gli occhi, riuscivano a distinguere meglio i dettagli, quindi avevano una visione più acuta.
L’origine dei gesti è in gran parte sconosciuta, ma può darsi che i nostri progenitori, quando ancora non disponevano del linguaggio, abbiano avuto la felice intuizione di esprimere ciò che desideravano imitando la relativa azione. Oggi sappiamo che nel cervello si attivano le stesse regioni quando si esegue un movimento e quando ci si limita a osservarlo. Questo rispecchiarsi nella mente ci aiuta a riconoscere le intenzioni degli altri.
LEE D.H. e altri, in «Psychological Science», Vol. 25, pp. 745-752, 2014.
2. Gesti e mimica sono identici in tutte le culture?
È così soltanto per alcuni segnali non verbali. Nell’uso dei gesti esistono infatti molte differenze da un paese all’altro: basti pensare al «nostro» modo di annuire e scuotere la testa, che in India provoca inevitabilmente dei malintesi. Secondo la psicologa Cornelia Müller, della Libera Università di Berlino, i gesti non sono innati: si imparano, sono influenzati da fattori culturali e quindi hanno un’utilità limitata come mezzo di comprensione universale.
E nel caso della mimica? Darwin fu il primo a ipotizzare che le persone di tutto il mondo accompagnassero le proprie emozioni con le stesse espressioni del volto. Lo psicologo Paul Ekman riprese questa idea e, più di quarant’anni fa, partì per Papua Nuova Guinea in cerca di abitanti nativi non ancora venuti in contatto con la civiltà occidentale. Il ricercatore diede loro il compito di abbinare storie legate a determinate emozioni con le corrispondenti espressioni del volto. I nativi scelsero senza esitare le stesse espressioni degli occidentali. Ekman concluse così che esistono almeno sei emozioni di base comprensibili con la mimica in tutte le culture: gioia, rabbia, disgusto, paura, tristezza e sorpresa.
Con il suo collega Wallace Friesen, Ekman mise a punto il Facial Action Coding System, che descrive le espressioni mimiche in base a unità di azione (action unit) ben definite. La mimica del disgusto, per esempio, nasce in qualsiasi persona dalla somma di tre unità di azione: numero 9, arricciare il naso; numero 15, abbassare gli angoli della bocca; e numero 16, storcere il labbro inferiore.
Numerosi ricercatori tendono però a sminuire l’ipotesi delle emozioni base universali. Un team guidato dalle psicologhe Maria Gendron e Lisa Feldman Barrett ha presentato diversi ritratti fotografici ad alcuni pastori namibiani del popolo Himba. Nelle immagini erano ritratti alcuni afroamericani che esprimevano emozioni diverse, in base alle quali gli Himba dovevano classificare le foto. I partecipanti le avrebbero suddivise secondo le emozioni base? Come riportato dal team di ricerca nel 2014, i namibiani hanno sì raggruppato tutti i volti sorridenti e tutti quelli impauriti, ma hanno mischiato rabbia, disgusto e tristezza molto più spesso dei volontari occidentali. Ciò non significa che siano meno capaci di leggere i volti, ma piuttosto che presumibilmente, in persone di culture diverse, le rappresentazioni interiori delle emozioni – ossia ancorate nel cervello – sono a loro volta diverse.
EKMAN P., in «American Psychological Association», Vol. 48, pp. 384-392, 1993; GENDRON M. e altri, in «Emotion», Vol. 14, pp. 251-261, 2014.
3. Davvero uno sguardo dice più di 1000 parole?
«Il linguaggio del corpo costituisce il 93 per cento della nostra comunicazione». Questo numero, che da quasi mezzo secolo infesta la letteratura popolare, è stato introdotto dallo psicologo Albert Mehrabian, che in due studi del 1967 affermò: «La nostra comunicazione è determinata al 7 per cento dal contenuto linguistico, al 38 per cento dall’espressione vocale e al 55 per cento dalla mimica». Oggi questa famosa citazione di Mehrabian è nota come la «regola del 7-38-55». Eppure perfino allo psicologo questa definizione non piace affatto: i suoi studi si riferivano infatti solo alle situazioni in cui qualcuno parla di questioni personali. In questo caso, in base al linguaggio del corpo è molto facile indovinare i pensieri di chi parla. Inoltre, numerose ricerche smentiscono la validità universale della regola del 7-38-55. Eppure le percentuali di Mehrabian continuano ostinatamente a resistere.
Una cosa è certa: mimica e gestualità ci aiutano a capire gli altri e a trasmettere efficacemente i concetti desiderati. In uno studio pubblicato nel 2010 da Trevor Dodds, del Max-Planck-Institut für biologische Kybernetik di Tubinga, due volontari comunicavano tramite avatar che rilevavano e riproducevano i movimenti delle braccia dei soggetti reali. Come nel noto gioco di società «Taboo», uno dei due doveva descrivere un termine, per esempio «nuotare», senza rivelare alcune parole correlate, e il compagno doveva indovinarlo. I ricercatori hanno osservato che le coppie in gioco ottenevano risultati nettamente migliori se entrambi usavano gesti che venivano trasmessi all’avatar. Se invece uno degli avatar restava immobile, il punteggio era molto più basso: in tre minuti venivano indovinate circa due parole in meno.
Altri studi dimostrano che facciamo affidamento sul linguaggio del corpo soprattutto quando le parole non permettono di identificare con sicurezza l’intenzione di una domanda, per esempio se un estraneo ci chiede se abbiamo programmi per la serata. Secondo il ricercatore nordirlandese Owen Hargie, è grazie alla comunicazione non verbale che capiamo, per esempio, se questa persona vuole un appuntamento con noi o se dimostra interesse per gentilezza. E un altro studio ha concluso che, in caso di contraddizione tra parole e gesti, ci fidiamo più dei segnali non verbali. Se per esempio il nostro interlocutore dice che sta bene, ma il suo linguaggio del corpo segnala il contrario, crediamo di più ai nostri occhi.
ANDERSEN P.A., Nonverbal Communication: Forms and Functions, McGraw-Hill, New York 1999; DODDS T. e altri, in «PLoS One», Vol. 6, 2011; HARGIE 0., Skilled Interpersonal Interaction: Research, Theory, and Practice, Routledge, Londra, 2011.
4. Si possono scoprire i bugiardi dal loro linguaggio del corpo?
Sguardo sfuggente e mani tremanti non sono sintomi inequivocabili di una menzogna. E inoltre i bugiardi non guardano nell’angolo in basso a sinistra, come sostengono alcuni. In realtà la mancanza di contatto visivo può avere così tante cause che, affidandosi a questo luogo comune, è facile sbagliare. Gli psicologi statunitensi Charles Bond Jr. e Bella DePaulo hanno analizzato in un metastudio oltre 200 ricerche sul linguaggio del corpo nei bugiardi e hanno constatato che in media smascheriamo solo il 54 per cento delle bugie. Tanto varrebbe tirare a indovinare o lanciare una monetina.
Ciò non significa però che il linguaggio del corpo non dia alcun indizio sul fatto che una persona abbia qualcosa da nascondere. Secondo Julia Shaw, della University of British Columbia a Okanagan, in Canada, gran parte degli studi dicono poco o niente su quanto spesso gli addetti alla sicurezza o i professionisti del settore forense riescano a identificare i criminali in base al loro comportamento non verbale. Per come sono allestiti, infatti, gli studi rappresentano la realtà in modo incompleto: le bugie con un alto contenuto emotivo, per esempio negare un omicidio o il possesso di armi, hanno uno spessore nettamente diverso da quelle dette nell’ambito di un test psicologico.
Per il suo studio Shaw ha usato alcuni video in cui entravano in gioco bugie del calibro più pesante: nei filmati si vedevano persone che lanciavano un appello pubblico alla ricerca di familiari scomparsi. In metà dei casi, però, si era poi scoperto che loro stessi li avevano uccisi. Il gruppo di controllo, non addestrato, qualche volta indovinava per caso quali fossero i criminali. Partecipando a un workshop, alcuni psichiatri, psicologi e giuristi hanno imparato ad abbandonare concezioni superate sul riconoscimento delle bugie e a fare attenzione agli indizi effettivi. In seguito hanno individuato i colpevoli addirittura nell’81 per cento dei casi.
Paul Ekman e Maureen O’Sullivan hanno testato la capacità di riconoscere le bugie in circa 20.000 persone. Secondo i ricercatori, circa 50 di loro hanno raggiunto una quota di successo intorno all’80 per cento. Queste persone riuscivano, per esempio, ad accorgersi di cambiamenti molto fugaci nel volto, spiega Ekman. Queste «microespressioni», che durano poche frazioni di secondo, sono difficili da reprimere deliberatamente. In effetti, i ricercatori hanno scoperto che spesso questi straordinari rilevatori di bugie lavoravano per i servizi segreti. In conclusione: l’analisi del linguaggio del corpo non permette di smascherare con sicurezza un criminale. Ma a volte può servire a decidere se vale la pena di approfondire le indagini su un sospetto.
BOND C. Jr. e DePAULO B.M., in «Personality and Social Psychology Review», Vol. 10, pp. 214-234, 2006; SHAW J. e altri, in «Journal of Forensic Psychiatry and Psychology», Vol. 24, pp. 145-159, 2013.
5. Quali sono gli indizi di una bugia?
Per distinguere verità e bugie si può sfruttare la teoria del Cognitive Load Approach di Aldert Vrij. Secondo questo psicologo statunitense la menzogna, rispetto alla sincerità, impegna maggiormente le capacità mentali: se dire la verità è un processo automatico, per mentire bisogna invece concentrarsi sulla storia inventata e reprimere la verità. Al tempo stesso, in genere il bugiardo osserva il comportamento dell’interlocutore per vedere come recepisce la menzogna, e controlla il proprio linguaggio del corpo per non tradirsi. Secondo Vrij, a causa di questo sforzo i bugiardi hanno bisogno di più tempo per rispondere, e muovono meno le mani e i piedi.
Per i bugiardi la situazione diventa ancora più critica se si impone loro, senza farsi notare, un ulteriore compito. L’attenzione dei bugiardi, continua Vrij, è fortemente ridotta se sono impegnati anche in qualcos’altro, per esempio guidare. Inoltre Vrij ha osservato che le menzogne diventano più facili da scoprire se l’interessato deve mantenere il contatto visivo con l’interlocutore.
Le ricerche dimostrano che di solito, quando diciamo la verità, tendiamo a muovere le mani in un determinato modo: quindi sembra che l’espressione «mettersi la mano sul cuore» non sia solo un modo di dire. In un esperimento, gli psicologi polacchi Michal Parzuchowski e Bogdan Wojciszke hanno osservato che i partecipanti erano più sinceri quando si mettevano una mano sul torace. Secondo altri studi, anche i palmi delle mani distesi e rivolti in alto sono indizi di sincerità.
Tuttavia gli esperti di linguaggio del corpo, come lo psicologo David McNeill, dell’Università di Chicago, consigliano di non generalizzare: in base alla situazione, un gesto può avere significati diversi. Per esempio i palmi delle mani aperti e rivolti in alto possono mettere in risalto la sincerità di chi parla, ma anche esprimere una richiesta: «Vorrei qualcosa da te, ti prego di fare ciò che ti chiedo». In altre parole, proprio come le bugie, anche la verità non si può riconoscere con certezza da singoli elementi della gestualità o della mimica.
McNEILL D., Gesture and Thought, University of Chicago Press, Chicago 2005; PARZUCHOWSKI M. e altri, in «Cognitive Processing», Vol. 15, pp. 237-244, 2014; VRIJ A. e altri, in «Journal of Investigative Psychology and Offender Profiling», Vol. 5, pp. 39-43, 2008.
6. Le donne capiscono il linguaggio del corpo meglio degli uomini?
Secondo alcuni studi, spesso le donne hanno capacità verbali leggermente migliori degli uomini. Ma sono più abili anche nell’interpretare il linguaggio del corpo? Le ricerche dimostrano che, mentre le donne riescono a riconoscere i sentimenti più dalla mimica che dai suoni, tra gli uomini spesso avviene il contrario. Ed è importante non solo il canale su cui si trasmettono le informazioni non verbali, ma anche il tipo di sentimenti espressi: Arseny Sokolov, dell’Università di Tubinga, ha raffigurato, tramite puntini sul monitor di un computer, un braccio stilizzato che bussava a una porta in modo allegro, neutro o aggressivo. Nel complesso le donne sono riuscite meglio ad attribuire ai vari disegni le emozioni corrispondenti, ma sono state particolarmente brave a riconoscere i movimenti aggressivi. Gli uomini invece hanno ottenuto risultati migliori con i movimenti che esprimevano buon umore.
Le cause di queste differenze si trovano effettivamente nei geni o invece le abilità di uomini e donne con il linguaggio del corpo sono influenzate da fattori sociali? Marta Eriksson ha confrontato i dati relativi a oltre 13.000 bambini, appartenenti a dieci gruppi linguistici europei, nei primi mesi di vita. Quanto spesso i bambini indicavano per mostrare qualcosa ai genitori? Quanto spesso mandavano baci? Il risultato: le femmine usavano una gamma di gesti più ampia rispetto ai maschi.
ERIKSSON M. e altri, in «British Journal of Developmental Psychology», Vol. 30, pp. 326-343, 2011; MONTAGNE B. e altri, in «Cognitive Processing», Vol. 6, pp. 136-141, 2005; SOKOLOV A. e altri, in «Frontiers in Psychology», Vol. 2, 2011.
7. Come fa il cervello a elaborare le informazioni non verbali?
Sono emersi vari indizi del fatto che il linguaggio verbale e quello del corpo siano coinvolti negli stessi processi cerebrali. Per esempio, i gesti e le parole pronunciate sono elaborati nelle stesse reti neurali, come ha scoperto Jiang Xu, del National Institutes of Health di Bethesda, negli Stati Uniti. I partecipanti al suo esperimento, sdraiati in una macchina per la risonanza magnetica, hanno osservato alcune foto di spettacoli di mimo. La valutazione dell’attività cerebrale ha mostrato che venivano stimolate regioni come l’area di Broca e quella di Wernicke, le aree del linguaggio. Quindi si può presupporre che questi sistemi neurali non si limitino all’elaborazione della lingua ma, a prescindere dal tipo di informazioni, abbiano il compito di attribuire un significato agli stimoli.
Il linguaggio e la gestualità però non condividono solo i punti di elaborazione nel cervello: sembra infatti che si colleghino tra loro molto presto nel processo della percezione.
Spencer D. Kelly, della Colgate University, ha analizzato la reazione ai segnali del linguaggio del corpo tramite l’elettroencefalografia, che rappresenta in modo molto preciso lo sviluppo temporale delle reazioni cerebrali. I partecipanti al suo esperimento, con alcuni elettrodi fissati sul cuoio capelluto, hanno osservato filmati in cui una persona descriveva un oggetto che aveva davanti a sé – per esempio un bicchiere – usando un aggettivo e un gesto. Nella condizione di controllo, il gesto corrispondeva all’aggettivo e all’oggetto corrispondente: un bicchiere grande era definito come tale sia verbalmente sia con il relativo gesto. Se invece il significato del gesto era del tutto estraneo a quello dell’aggettivo o dell’oggetto, questa mancata corrispondenza si rispecchiava nell’EEG: i ricercatori hanno osservato, dopo esattamente 400 millisecondi, uno sbalzo negativo piuttosto forte. Questo caratteristico «segnale di sorpresa» è noto già da tempo ai neuroscienziati che studiano l’elaborazione del linguaggio verbale: si manifesta, per esempio, quando si sente dire «Ha riempito il panino di calze».
Un aspetto interessante di questo esperimento è che gli elettrodi hanno registrato una differenza tra un gesto adatto e uno inadatto già dopo 200 millisecondi, ossia in un momento in cui, secondo i ricercatori, l’analisi del significato non è ancora in una fase avanzata. Evidentemente il cervello elabora quasi fin dall’inizio il segnale verbale in relazione a quanto espresso dal gesto.
KELLY S.D. e altri, in «Brain and Language», Vol. 89, pp. 253-260, 2004; XU J. e altri, in «Proceedings of the National Academy of Sciences», Vol. 106, pp. 20664-20669, 2009.
8. In che misura riusciamo a capire il nostro stesso linguaggio del corpo?
La nostra capacità di leggere la mimica e la gestualità di noi stessi è sorprendentemente scarsa, secondo il team di Wilhelm Hofmann, dell’Università di Würzburg. In un primo momento i partecipanti all’esperimento di Hofmann si sono sottoposti a un test ingegnoso: senza rendersene conto, con le loro risposte hanno fornito informazioni importanti sulle proprie tendenze e convinzioni. Nella fase successiva dello studio i volontari hanno osservato le registrazioni del proprio linguaggio del corpo e quindi, in base ai video, hanno dovuto valutare l’effetto dei propri gesti e infine il proprio carattere.
Inoltre hanno osservato i filmati di altri individui, traendo conclusioni su ciascuno di loro. Il risultato è stato sorprendente: la valutazione del proprio linguaggio del corpo discordava con i risultati del test di personalità. Anzi, i partecipanti hanno dato giudizi più corretti sugli altri che su loro stessi.
HOFMANN W. e altri, in «European Journal of Personality», Vol. 23, pp. 343-366, 2009.
9. Si può imparare a capire meglio il linguaggio del corpo?
Per sviluppare la sensibilità verso i segnali non verbali servono molto esercizio e un riscontro sulla correttezza della propria valutazione. Lo ha dimostrato, per esempio, un esperimento di Hillary Anger Elfenbein, dell’Università della California a Berkeley. Dato che il riconoscimento dei volti è specializzato sulla fisionomia centroeuropea, per noi i volti degli altri gruppi etnici si assomigliano tra loro; anche la loro mimica ci è più difficile da interpretare. Ma la situazione può cambiare. La ricercatrice ha presentato a volontari statunitensi e cinesi immagini in cui dovevano riconoscere sentimenti come rabbia, gioia o sorpresa. Le foto raffiguravano statunitensi bianchi o cinesi, con una mimica varia.
Durante un training è stato comunicato ai partecipanti se avevano interpretato correttaniente le emozioni espresse nelle immagini. Inizialmente i partecipanti avevano ottenuto risultati migliori nel giudicare i volti dei propri connazionali, ma durante il training hanno migliorato la propria comprensione degli stati d’animo in base alla mimica, e non solo: è diventata meno influente l’appartenenza dei volti a un gruppo etnico o all’altro.
ELFENBEIN H.A., in «Journal of Nonverbal Behaviour», Vol. 30, pp. 21-36, 2006.
Riviste e manuali sono pieni di luoghi comuni come «Se lui si passa le mani sulla bocca non ci sono dubbi: lei gli piace». La speranza è di imparare a leggere nel pensiero padroneggiando l’ABC del linguaggio del corpo. Gli psicologi però avvertono di non prendere sul serio queste interpretazioni: il linguaggio del corpo è troppo variabile in base alla situazione e al singolo individuo. Anche Thorsten Havener spiega che non si affida a gesti stereotipati, ma cerca di capire come si esprimano la verità o la bugia nella mimica di una determinata persona. L’idea che bastino un paio di trucchetti per scoprire sugli altri più di quanto loro stessi vogliano rivelare sarà pure affascinante, ma è sbagliata.